01 maggio 2011

La nuova emigrazione è quella dei ricchi: talenti e risorse se ne vanno

I ricchi cinesi emigrano. È forse questa la scoperta più curiosa del 2011 China Private Wealth Study, a cura della China Merchants Bank e dell'agenzia di consulenza Bain & Company.
È una nuova onda iniziata da un paio d'anni, che segue quella degli intellettuali (anni Settanta) e dei "talenti tecnologici" (anni Novanta).
Il Dragone, terra promessa per chi vuole fare business o comunque svoltare collocandosi nella parte più dinamica del mondo, si trasforma automaticamente in un luogo da cui fuggire mano a mano che il patrimonio sale.

Almeno il sessanta per cento dei cinesi ad alto reddito è emigrato all'estero o ha intenzione di farlo. Per "alto reddito" si intendono gli individui che dispongono di almeno 10 milioni di yuan (poco più di un milione di euro) da investire. Attualmente sono circa 500mila; se la media si attesta sui 30 milioni (poco meno di 3 milioni e 150mila euro) di patrimonio, tra di loro c'è anche un'élite di ricchissimi - circa ventimila persone - che dispone di almeno 100 milioni di yuan (10 milioni di euro e briciole). La fetta di ricchezza complessiva di cui dispongono questi paperoni cinesi è stimata sui 15mila miliardi di yuan e dovrebbe salire a 18mila miliardi il prossimo anno.

Emigrano soprattutto negli Usa, in Canada, Gran Bretagna e Australia. Paesi dove trovano migliori scuole per i loro figli e schemi pensionistici più vantaggiosi. Queste sono le ragioni che i più indicano all'origine della propria scelta. Le tasse invece non c'entrano, visto che solo il sei per cento dichiara di andarsene dalla Cina per l'eccessivo carico fiscale.
Nessun riferimento a un'eventuale scelta politica, ma forse non era quello l'oggetto d'indagine della ricerca. D'altra parte stiamo parlando del ceto di nuovi ricchi che ha beneficiato delle peculiarità insite nel sistema cinese, al suo interno ha costruito le proprie fortune anche grazie alla deregulation nel mercato del lavoro e alla compressione dei salari. Perché dovrebbero criticarlo?
Se ne vanno grazie a speciali programmi messi i piedi dai Paesi che li ospitano e che legano permessi di immigrazione a investimenti in loco. I laowai (stranieri) accolgono loro ma, soprattutto, i loro portafogli.

E così noi li vediamo fare shopping nelle capitali del mondo - soprattutto quello anglosassone - senza sapere che proprio lì vivono. A volte, qualche governo si preoccupa un po'. Così, per esempio, di fronte al raddoppiamento dell'immigrazione cinese tra il 2008 e il 2010, il Canada ha pensato bene di raddoppiare anche il livello minimo di investimento per concedere il visto: almeno 1,6 milioni di dollari canadesi (poco più di un milione di euro) in patrimonio netto. Li vogliamo ricchi, ma ricchi davvero.

Questo esodo pone un paio di quesiti alla Cina stessa.
Primo. Quanta ricchezza di quella che i ricchi emigranti esportano con la propria persona ritorna poi in Cina sotto forma di rimesse o nuovi investimenti?
Secondo (collegato al primo). Il Dragone non riconosce la doppia nazionalità. Se uno emigra, perde il passaporto cinese. Non sarà forse il caso di rivedere questa normativa per evitare che un ricco se ne vada definitivamente, senza restituire nulla al Celeste Impero?

