07 ottobre 2011

Cacciati e spennati

la russaItaliani: pane, amore, fantasia. Popolo di santi, navigatori ed amatori, spaghetti e mandolino, pistole e preservativi, pizza e mozzarella ‘ncoppa, cantanti, cantautori e canzonatori, dop, doc e IGT, tarantella e taranta, pizzica e bballe ‘o roccorol, o’ sole mio ed il mare impetuoso al tramonto. Certo, noi italiani siamo anche (ma, ça va sans dire, non solo) i nostri luoghi comuni che esportiamo all’estero, insieme al resto, per venderci meglio e fare i mariuoli con gli altri e tra di noi. Nessuno lo nega, ma ora l’aria è cambiata e stiamo seriamente peggiorando. Non c’entra niente il bunga bunga ed il fichi fichi. Eravamo gli inimitabili esecutori del pacco, doppiopacco e contropaccotto ma poi sono arrivati La Russa e Frattini ed ormai facciamo solo la figura dei farlocchi e dei meschini. Metti due zucconi a guidare importanti dicasteri e le barzellette si capovolgono in realtà. Che non fa ridere. Gabbati e burlati dal francese, dall’inglese e dall’americano. E‘ questo il contrappasso che ci tocca dopo decenni di freddure sciovinistiche, a sfondo internazionale, favorevoli al connazionale. Iniziamo da La Russa. Uno con quel cognome doveva buttarsi nel business dei materassi o nella filiera delle gnocche dell’est da inviare al Premier ed, invece, ce lo ritroviamo a reggere il Ministero della difesa. Siccome La Russa se non spara bombe in Libia spara cazzate in Brasile si è messo in testa di fare la voce grossa con le autorità carioca per il caso Battisti. I vertici di Brasilia dopo aver sentito il suo nome hanno sbadigliato a lungo, ma non sono riusciti a chiudere occhio per i lamenti che provenivano da Roma. Battisti se lo terranno e dato che insistiamo con questa litania che disturba i loro sogni faranno saltare il banco di commesse strategiche per le nostre imprese di punta. Si parla di un giro d’affari intorno ai 10 miliardi di euro che coinvolge Fincantieri, Eni e Finmeccanica. Guarguaglini e Scaroni sono preoccupati, dopo i deserti della Sirte temono di vedersi sbarrate anche le spiagge di Rio. I soldi, tuttavia, li perderà il sistema-paese e non La Russa che anziché finire in Siberia, come meriterebbe, potrebbe ricevere una vacanza premio a Copacabana dai nostri concorrenti esteri. Passiamo a Frattini. Questo rapace della diplomazia nostrana col becco di pollo e la coda di pavone aveva rassicurato la pubblica opinione nazionale sui risultati della guerra e sulla messa in sicurezza degli interessi italiani grazie agli accordi presi col CNT. Ma i versi accalorati del nostro allocco ministeriale stonavano con quelli dell’aquila imperiale che aveva evitato di inquadrarci tra i predatori in volo di Tripoli, nonché amici piumati dei capponi di Bengasi. A ciò si aggiungeva la trasvolata anzitempo, a beccamenti ancora in corso, di Cameron e Sarkozy, per accreditarsi quali unici fringuelli liberatori della Libia. Oggi, ben al di là dei cinguetii di Frattini che affibbiava ai critici italiani l’appellativo di gufi antipatriottici si scoprono finalmente le carte e per noi sono una sfilza di due di picche. Le PMI stanno trasmigrando dal Paese nordafricano perché scalzate dalle omologhe anglo-francesi. Lo denuncia il Presidente della camera di Commercio Italafrica Centrale secondo il quale Tripoli e Roma non cantano affatto sullo stesso ramo, e questo a tutto danno delle nostre aziende che sono costrette a lasciare le gabbie dorate per far posto ai barbagianni di Parigi, di Londra e financo di Ankara. Insomma, noi non eravamo uccelli del malaugurio quando insinuavamo che saremmo stati coperti da escrementi di piccione e lui non era un falco con la vista lunga quando affermava che c’era mangime per tutti. Anzi, ha venduto l’uccello sulla frasca senza nemmeno averlo avvistato ed ora si ritrova in pentola come una quaglia. Insomma, a causa di un tordo che si crede un politico siamo stati tutti spennati e siamo rimasti senza il becco di un quattrino. Complimenti a lui e all’uccello che lo ha messo al mondo istituzionale.

di Gianni Petrosillo

06 ottobre 2011

Lo spettro Lehman torna tra le banche





La crisi della Grecia e le incertezze dell'Europa si ripercuotono sulle borse mondiali. L'Eurogruppo rinvia la sesta tranche di aiuti ad Atene Tre anni fa l'esplosione della quarta banca d'affari del mondo innescò un «credit crunch»


Prestiti interbancari fermi per il «rischio Grecia». Bernanke (Fed) promette aiuti ed evita il tracollo
Ottobre 2008, ottobre 2011. Siamo di nuovo al punto di partenza. La crisi ha fatto un giro, bruciando risorse pubbliche per migliaia di miliardi di dollari, euro, yen. Ma il sistema bancario globale - inchiodato tre anni fa dal fallimento di Lehman Brothers, quarta banca d'affari degli Usa e del mondo - sta vivendo di nuovo un credit crunch. Tradotto: le banche non si prestano più soldi tra loro, figuriamoci ai clienti «normali» (imprese e privati).
La Cnn titolava in prima pagina, l'altroieri sera, «È Morgan Stanley la prossima Lehman?». A seguire un'analisi dettagliata della quantità di titoli di stato dei Piigs europei, a partire da quelli greci, che giacciono tra gli asset del colosso; minandone la solidità. Morgan Stanley è seconda soltanto a Goldman Sachs (che ieri ha diffuso stime molto grame sulla crescita globale e perfino una stagnazione europea nel 2012); un suo eventuale default avrebbe conseguenze sistemiche inimmaginabili.

