05 agosto 2011

Una fuga fatale per la verità

http://images.gazzetta.it/Media/Foto/2008/08/19/scacchi_2.jpg

Non mi piace chi fa della questione della legalità la sua bandiera a oltranza: ci sono stagioni della politica – quella alta, quella vera che poi diventa storia – che se vuoi affermare un principio di valore devi superare i limiti della legalità vigente. Non mi piacciono le politiche sicuritarie. Non mi piacciono i manettari, non mi piacciono le forche e non mi piace nemmeno il giudizio preventivo delle caste di appartenenza, della pubblica opinione o dei tribunali televisivi. Io, il cittadino Alfonso Papa, considerati i suoi capi di imputazione, non lo avrei messo in galera. Proprio no. E, con gli stessi capi di imputazione, non avrei spedito in gattabuia nemmeno il deputato Papa Alfonso. Proprio no.

Già mi fa orrore pensare al carcere come sistema di esecuzione della pena, ma ancora più disgusto mi provoca l’uso della restrizione della libertà personale come strumento di indagine e di ricerca della verità. Il fatto è che se un principio deve valere è quello che la legge è uguale per tutti: sia per il cittadino Alfonso Papa che per il deputato Papa Alfonso. Trovo annichilente che un deputato, in quanto deputato, possa vantare privilegi superiori a quelli del cittadino. L’immunità parlamentare è un insulto al principio di eguaglianza: o tutti uguali davanti alla legge, o meglio smetterla con le menate dei diritti civili… Quindi dovrei compiacermi per l’autorizzazione a procedere che la casta alla quale appartiene l’on. Papa Alfonso, quella parlamentare, ha concesso ai giudici ordinari? Neanche un po’: trovo ipocrita e squallida la soluzione, benché in linea con l’attuale legge delle autorizzazioni a procedere e dei regolamenti parlamentari.

Detto tutto ciò, avrei preferito che l’on. Sandro Saccucci, all’epoca deputato del Msi, accusato ingiustamente per concorso morale nell’assassinio del giovane militante comunista Luigi Di Rosa durante i fatti di Sezze Romano del 28 maggio 1976, fosse stato arrestato. E l’arresto sarebbe scattato ed eseguito se i tempi necessari per la revoca dell’immunità non gli avessero dato modo di fuggire.

Saccucci – giova ricordarlo – fu il secondo deputato della repubblica, dalla sua costituzione, per il quale il parlamento concesse, con voto pressoché unanime (il solo contrario fu quello di Giulio Caradonna) la revoca dell’immunità. E’ doveroso che lo precisi: mi rendo perfettamente conto che il favore all’arresto di Saccucci è una contraddizione rispetto alla mia convinzione che l’uso della galera come strumento di indagine sia quasi sempre esecrabile. E non è nemmeno legittimato da sentimenti antifascisti che – con ogni ovvietà – non mi appartengono. Tanto più che – lo ripeto – l’accusa di concorso morale in omicidio era ingiusta: la Cassazione infatti, nel 1985, lo assolse, annullando le sentenze di primo e secondo grado che lo condannavano a 8 anni. Va da sé, quindi che, ancora una volta, l’arresto preventivo per quella accusa sarebbe stato illegittimo.

Il punto vero è che ci sono voluti 9 anni per ristabilire verità e giustizia. Verità e giustizia che però si sono fermate dentro l’aula del tribunale. Nella memoria del Paese, invece, resta quella montagna di bugie che si è formata col tempo. Quante persone avranno letto la ricostruzione dei fatti che ho scritto io, da testimone, ne I rossi e i neri (Ed. Settimo Sigillo, 2002)? Poche migliaia, suppongo. Se fate un giro di ricerca su internet, troverete ricostruzioni che con l’attinenza a quel che veramente accadde a Sezze Romano e alla sentenza definitiva non hanno il benché minimo riscontro. In alcuni casi, si indica addirittura Saccucci come esecutore materiale dell’omicidio che, invece, fu chiaro da subito, ebbe altro responsabile. E dovrete faticare ancora di più per rintracciare la notizia della sua assoluzione dal principale reato contestatogli (concorso morale).