Su Global Times - versione pop del Quotidiano del popolo - un commento stigmatizza il fenomeno e si chiede come arginarlo. Chiunque - si legge - ha diritto di investire e risiedere dove gli pare, ma il fatto che questo determini un fuggi fuggi di ricchezze e (soprattutto) talenti rivela che è proprio il sistema cinese a non funzionare. O a non funzionare più.
Bisogna quindi offrire più qualità di vita, sia ai ricchi sia ai poveri, e Global Times insiste su un'idea allargata di welfare: "Le persone che dispongono di grandi fortune perseguono uno stile di vita altamente qualitativo, ma in Cina il welfare pubblico e i servizi, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria, sono ben lungi dal soddisfare le aspettative della gente comune, figuriamoci dei ricchi.
Un esempio è quello della sicurezza alimentare. Recenti statistiche rivelano che, se il 99,8 dei generi alimentari destinati all'esportazione rispettano i requisiti di sicurezza, la percentuale destinata al mercato interno scende sotto il 90 per cento."

È una soluzione che tiene insieme i destini di chi ha e chi non ha: tutti vogliono migliorare il proprio status, nessuno vuol finire avvelenato da cibi più scadenti di quelli export-oriented.
Ma non tiene conto del fatto che gli interessi, con i redditi, divergono. Quando si parla di welfare, ci vuole qualcuno che lo finanzi attraverso tasse e investimenti sul territorio. Il multimilionario che salta sul primo aereo per Vancouver non sembra di questo avviso.

La Cina riscopre le divisione in classi e proprio nel momento in cui vuole ridurre il divario tra ricchi e poveri, è pugnalata alle spalle dai suoi paperoni: quelli che proprio il sistema ha prodotto e che oggi non accettano di redistribuire le proprie risorse.
di Gabriele Battaglia

30 aprile 2011

Referendum, Tozzi: “Il governo vuole tutelare se stesso e le lobby”

Non solo il terrore per il quesito sul legittimo impedimento. Secondo il geologo, i piani del governo per inficiare i quesiti su nucleare e acqua servono per tutelare i gruppi industriali che trarranno beneficio dai piani del governo. Che sono sospesi solo temporaneamente
“I have a dream: un governo che, quando si trova a lagiferare su questioni di carattere energetico-ambientale, si affidi a un comitato scientifico”. A parlare così è Mario Tozzi, geologo, divulgatore e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano che sottolinea come la classe politica nostrana sia l’unica a non avvalersi di un consiglio di esperti in materia di ambiente ed energia. “Sarkozy, Obama e tutti gli altri leader – attacca Tozzi – si affidano a un comitato indipendente di scienziati che indirizza le loro politiche, il governo italiano se ne guarda bene”.

L’esempio più lampante di quanto sostiene il geologo, sono i principali maître à penser del ritorno italiano al nucleare: Chicco Testa, laureato in filosofia ed ex ambientalista convertito all’atomo, e Umberto Veronesi che invece è un oncologo. Di fisici e ingenieri neanche l’ombra. “E’ perché in Italia su energia e ambiente si seguono solamente gli interessi delle lobby, per poi fare una clamorosa marcia indietro quando si avvicinano i referendum e quindi il voto popolare”, attacca Tozzi.

Il riferimento è ovviamente alle modifiche legislative apportate al decreto Omnibus che, secondo le intenzioni della maggioranza, deve scongiurare la tornata referendaria in programma per metà giugno. Lo scorso 20 aprile, la maggioranza smentiva se stessa votando favorevolmente il pacchetto di misure che metteva nel congelatore il tanto sbandierato ritorno all’energia atomica. Nel vertice italo-francese è stato lo stesso presidente del Consiglio a chiarire le motivazioni di quel provvedimento: “Il programma nucleare italiano è stato bloccato per fare fallire il referendum”.