Ovviamente, corresponsabile di questa campagna mistificatoria è Saccucci stesso: non fosse fuggito, si fosse difeso legalmente e nelle sedi opportune, non avesse lasciato il carico della demistificazione e della difesa dalle accuse ai suoi camerati coinvolti nei fatti – che, con ogni evidenza, non potevano avere la stessa forza di ascolto che avrebbe avuto lui – molto probabilmente la narrazione di quella tragica vicenda avrebbe avuto altro corso, la verità sarebbe emersa prima e i tempi della giustizia sarebbero stati più brevi. Per tutti: vittima, colpevole e presunti colpevoli. Quell’arresto, insomma, sarebbe stato il minore dei mali. Ma la domanda vera è: sarebbe fuggito se, una volta arrestato l’autore dell’omicidio, come avvenne nella quasi immediatezza dell’atto e con la certezza matematica della sua confessione, il coimputato Saccucci, poi risultato innocente, fosse stato indagato a piede libero nelle more del processo?

di Miro Renzaglia

04 agosto 2011

Debito USA: there is no way



Adesso il rischio è il downgrade del titolo di Stato. Nessuno si augura un nuovo conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per rilanciare l'economia. Obama ha dimostrato di essere una pedina sacrificabile agli interessi delle lobby.

Raggiunto negli Usa l'accordo
per l'innalzamento del tetto del debito. Un'intesa che allontana, almeno per il momento, il rischio default degli Usa, ma che non sembra placare i mercati, sui quali anche oggi si registrano importanti perdite. Per analizzare la situazione, abbiamo rivolto alcune domande all'economista Eugenio Benetazzo.



"Quello che è accaduto nella giornata di ieri per alcuni aspetti non è nulla di sorprendente in quanto nella storia degli Stati Uniti si sono già ripetuti in altri occasioni episodi similari in cui il tetto del debito rapportato al deficit è stato innalzato.
La domanda che ci dobbiamo fare è perché ancora una volta si decide di intraprendere questa strada, quella cioè di consentire un aumento dell'indebitamento per la confederazione degli Stati. La risposta è abbastanza ovvia, nel senso che non c'era altra via d'uscita, there was no way come dicono loro, nel senso che un mancato recepimento del nuovo tetto di indebitamento avrebbe prodotto una situazione di default degli Stati Uniti con conseguenze disastrose a livello planetario, al cui confronto la Lehman Brothers sarebbe stata un piccolo ricordo del passato.
Come molti di voi leggono e sanno il debito pubblico statunitense è detenuto in questo momento da vari interlocutori istituzionali che hanno un peso non irrilevante sullo scenario planetario, come la stessa Cina che è arrivata a contendersi il primato insieme al Giappone.
Pariteticamente a questo disegno si affianca anche la minaccia o il monito ricevuto dall'agenzia di rating Standard & Poor's alcuni mesi fa circa una possibile revisione dell'outlook economico per gli Stati Uniti e soprattutto di un'emissione di un downgrade del titolo di Stato e questo forse è l'aspetto più problematico che interessa direttamente il piccolo risparmiatore e investitore. Cosa significa la revisione del downgrade? Che l'obbligazione di Stato americana passerà dalla tripla A ad una doppia A, quindi perderà il primato di titolo più solido, uno tra i più solidi al mondo, sempre per chi crede in questo tipo di rendicontazione e garanzia legata alla capacità di rimettere un debito di un determinato soggetto. Quello che sta emergendo a livello planetario è che quello che 3 anni fa doveva essere sano e tutto sommato credibile nel medio e lungo termine, si sta dimostrando marcio, e sostanzialmente quasi tutto il mondo occidentale sta subendo una profonda rivisitazione della propria credibilità finanziaria e poi della stessa solidità. Paradossalmente invece in Oriente quelle che erano un tempo le aree considerate in via di sviluppo o paesi del terzo mondo hanno una qualità del credito e soprattutto un grado di indebitamento che è notevolmente inferiore rispetto alla media europea o a quella statunitense."

Cosa comporta questo accordo? Chi ne farà le spese?


"Comporta un ulteriore innalzamento della possibilità per la confederazione di aumentare il proprio livello di debito in questo momento accorpato da anni e anni di esercizio, le spese sono a carico della fiscalità diffusa, in quanto presuppongono un aumento degli oneri finanziari per l'aumento l'indebitamento dal punto di vista quantitativo e quindi si rifletteranno ahimè o con un aumento della tassazione o con una diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo la strada che stanno percorrendo tantissimi paesi occidentali è sullo stesso binario, questo purtroppo è un problema di natura strutturale. Ad oggi forse ci dovrebbe essere un governo un po' più coraggioso che, anche a costo di minare il consenso dell'elettorato, avanzi proposte che facciano capire che per l'Occidente è arrivata la medicina amara o la pillola rossa come qualcuno l'ha definita, nel senso che non è più possibile continuare a mantenere in piedi il meccanismo di tutela e protezionismo e garantismo sociale che vige negli Stati Uniti come in Europa e andare a ridimensionare, drasticamente la spesa pubblica. Uno dei primi step operativi da mettere in piedi anche in Italia è la legge sul deficit di bilancio, non deve essere possibile per qualsiasi governo chiudere l'esercizio ogni anno fiscale con un deficit perché se noi continuiamo ad avere una macchina che drena costantemente risorse all'apparato statale è chiaro che nel medio e lungo termine non saremo mai in grado di assorbire il peso dell'indebitamento che si è andato a creare. L'unica exit strategy che in questo momento viene paventata anche da interessanti, prestigiosi contenitori mediatici internazionali e dalla stampa di settore sembra sia il ricorso all'inflazione. Oggi per chi governa in Occidente un'inflazione non dico galoppante ma comunque accentuata, quasi al 10% dal punto di vista reale potrebbe essere la soluzione per ridimensionare il peso del debito nei primi 3 o 4 anni, storicamente è quello che è accaduto soprattutto negli Stati Uniti. Quindi l'idea che circola è quella di inflazionare il mercato, aumentando ulteriormente il tetto del debito e della spesa, sapendo che da qui a 3 anni con i tassi di interesse ridotti a zero e un'inflazione che potrebbe viaggiare al 7, 8, 9% riuscirebbero a ridimensionare significativamente il peso del debito e quindi la crisi del debito sovrano che in questo momento, come abbiamo potuto vedere ha colpito tutto il mondo occidentale, facendo presagire che la strada più plausibile anche viste le politiche monetarie delle banche centrali, sia improntata a questo tipo di percorso."

Dopo l'11 Settembre gli Usa hanno incrementato i propri investimenti in armi sino a 500 miliardi di dollari all'anno, un terzo della spesa mondiale. Perché continuano a comprare armi malgrado la crisi? C'è il rischio che vogliano risollevarsi aprendo un nuovo fronte di guerra?


"L'economia statunitense ha come principale traino gli appalti alla difesa del dipartimento di Stato, quindi non è una novità il fatto che il paese per correre, per continuare a essere la locomotiva del pianeta ha bisogno di poter finanziare un conflitto in qualche parte del globo terrestre.
Adesso cominciano a emergere problematiche che sono strutturalmente ben diverse da quelle a cui erano abituati gli statunitensi, a cominciare dall'affiancamento di un player planetario, di cui avevano forse conteggiato male il potenziale, non tanto la Cina, ma proprio la "Cindonesia", questa macroarea geografica fatta da Cina e India e tutto il complesso indonesiano. Nessuno si augura l'aspettativa di un conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per non dico risanare, ma trainare, rilanciare l'economia interna. Non dimentichiamo quello che sta accadendo al Presidente sinora più osannato in assoluto, Obama, adesso probabilmente uno dei peggiori per sentiment popolare, peggiore addirittura di George Bush prima degli attentati dell'11 settembre. L'aspettativa che in questo momento sta emergendo nei confronti di Obama è che qualora si dovesse ripresentare, difficilmente sarà in grado di essere rieletto perché ha disatteso profondamente sia il programma politico che aveva presentato e soprattutto dimostrato che anche lui ahimè è una pedina sacrificabile che ha dovuto mettersi al servizio delle potenti lobby bancarie statunitensi e delle lobby militari che si occupano degli approvvigionamenti alla difesa."

Il default è stato davvero scongiurato o solo rinviato?


"Il default non se lo augura nessuno, perché un default degli Stati Uniti significherebbe azzerare, non ho idea di quanti trilioni di dollari di ricchezza sul pianeta. Certo, sarebbe un'operazione colpo di spugna che consentirebbe forse di ripartire con un'economia americana un po' più sgravata da incombenze e peso debitorio. E' plausibile aspettarsi anche per loro nei prossimi anni una ristrutturazione del debito a fronte in ogni caso di un downgrade, quindi una perdita di appeal, una perdita di solidità e credibilità finanziaria che oltretutto è già stata recentemente accennata. Quindi gli Stati Uniti hanno, per fortuna o per loro sorte, la capacità di poter intervenire per drenare le risorse finanziarie attraverso la fiscalità diffusa, molto più facilmente di come potrebbe avvenire nei paesi europei, Italia compresa. Un fallimento rappresenterebbe uno shock finanziario senza precedenti, perché metteremmo in discussione la prima economia del pianeta che a quel punto farebbe da esempio anche a altre, si potrebbe instaurare un meccanismo a catena con effetto domino di successive crisi a cascata. Non è nell'interesse di nessuno far fallire un paese, a meno che com'è capitato in passato, il paese nello specifico non riesca a dimostrare una propria capacità di reazione e non abbia soprattutto il peso, l'onere del debito pubblico che ha detenuto per la stragrande maggioranza da investitori istituzionali ed esteri, e così facendo crea il malcontento al di fuori dei confini nazionali e non quelli interni. Però prima di arrivare a una situazione di in questa portata ne dobbiamo vedere ancora di peggioramenti e di scenari, ricordiamo sempre comunque che gli Stati Uniti detengono la prima riserva aurea al mondo, oltre 12 mila tonnellate di oro che danno ancora una notevole credibilità alla confederazioni di stati, anche a fronte dello scenario che sta caratterizzando il prezzo del metallo giallo, costantemente in salita negli ultimi 5 anni."
di Eugenio Benetazzo