Come il Fatto ha scritto più volte, il terrore di Berlusconi è che gli italiani oltre dire Sì all’abrogazione dell’atomo e dell’acqua privata, votassero anche la bocciatura della legge sul legittimo impedimento. Un colpo insostenibile per chi basa la sua legittimazione sul consenso popolare. Anche Tozzi la pensa così, ma ci mette il carico: “Berlusconi dice che quanto accaduto a Fukushima ha spaventato gli italiani e che la decisione della moratoria è stata fatta per permettere ai cittadini di tranquillizzarsi. Per poi, magari fra un anno, ripresentare lo stesso progetto tale e quale. Che tristezza! Il presidente del Consiglio considera il suo popolo non in grado di discernere fra emozione e ragione”. Detto in altro modo, secondo il premier, gli italiani non sono in grado di mantenere su due piani separati l’ondata emotiva per quanto accaduto a Fukushima e una seria riflessione sull’energia atomica.

Ora che il copione del nucleare si sta ripetendo anche sulle risorse idriche, con la presentazione di un decreto legge fatto ad hoc per depotenziare i due quesiti referendari, il piano del governo appare ancora più evidente. Ma, secondo Tozzi, l’imput a far saltare il voto del 12 e 13 giugno non arriva solo dal terrore di B. per il probabile raggiungimento del quorum con tanto di bocciatura della legge che lo tiene lontano dai tribunali. “I quesiti, così come sono stati formulati – sostiene il geologo – scardinano i piani di un settore importante del sistema industriale italiano: la lobby nucleare e quella dell’acqua privata. E Berlusconi, cercando di vanificare il referendum, ha voluto tutelare quei gruppi”. Non è un mistero che, ad esempio sull’acqua, i primi a parlare di manovre correttive sulla legge che privatizza le risorse idriche sono stati proprio gli imprenditori che gestiscono tale risorsa. Con Roberto Bazzano, presidente di Federutility, la federazione che riunisce i gestori degli acquedotti, che aveva detto: “Chiediamoci seriamente se non sia il caso di evitare un referendum che ha sempre più un taglio puramente ideologico”. Ma cosa vuole dire privatizzare l’acqua? “Fare pagare una bolletta maggiorata ai consumatori – risponde Tozzi – E’ già così: ad Agrigento o a Latina, dove gli acquedotti sono già in mani private il servizio costa caro. A Milano, dove l’acqua è pubblica, la bolletta è molto più leggera”.

In attesa di leggere il decreto legge che cercherà di mettere la parola fine anche al voto sull’acqua, Tozzi qualche conclusione la può già tracciare. “Berlusconi, ancora una volta, ha vinto perché è riuscito a fare passare l’idea che non ci sia più nessun bisogno di andare a votare. Che ci ha già pensato il governo ad accogliere le preoccupazioni degli italiani”.

Ma non si vuole rassegnare. Anche perché la Corte di Cassazione, l’organo che dovrà decidere se dopo le modifiche legislative i quesiti siano ancora ammissibili, non si è ancora espressa. “Nel frattempo io, come divulgatore scientifico, porto avanti la mia triplice battaglia: contro l’atomo, a favore dell’acqua pubblica e per affidare le questioni ambientali a persone con un minimo di conoscenza ed esperienza. Sarebbe davvero l’ora”.
di Lorenzo Galeazzi

29 aprile 2011

Una brutta favola



E’ bastata una telefonata del Presidente più giovane, abbronzato e convincente che ci sia per far cambiare idea al Premier più basso, tarchiato ed incompetente che l’Italia abbia mai avuto. Il cigno nero ha tramortito il brutto anatroccolo che non ha più alcuna speranza di crescere politicamente. Il mezzo Cavaliere con la mascherina da sodomita dopo aver dichiarato alla stampa di mezzo mondo che il nostro Paese mai avrebbe bombardato la Libia per non rinfocolare un passato infame di colonialismo ai danni del popolo nordafricano - col quale avevamo anche firmato un contratto di “risarcimento danni imperiali” al fine di accontentare il beduino della Sirte affamato di consenso e i belluini capitalisti nostrani affamati di commesse - si è rimangiato tutto associandosi ai 12 Stati che in questo momento stanno portando la democrazia a Tripoli col piombo e col sangue.