03 agosto 2011

Stati Uniti, come ti globalizzo il debito

http://www.rinascita.eu/mktumb640.php?image=1309538180.jpg
Non c’è niente di divertente per i cittadini nel sapere che il debito pubblico del proprio paese, gli Usa, sia giunto a dimensioni di dichiarazione di bancarotta (o “insolvenza” di cassa).
Il sinistro ticchettio di quell’orologio-contatore rivela come il debito sia già arrivato alla soglia “stellare” di 14.354 miliardi di dollari e che per di più continua a crescere imperterrito al ritmo di 3.810 milioni al giorno (più di due milioni e mezzo al minuto). Con il risultato che il comune cittadino (neonati compresi), è già caricato del cospicuo e preoccupante debito di circa $46.150 a cranio.

Ma si tratta di una farsa spettacolare. Il “tetto” dei 14 trilioni e mezzo di debito stabilito per lo scattare dello shut-down è infatti soltanto un tetto simbolico. La soglia potrebbe giungere a 15 o 16 trilioni, ma il giudizio, in termini finanziari sulle potenzialità del paese, cambierebbe poco o nulla.
Senza quell’artificioso (e pericoloso) limite le agenzie di rating valuterebbero il debito e l’economia Usa per quello che è, non per quello che dice un numero messo là a caso. E se non fosse per le “amicizie” e le “connivenze” che convivono nel sistema finanziario globale a favore degli Usa, il declassamento sarebbe già arrivato da un pezzo, perché il problema del debito pubblico non nasce certo il primo agosto 2011, ma quasi esattamente 10 anni fa, quando il nuovo presidente USA (Bush) decise di utilizzare il surplus del budget lasciato da Clinton per generosi sconti fiscali a tutti, ma in particolare alle classi più abbienti del paese (che non ne avevano certo bisogno).
Quindi tutta questa sceneggiata ha solo motivazioni politiche. Dato che però nel mondo non tutti sono disposti a “scherzare” su queste cose, potete scommettere che l’intesa su quanto alzare il tetto è scontata. Ma la paura amplificata artificialmente dai media, sarà sufficiente a far digerire all’inconsapevole cittadino la “purga” micidiale di qualche trilione di dollari di tagli alle spese sociali (ricordo che 1 trilione vale mille miliardi). E Obama firmerà senza batter ciglio la nuova legge e il nuovo tetto.
Vediamo di riassumere brevemente dove sono stati spesi grossomodo questi 14 trilioni di debito. Circa 3 trilioni sono arrivati in eredità da Clinton. Un debito normale per gli States, considerando anche il budget lasciato in surplus, cioè le entrate di cassa superavano le uscite (con quel trend il debito sarebbe stato azzerato nel giro di qualche anno). 2 o 3 trilioni si sono aggiunti per il costo degli sconti fiscali concessi da Bush (e adesso da Obama) in dieci anni. 5 o 6 trilioni (o più) sono il costo delle guerre in Iraq e Afganistan.
Da 2 a 4 sono le spese sostenute per la crisi finanziaria del 2008. Cioè soldi per sostenere la liquidità del sistema, ovvero le banche, e in minima parte il sostegno sociale alla disoccupazione e il naturale incremento dei costi legati alla sanità pubblica.
Pertanto la parte di debito per costi sociali è soltanto di due o tre trilioni, che verrebbero tranquillamente coperti recuperando gli sconti fiscali concessi da Bush ai benestanti. Gli altri sono denari che qualcuno si è messo in tasca arricchendosi smisuratamente a colpi di guerre e di spregiudicate speculazioni finanziarie, e che adesso lo sprovveduto cittadino è chiamato a rifondere per intero.
Con l’approvazione del Congresso su spartito orchestrato ad arte dai repubblicani con il beneplacito dei democratici e grazie alla firma conclusiva di Obama sull’ingegnoso misfatto.
di Roberto Marchesi

05 agosto 2011

Una fuga fatale per la verità

http://images.gazzetta.it/Media/Foto/2008/08/19/scacchi_2.jpg

Non mi piace chi fa della questione della legalità la sua bandiera a oltranza: ci sono stagioni della politica – quella alta, quella vera che poi diventa storia – che se vuoi affermare un principio di valore devi superare i limiti della legalità vigente. Non mi piacciono le politiche sicuritarie. Non mi piacciono i manettari, non mi piacciono le forche e non mi piace nemmeno il giudizio preventivo delle caste di appartenenza, della pubblica opinione o dei tribunali televisivi. Io, il cittadino Alfonso Papa, considerati i suoi capi di imputazione, non lo avrei messo in galera. Proprio no. E, con gli stessi capi di imputazione, non avrei spedito in gattabuia nemmeno il deputato Papa Alfonso. Proprio no.

Già mi fa orrore pensare al carcere come sistema di esecuzione della pena, ma ancora più disgusto mi provoca l’uso della restrizione della libertà personale come strumento di indagine e di ricerca della verità. Il fatto è che se un principio deve valere è quello che la legge è uguale per tutti: sia per il cittadino Alfonso Papa che per il deputato Papa Alfonso. Trovo annichilente che un deputato, in quanto deputato, possa vantare privilegi superiori a quelli del cittadino. L’immunità parlamentare è un insulto al principio di eguaglianza: o tutti uguali davanti alla legge, o meglio smetterla con le menate dei diritti civili… Quindi dovrei compiacermi per l’autorizzazione a procedere che la casta alla quale appartiene l’on. Papa Alfonso, quella parlamentare, ha concesso ai giudici ordinari? Neanche un po’: trovo ipocrita e squallida la soluzione, benché in linea con l’attuale legge delle autorizzazioni a procedere e dei regolamenti parlamentari.

Detto tutto ciò, avrei preferito che l’on. Sandro Saccucci, all’epoca deputato del Msi, accusato ingiustamente per concorso morale nell’assassinio del giovane militante comunista Luigi Di Rosa durante i fatti di Sezze Romano del 28 maggio 1976, fosse stato arrestato. E l’arresto sarebbe scattato ed eseguito se i tempi necessari per la revoca dell’immunità non gli avessero dato modo di fuggire.

Saccucci – giova ricordarlo – fu il secondo deputato della repubblica, dalla sua costituzione, per il quale il parlamento concesse, con voto pressoché unanime (il solo contrario fu quello di Giulio Caradonna) la revoca dell’immunità. E’ doveroso che lo precisi: mi rendo perfettamente conto che il favore all’arresto di Saccucci è una contraddizione rispetto alla mia convinzione che l’uso della galera come strumento di indagine sia quasi sempre esecrabile. E non è nemmeno legittimato da sentimenti antifascisti che – con ogni ovvietà – non mi appartengono. Tanto più che – lo ripeto – l’accusa di concorso morale in omicidio era ingiusta: la Cassazione infatti, nel 1985, lo assolse, annullando le sentenze di primo e secondo grado che lo condannavano a 8 anni. Va da sé, quindi che, ancora una volta, l’arresto preventivo per quella accusa sarebbe stato illegittimo.

Il punto vero è che ci sono voluti 9 anni per ristabilire verità e giustizia. Verità e giustizia che però si sono fermate dentro l’aula del tribunale. Nella memoria del Paese, invece, resta quella montagna di bugie che si è formata col tempo. Quante persone avranno letto la ricostruzione dei fatti che ho scritto io, da testimone, ne I rossi e i neri (Ed. Settimo Sigillo, 2002)? Poche migliaia, suppongo. Se fate un giro di ricerca su internet, troverete ricostruzioni che con l’attinenza a quel che veramente accadde a Sezze Romano e alla sentenza definitiva non hanno il benché minimo riscontro. In alcuni casi, si indica addirittura Saccucci come esecutore materiale dell’omicidio che, invece, fu chiaro da subito, ebbe altro responsabile. E dovrete faticare ancora di più per rintracciare la notizia della sua assoluzione dal principale reato contestatogli (concorso morale).