Adesso i bravi ragazzi della civiltà sono finalmente 13, come gli apostoli muniti di traditore. Il bacio della modernità seppellirà per sempre la Libia e la politica mediterranea del Belpaese a favore di statunitensi, francesi ed inglesi. Ma B. pare lo stesso accontentarsi ed invece di far sentire le saette all’altro nanetto di Parigi che crede di essere il Principe Azzurro o l’Angelo castigatore di ex modelle, magari ostacolando l’acquisto francese della Parmalat (non perché quest’ultima sia azienda strategica ma solo per far loro capire che non siamo la cenerentola del continente), gioca a vestire i panni della Bella addormentata nel bosco. Sembra una fiaba per bambini innestata su parabole bibliche, tra folletti, cavalieri, principi, fanciulle in abito da sposa e iscarioti pagati in dollari ma è invece un brutto incubo che porterà la nazione alla sfacelo in campo internazionale. Persino un re Travicello avrebbe fatto meno danni di questi presunti statisti di destra e di sinistra che si sentono eroi ma non hanno fegato né cervello. E come in ogni fiaba che si rispetti non poteva mancare nemmeno il Drago, anzi il Draghi. Il nostro presidente di Bankitalia è stato accreditato anche dai francesi, dopo aver ricevuto l’imprimatur dei Tedeschi, a guidare la BCE. Un buon affare, non per noi ovviamente visto che Draghi è solo la traduzione italiana dell’americano Dragons, creatura mitico-leggendaria partorita nel caveau della newyorkese Goldman Sachs. Un mostro che non sputa fuoco ma sentenze di morte sull’economia nazionale, una creatura serpentina che anziché volare preferisce farsi trasportare sui panfili reali come il Britannia per svendere le fortune statali. Così invece di farci un piacere la Francia ci dà il colpo di grazia. C’era una volta l’Italia libera e bella, più bella che libera a dir la verità, ed oggi non c’è più nemmeno quella. Qui ormai vivono tutti infelici e scontenti.
di Gianni Petrosillo

01 maggio 2011

La nuova emigrazione è quella dei ricchi: talenti e risorse se ne vanno

I ricchi cinesi emigrano. È forse questa la scoperta più curiosa del 2011 China Private Wealth Study, a cura della China Merchants Bank e dell'agenzia di consulenza Bain & Company.
È una nuova onda iniziata da un paio d'anni, che segue quella degli intellettuali (anni Settanta) e dei "talenti tecnologici" (anni Novanta).
Il Dragone, terra promessa per chi vuole fare business o comunque svoltare collocandosi nella parte più dinamica del mondo, si trasforma automaticamente in un luogo da cui fuggire mano a mano che il patrimonio sale.

Almeno il sessanta per cento dei cinesi ad alto reddito è emigrato all'estero o ha intenzione di farlo. Per "alto reddito" si intendono gli individui che dispongono di almeno 10 milioni di yuan (poco più di un milione di euro) da investire. Attualmente sono circa 500mila; se la media si attesta sui 30 milioni (poco meno di 3 milioni e 150mila euro) di patrimonio, tra di loro c'è anche un'élite di ricchissimi - circa ventimila persone - che dispone di almeno 100 milioni di yuan (10 milioni di euro e briciole). La fetta di ricchezza complessiva di cui dispongono questi paperoni cinesi è stimata sui 15mila miliardi di yuan e dovrebbe salire a 18mila miliardi il prossimo anno.

Emigrano soprattutto negli Usa, in Canada, Gran Bretagna e Australia. Paesi dove trovano migliori scuole per i loro figli e schemi pensionistici più vantaggiosi. Queste sono le ragioni che i più indicano all'origine della propria scelta. Le tasse invece non c'entrano, visto che solo il sei per cento dichiara di andarsene dalla Cina per l'eccessivo carico fiscale.
Nessun riferimento a un'eventuale scelta politica, ma forse non era quello l'oggetto d'indagine della ricerca. D'altra parte stiamo parlando del ceto di nuovi ricchi che ha beneficiato delle peculiarità insite nel sistema cinese, al suo interno ha costruito le proprie fortune anche grazie alla deregulation nel mercato del lavoro e alla compressione dei salari. Perché dovrebbero criticarlo?
Se ne vanno grazie a speciali programmi messi i piedi dai Paesi che li ospitano e che legano permessi di immigrazione a investimenti in loco. I laowai (stranieri) accolgono loro ma, soprattutto, i loro portafogli.

E così noi li vediamo fare shopping nelle capitali del mondo - soprattutto quello anglosassone - senza sapere che proprio lì vivono. A volte, qualche governo si preoccupa un po'. Così, per esempio, di fronte al raddoppiamento dell'immigrazione cinese tra il 2008 e il 2010, il Canada ha pensato bene di raddoppiare anche il livello minimo di investimento per concedere il visto: almeno 1,6 milioni di dollari canadesi (poco più di un milione di euro) in patrimonio netto. Li vogliamo ricchi, ma ricchi davvero.

Questo esodo pone un paio di quesiti alla Cina stessa.
Primo. Quanta ricchezza di quella che i ricchi emigranti esportano con la propria persona ritorna poi in Cina sotto forma di rimesse o nuovi investimenti?
Secondo (collegato al primo). Il Dragone non riconosce la doppia nazionalità. Se uno emigra, perde il passaporto cinese. Non sarà forse il caso di rivedere questa normativa per evitare che un ricco se ne vada definitivamente, senza restituire nulla al Celeste Impero?

Su Global Times - versione pop del Quotidiano del popolo - un commento stigmatizza il fenomeno e si chiede come arginarlo. Chiunque - si legge - ha diritto di investire e risiedere dove gli pare, ma il fatto che questo determini un fuggi fuggi di ricchezze e (soprattutto) talenti rivela che è proprio il sistema cinese a non funzionare. O a non funzionare più.
Bisogna quindi offrire più qualità di vita, sia ai ricchi sia ai poveri, e Global Times insiste su un'idea allargata di welfare: "Le persone che dispongono di grandi fortune perseguono uno stile di vita altamente qualitativo, ma in Cina il welfare pubblico e i servizi, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria, sono ben lungi dal soddisfare le aspettative della gente comune, figuriamoci dei ricchi.
Un esempio è quello della sicurezza alimentare. Recenti statistiche rivelano che, se il 99,8 dei generi alimentari destinati all'esportazione rispettano i requisiti di sicurezza, la percentuale destinata al mercato interno scende sotto il 90 per cento."

È una soluzione che tiene insieme i destini di chi ha e chi non ha: tutti vogliono migliorare il proprio status, nessuno vuol finire avvelenato da cibi più scadenti di quelli export-oriented.
Ma non tiene conto del fatto che gli interessi, con i redditi, divergono. Quando si parla di welfare, ci vuole qualcuno che lo finanzi attraverso tasse e investimenti sul territorio. Il multimilionario che salta sul primo aereo per Vancouver non sembra di questo avviso.

La Cina riscopre le divisione in classi e proprio nel momento in cui vuole ridurre il divario tra ricchi e poveri, è pugnalata alle spalle dai suoi paperoni: quelli che proprio il sistema ha prodotto e che oggi non accettano di redistribuire le proprie risorse.
di Gabriele Battaglia

30 aprile 2011

Referendum, Tozzi: “Il governo vuole tutelare se stesso e le lobby”

Non solo il terrore per il quesito sul legittimo impedimento. Secondo il geologo, i piani del governo per inficiare i quesiti su nucleare e acqua servono per tutelare i gruppi industriali che trarranno beneficio dai piani del governo. Che sono sospesi solo temporaneamente
“I have a dream: un governo che, quando si trova a lagiferare su questioni di carattere energetico-ambientale, si affidi a un comitato scientifico”. A parlare così è Mario Tozzi, geologo, divulgatore e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano che sottolinea come la classe politica nostrana sia l’unica a non avvalersi di un consiglio di esperti in materia di ambiente ed energia. “Sarkozy, Obama e tutti gli altri leader – attacca Tozzi – si affidano a un comitato indipendente di scienziati che indirizza le loro politiche, il governo italiano se ne guarda bene”.