Ovviamente, corresponsabile di questa campagna mistificatoria è Saccucci stesso: non fosse fuggito, si fosse difeso legalmente e nelle sedi opportune, non avesse lasciato il carico della demistificazione e della difesa dalle accuse ai suoi camerati coinvolti nei fatti – che, con ogni evidenza, non potevano avere la stessa forza di ascolto che avrebbe avuto lui – molto probabilmente la narrazione di quella tragica vicenda avrebbe avuto altro corso, la verità sarebbe emersa prima e i tempi della giustizia sarebbero stati più brevi. Per tutti: vittima, colpevole e presunti colpevoli. Quell’arresto, insomma, sarebbe stato il minore dei mali. Ma la domanda vera è: sarebbe fuggito se, una volta arrestato l’autore dell’omicidio, come avvenne nella quasi immediatezza dell’atto e con la certezza matematica della sua confessione, il coimputato Saccucci, poi risultato innocente, fosse stato indagato a piede libero nelle more del processo?

di Miro Renzaglia

04 agosto 2011

Debito USA: there is no way



Adesso il rischio è il downgrade del titolo di Stato. Nessuno si augura un nuovo conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per rilanciare l'economia. Obama ha dimostrato di essere una pedina sacrificabile agli interessi delle lobby.

Raggiunto negli Usa l'accordo
per l'innalzamento del tetto del debito. Un'intesa che allontana, almeno per il momento, il rischio default degli Usa, ma che non sembra placare i mercati, sui quali anche oggi si registrano importanti perdite. Per analizzare la situazione, abbiamo rivolto alcune domande all'economista Eugenio Benetazzo.



"Quello che è accaduto nella giornata di ieri per alcuni aspetti non è nulla di sorprendente in quanto nella storia degli Stati Uniti si sono già ripetuti in altri occasioni episodi similari in cui il tetto del debito rapportato al deficit è stato innalzato.
La domanda che ci dobbiamo fare è perché ancora una volta si decide di intraprendere questa strada, quella cioè di consentire un aumento dell'indebitamento per la confederazione degli Stati. La risposta è abbastanza ovvia, nel senso che non c'era altra via d'uscita, there was no way come dicono loro, nel senso che un mancato recepimento del nuovo tetto di indebitamento avrebbe prodotto una situazione di default degli Stati Uniti con conseguenze disastrose a livello planetario, al cui confronto la Lehman Brothers sarebbe stata un piccolo ricordo del passato.
Come molti di voi leggono e sanno il debito pubblico statunitense è detenuto in questo momento da vari interlocutori istituzionali che hanno un peso non irrilevante sullo scenario planetario, come la stessa Cina che è arrivata a contendersi il primato insieme al Giappone.
Pariteticamente a questo disegno si affianca anche la minaccia o il monito ricevuto dall'agenzia di rating Standard & Poor's alcuni mesi fa circa una possibile revisione dell'outlook economico per gli Stati Uniti e soprattutto di un'emissione di un downgrade del titolo di Stato e questo forse è l'aspetto più problematico che interessa direttamente il piccolo risparmiatore e investitore. Cosa significa la revisione del downgrade? Che l'obbligazione di Stato americana passerà dalla tripla A ad una doppia A, quindi perderà il primato di titolo più solido, uno tra i più solidi al mondo, sempre per chi crede in questo tipo di rendicontazione e garanzia legata alla capacità di rimettere un debito di un determinato soggetto. Quello che sta emergendo a livello planetario è che quello che 3 anni fa doveva essere sano e tutto sommato credibile nel medio e lungo termine, si sta dimostrando marcio, e sostanzialmente quasi tutto il mondo occidentale sta subendo una profonda rivisitazione della propria credibilità finanziaria e poi della stessa solidità. Paradossalmente invece in Oriente quelle che erano un tempo le aree considerate in via di sviluppo o paesi del terzo mondo hanno una qualità del credito e soprattutto un grado di indebitamento che è notevolmente inferiore rispetto alla media europea o a quella statunitense."

Cosa comporta questo accordo? Chi ne farà le spese?