L’esempio più lampante di quanto sostiene il geologo, sono i principali maître à penser del ritorno italiano al nucleare: Chicco Testa, laureato in filosofia ed ex ambientalista convertito all’atomo, e Umberto Veronesi che invece è un oncologo. Di fisici e ingenieri neanche l’ombra. “E’ perché in Italia su energia e ambiente si seguono solamente gli interessi delle lobby, per poi fare una clamorosa marcia indietro quando si avvicinano i referendum e quindi il voto popolare”, attacca Tozzi.

Il riferimento è ovviamente alle modifiche legislative apportate al decreto Omnibus che, secondo le intenzioni della maggioranza, deve scongiurare la tornata referendaria in programma per metà giugno. Lo scorso 20 aprile, la maggioranza smentiva se stessa votando favorevolmente il pacchetto di misure che metteva nel congelatore il tanto sbandierato ritorno all’energia atomica. Nel vertice italo-francese è stato lo stesso presidente del Consiglio a chiarire le motivazioni di quel provvedimento: “Il programma nucleare italiano è stato bloccato per fare fallire il referendum”.

Come il Fatto ha scritto più volte, il terrore di Berlusconi è che gli italiani oltre dire Sì all’abrogazione dell’atomo e dell’acqua privata, votassero anche la bocciatura della legge sul legittimo impedimento. Un colpo insostenibile per chi basa la sua legittimazione sul consenso popolare. Anche Tozzi la pensa così, ma ci mette il carico: “Berlusconi dice che quanto accaduto a Fukushima ha spaventato gli italiani e che la decisione della moratoria è stata fatta per permettere ai cittadini di tranquillizzarsi. Per poi, magari fra un anno, ripresentare lo stesso progetto tale e quale. Che tristezza! Il presidente del Consiglio considera il suo popolo non in grado di discernere fra emozione e ragione”. Detto in altro modo, secondo il premier, gli italiani non sono in grado di mantenere su due piani separati l’ondata emotiva per quanto accaduto a Fukushima e una seria riflessione sull’energia atomica.

Ora che il copione del nucleare si sta ripetendo anche sulle risorse idriche, con la presentazione di un decreto legge fatto ad hoc per depotenziare i due quesiti referendari, il piano del governo appare ancora più evidente. Ma, secondo Tozzi, l’imput a far saltare il voto del 12 e 13 giugno non arriva solo dal terrore di B. per il probabile raggiungimento del quorum con tanto di bocciatura della legge che lo tiene lontano dai tribunali. “I quesiti, così come sono stati formulati – sostiene il geologo – scardinano i piani di un settore importante del sistema industriale italiano: la lobby nucleare e quella dell’acqua privata. E Berlusconi, cercando di vanificare il referendum, ha voluto tutelare quei gruppi”. Non è un mistero che, ad esempio sull’acqua, i primi a parlare di manovre correttive sulla legge che privatizza le risorse idriche sono stati proprio gli imprenditori che gestiscono tale risorsa. Con Roberto Bazzano, presidente di Federutility, la federazione che riunisce i gestori degli acquedotti, che aveva detto: “Chiediamoci seriamente se non sia il caso di evitare un referendum che ha sempre più un taglio puramente ideologico”. Ma cosa vuole dire privatizzare l’acqua? “Fare pagare una bolletta maggiorata ai consumatori – risponde Tozzi – E’ già così: ad Agrigento o a Latina, dove gli acquedotti sono già in mani private il servizio costa caro. A Milano, dove l’acqua è pubblica, la bolletta è molto più leggera”.