"Comporta un ulteriore innalzamento della possibilità per la confederazione di aumentare il proprio livello di debito in questo momento accorpato da anni e anni di esercizio, le spese sono a carico della fiscalità diffusa, in quanto presuppongono un aumento degli oneri finanziari per l'aumento l'indebitamento dal punto di vista quantitativo e quindi si rifletteranno ahimè o con un aumento della tassazione o con una diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo la strada che stanno percorrendo tantissimi paesi occidentali è sullo stesso binario, questo purtroppo è un problema di natura strutturale. Ad oggi forse ci dovrebbe essere un governo un po' più coraggioso che, anche a costo di minare il consenso dell'elettorato, avanzi proposte che facciano capire che per l'Occidente è arrivata la medicina amara o la pillola rossa come qualcuno l'ha definita, nel senso che non è più possibile continuare a mantenere in piedi il meccanismo di tutela e protezionismo e garantismo sociale che vige negli Stati Uniti come in Europa e andare a ridimensionare, drasticamente la spesa pubblica. Uno dei primi step operativi da mettere in piedi anche in Italia è la legge sul deficit di bilancio, non deve essere possibile per qualsiasi governo chiudere l'esercizio ogni anno fiscale con un deficit perché se noi continuiamo ad avere una macchina che drena costantemente risorse all'apparato statale è chiaro che nel medio e lungo termine non saremo mai in grado di assorbire il peso dell'indebitamento che si è andato a creare. L'unica exit strategy che in questo momento viene paventata anche da interessanti, prestigiosi contenitori mediatici internazionali e dalla stampa di settore sembra sia il ricorso all'inflazione. Oggi per chi governa in Occidente un'inflazione non dico galoppante ma comunque accentuata, quasi al 10% dal punto di vista reale potrebbe essere la soluzione per ridimensionare il peso del debito nei primi 3 o 4 anni, storicamente è quello che è accaduto soprattutto negli Stati Uniti. Quindi l'idea che circola è quella di inflazionare il mercato, aumentando ulteriormente il tetto del debito e della spesa, sapendo che da qui a 3 anni con i tassi di interesse ridotti a zero e un'inflazione che potrebbe viaggiare al 7, 8, 9% riuscirebbero a ridimensionare significativamente il peso del debito e quindi la crisi del debito sovrano che in questo momento, come abbiamo potuto vedere ha colpito tutto il mondo occidentale, facendo presagire che la strada più plausibile anche viste le politiche monetarie delle banche centrali, sia improntata a questo tipo di percorso."

Dopo l'11 Settembre gli Usa hanno incrementato i propri investimenti in armi sino a 500 miliardi di dollari all'anno, un terzo della spesa mondiale. Perché continuano a comprare armi malgrado la crisi? C'è il rischio che vogliano risollevarsi aprendo un nuovo fronte di guerra?


"L'economia statunitense ha come principale traino gli appalti alla difesa del dipartimento di Stato, quindi non è una novità il fatto che il paese per correre, per continuare a essere la locomotiva del pianeta ha bisogno di poter finanziare un conflitto in qualche parte del globo terrestre.
Adesso cominciano a emergere problematiche che sono strutturalmente ben diverse da quelle a cui erano abituati gli statunitensi, a cominciare dall'affiancamento di un player planetario, di cui avevano forse conteggiato male il potenziale, non tanto la Cina, ma proprio la "Cindonesia", questa macroarea geografica fatta da Cina e India e tutto il complesso indonesiano. Nessuno si augura l'aspettativa di un conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per non dico risanare, ma trainare, rilanciare l'economia interna. Non dimentichiamo quello che sta accadendo al Presidente sinora più osannato in assoluto, Obama, adesso probabilmente uno dei peggiori per sentiment popolare, peggiore addirittura di George Bush prima degli attentati dell'11 settembre. L'aspettativa che in questo momento sta emergendo nei confronti di Obama è che qualora si dovesse ripresentare, difficilmente sarà in grado di essere rieletto perché ha disatteso profondamente sia il programma politico che aveva presentato e soprattutto dimostrato che anche lui ahimè è una pedina sacrificabile che ha dovuto mettersi al servizio delle potenti lobby bancarie statunitensi e delle lobby militari che si occupano degli approvvigionamenti alla difesa."

Il default è stato davvero scongiurato o solo rinviato?


"Il default non se lo augura nessuno, perché un default degli Stati Uniti significherebbe azzerare, non ho idea di quanti trilioni di dollari di ricchezza sul pianeta. Certo, sarebbe un'operazione colpo di spugna che consentirebbe forse di ripartire con un'economia americana un po' più sgravata da incombenze e peso debitorio. E' plausibile aspettarsi anche per loro nei prossimi anni una ristrutturazione del debito a fronte in ogni caso di un downgrade, quindi una perdita di appeal, una perdita di solidità e credibilità finanziaria che oltretutto è già stata recentemente accennata. Quindi gli Stati Uniti hanno, per fortuna o per loro sorte, la capacità di poter intervenire per drenare le risorse finanziarie attraverso la fiscalità diffusa, molto più facilmente di come potrebbe avvenire nei paesi europei, Italia compresa. Un fallimento rappresenterebbe uno shock finanziario senza precedenti, perché metteremmo in discussione la prima economia del pianeta che a quel punto farebbe da esempio anche a altre, si potrebbe instaurare un meccanismo a catena con effetto domino di successive crisi a cascata. Non è nell'interesse di nessuno far fallire un paese, a meno che com'è capitato in passato, il paese nello specifico non riesca a dimostrare una propria capacità di reazione e non abbia soprattutto il peso, l'onere del debito pubblico che ha detenuto per la stragrande maggioranza da investitori istituzionali ed esteri, e così facendo crea il malcontento al di fuori dei confini nazionali e non quelli interni. Però prima di arrivare a una situazione di in questa portata ne dobbiamo vedere ancora di peggioramenti e di scenari, ricordiamo sempre comunque che gli Stati Uniti detengono la prima riserva aurea al mondo, oltre 12 mila tonnellate di oro che danno ancora una notevole credibilità alla confederazioni di stati, anche a fronte dello scenario che sta caratterizzando il prezzo del metallo giallo, costantemente in salita negli ultimi 5 anni."
di Eugenio Benetazzo