In attesa di leggere il decreto legge che cercherà di mettere la parola fine anche al voto sull’acqua, Tozzi qualche conclusione la può già tracciare. “Berlusconi, ancora una volta, ha vinto perché è riuscito a fare passare l’idea che non ci sia più nessun bisogno di andare a votare. Che ci ha già pensato il governo ad accogliere le preoccupazioni degli italiani”.

Ma non si vuole rassegnare. Anche perché la Corte di Cassazione, l’organo che dovrà decidere se dopo le modifiche legislative i quesiti siano ancora ammissibili, non si è ancora espressa. “Nel frattempo io, come divulgatore scientifico, porto avanti la mia triplice battaglia: contro l’atomo, a favore dell’acqua pubblica e per affidare le questioni ambientali a persone con un minimo di conoscenza ed esperienza. Sarebbe davvero l’ora”.
di Lorenzo Galeazzi

29 aprile 2011

Una brutta favola



E’ bastata una telefonata del Presidente più giovane, abbronzato e convincente che ci sia per far cambiare idea al Premier più basso, tarchiato ed incompetente che l’Italia abbia mai avuto. Il cigno nero ha tramortito il brutto anatroccolo che non ha più alcuna speranza di crescere politicamente. Il mezzo Cavaliere con la mascherina da sodomita dopo aver dichiarato alla stampa di mezzo mondo che il nostro Paese mai avrebbe bombardato la Libia per non rinfocolare un passato infame di colonialismo ai danni del popolo nordafricano - col quale avevamo anche firmato un contratto di “risarcimento danni imperiali” al fine di accontentare il beduino della Sirte affamato di consenso e i belluini capitalisti nostrani affamati di commesse - si è rimangiato tutto associandosi ai 12 Stati che in questo momento stanno portando la democrazia a Tripoli col piombo e col sangue.

Adesso i bravi ragazzi della civiltà sono finalmente 13, come gli apostoli muniti di traditore. Il bacio della modernità seppellirà per sempre la Libia e la politica mediterranea del Belpaese a favore di statunitensi, francesi ed inglesi. Ma B. pare lo stesso accontentarsi ed invece di far sentire le saette all’altro nanetto di Parigi che crede di essere il Principe Azzurro o l’Angelo castigatore di ex modelle, magari ostacolando l’acquisto francese della Parmalat (non perché quest’ultima sia azienda strategica ma solo per far loro capire che non siamo la cenerentola del continente), gioca a vestire i panni della Bella addormentata nel bosco. Sembra una fiaba per bambini innestata su parabole bibliche, tra folletti, cavalieri, principi, fanciulle in abito da sposa e iscarioti pagati in dollari ma è invece un brutto incubo che porterà la nazione alla sfacelo in campo internazionale. Persino un re Travicello avrebbe fatto meno danni di questi presunti statisti di destra e di sinistra che si sentono eroi ma non hanno fegato né cervello. E come in ogni fiaba che si rispetti non poteva mancare nemmeno il Drago, anzi il Draghi. Il nostro presidente di Bankitalia è stato accreditato anche dai francesi, dopo aver ricevuto l’imprimatur dei Tedeschi, a guidare la BCE. Un buon affare, non per noi ovviamente visto che Draghi è solo la traduzione italiana dell’americano Dragons, creatura mitico-leggendaria partorita nel caveau della newyorkese Goldman Sachs. Un mostro che non sputa fuoco ma sentenze di morte sull’economia nazionale, una creatura serpentina che anziché volare preferisce farsi trasportare sui panfili reali come il Britannia per svendere le fortune statali. Così invece di farci un piacere la Francia ci dà il colpo di grazia. C’era una volta l’Italia libera e bella, più bella che libera a dir la verità, ed oggi non c’è più nemmeno quella. Qui ormai vivono tutti infelici e scontenti.
di Gianni Petrosillo