03 agosto 2011

Stati Uniti, come ti globalizzo il debito

http://www.rinascita.eu/mktumb640.php?image=1309538180.jpg
Non c’è niente di divertente per i cittadini nel sapere che il debito pubblico del proprio paese, gli Usa, sia giunto a dimensioni di dichiarazione di bancarotta (o “insolvenza” di cassa).
Il sinistro ticchettio di quell’orologio-contatore rivela come il debito sia già arrivato alla soglia “stellare” di 14.354 miliardi di dollari e che per di più continua a crescere imperterrito al ritmo di 3.810 milioni al giorno (più di due milioni e mezzo al minuto). Con il risultato che il comune cittadino (neonati compresi), è già caricato del cospicuo e preoccupante debito di circa $46.150 a cranio.

Ma si tratta di una farsa spettacolare. Il “tetto” dei 14 trilioni e mezzo di debito stabilito per lo scattare dello shut-down è infatti soltanto un tetto simbolico. La soglia potrebbe giungere a 15 o 16 trilioni, ma il giudizio, in termini finanziari sulle potenzialità del paese, cambierebbe poco o nulla.
Senza quell’artificioso (e pericoloso) limite le agenzie di rating valuterebbero il debito e l’economia Usa per quello che è, non per quello che dice un numero messo là a caso. E se non fosse per le “amicizie” e le “connivenze” che convivono nel sistema finanziario globale a favore degli Usa, il declassamento sarebbe già arrivato da un pezzo, perché il problema del debito pubblico non nasce certo il primo agosto 2011, ma quasi esattamente 10 anni fa, quando il nuovo presidente USA (Bush) decise di utilizzare il surplus del budget lasciato da Clinton per generosi sconti fiscali a tutti, ma in particolare alle classi più abbienti del paese (che non ne avevano certo bisogno).
Quindi tutta questa sceneggiata ha solo motivazioni politiche. Dato che però nel mondo non tutti sono disposti a “scherzare” su queste cose, potete scommettere che l’intesa su quanto alzare il tetto è scontata. Ma la paura amplificata artificialmente dai media, sarà sufficiente a far digerire all’inconsapevole cittadino la “purga” micidiale di qualche trilione di dollari di tagli alle spese sociali (ricordo che 1 trilione vale mille miliardi). E Obama firmerà senza batter ciglio la nuova legge e il nuovo tetto.
Vediamo di riassumere brevemente dove sono stati spesi grossomodo questi 14 trilioni di debito. Circa 3 trilioni sono arrivati in eredità da Clinton. Un debito normale per gli States, considerando anche il budget lasciato in surplus, cioè le entrate di cassa superavano le uscite (con quel trend il debito sarebbe stato azzerato nel giro di qualche anno). 2 o 3 trilioni si sono aggiunti per il costo degli sconti fiscali concessi da Bush (e adesso da Obama) in dieci anni. 5 o 6 trilioni (o più) sono il costo delle guerre in Iraq e Afganistan.
Da 2 a 4 sono le spese sostenute per la crisi finanziaria del 2008. Cioè soldi per sostenere la liquidità del sistema, ovvero le banche, e in minima parte il sostegno sociale alla disoccupazione e il naturale incremento dei costi legati alla sanità pubblica.
Pertanto la parte di debito per costi sociali è soltanto di due o tre trilioni, che verrebbero tranquillamente coperti recuperando gli sconti fiscali concessi da Bush ai benestanti. Gli altri sono denari che qualcuno si è messo in tasca arricchendosi smisuratamente a colpi di guerre e di spregiudicate speculazioni finanziarie, e che adesso lo sprovveduto cittadino è chiamato a rifondere per intero.
Con l’approvazione del Congresso su spartito orchestrato ad arte dai repubblicani con il beneplacito dei democratici e grazie alla firma conclusiva di Obama sull’ingegnoso misfatto.
di Roberto Marchesi