Sui mercati europei, invece, le banche preferiscono depositare i propri soldi presso la Bce - a tassi molto inferiori a quelli dimercato - pur di non rischiare una mancata restituzione. Il tasso overnight (che misura il rischio del prestito interbancario) è tornato ai massimi livelli, come due anni e mezzo fa. Dopo Lehman.

Al centro dell'attenzione resta la crisi greca, naturalmente; e soprattutto il modo ondivago con cui le istituzioni internazionali stanno affrontandola. Ieri notte l'Eurogruppo - i ministri finanziari della zona euro - ha rinviato un'altra volta il versamento della sesta tranche di aiuti ad Atene, seminando incertezza aggiuntiva. Peggio. Ha rinviato anche la prevista riunione del 13 ottobre, che aveva proprio questa decisione all'ordine del giorno. Allo stesso tempo ha chiesto «misure supplementari» a quelle già accettate da Papandreou per sbloccare il piano di salvataggio. Mentre la Finlandia, in totale autonomia, ha raggiunto un accordo con il governo greco per avere «garanzie collaterali» esclusive in cambio della percentuale finnica di aiuti. Quel che stupisce è la sproporzione mostruosa tra i «risparmi» ottenuti licenziando decine di migliaia di statali, ecc (6,6 miliardi), e la dimensione del «secondo piano d'aiuti»: 109 miliardi.

Un discreto caos, non certo diminuito dal compromesso con cui l'Eurogruppo ha deciso di «rafforzare» il fondo di stabilità Efsf: tramite un «effetto leva», ovvero a debito, ma senza incrementare il capitale posto a garanzia. Il problema è come fare a non perdere la «tripla A» necessaria perché questo fondo possa reperire capitali a un tasso moderato; le agenzie di rating potrebbero non gradire l'escamotage.

Con queste premesse le borse non potevano che cedere clamorosamente terreno, soprattutto nel settore bancario. Tanto più che proprio ieri Deutsche Bank - non proprio un nanerottolo - ha tagliato le stime sull'utile 2011; nel terzo trimestre saranno anche necessari accantonamenti per 250 milioni a seguito di svalutazioni legate ai bond greci. E non basteranno i 500 licenziamenti subito messi in cantiere per tappare il buco. Anche gli altri colossi del credito continentali hanno perso percentuali oscillanti tra il 5 e l'8% (con la franco-belga Dexia oltre ogni limite).

Alla fine, dopo un'apertura di Wall Street che minacciava sfracelli - -2,32% - è toccato ancora una volta a Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve Usa, vestire i panni del grande tranquillizzatore. Davanti al Congresso ha spiegato che l'occupazione non crescerà a breve, e che «le tensioni finanziarie hanno intaccato il morale delle famiglie e delle imprese». Ma la Fed vigila. E anche se non ci sono «piani immediati» per un terzo episodio della saga «quantititive easing» (iniezioni di liquidità pubblica), la banca centrale «è pronta a fare di più per aiutare una ripartenza più decisa dell'economia». Può farlo perché le stime sull'inflazione, nel 2012, restano intorno al livello considerato ottimale: il 2%. Ma avverte comunque che «la politica monetaria è uno strumento potente, ma non è la panacea per i problemi dell'economia statunitense».

Tanto è bastato per risollevare il morale degli operatori di borsa, che hanno potuto ridurre le perdite in Europa e addirittura vedere un timido guadagno negli Usa. Poi Wall Street è tornata a cadere. Perché il dato strutturale resta fermo: è possibile uscire da una crisi globale contando soltanto sulla «liquidità» che alcuni stati - sempre meno - cercano ancora di garantire? Non serve una laurea per rispondere...
di Tommaso De Berlanga

04 ottobre 2011

Servi dell'Impero




http://cms7.blogia.com/blogs/p/pa/par/partiucarlista/upload/20090101225051-imperialismo.jpg

Dieci anni fa, di questi tempi, le parole d'ordine imposte dalla giaculatoria massmediale alla opinione del pubblico erano due. Dopo l'11 settembre, si diceva, il mondo non sarebbe stato «mai più come prima»: l'Occidente era stato ferito al cuore e avrebbe dovuto, di lì in poi, fronteggiare la tentacolare minaccia di un estremismo islamico che rischiava di metterlo in ginocchio. E per questo - ecco il secondo slogan - era venuto il momento del «siamo tutti americani», ovvero della solidarietà incondizionata con Washington, riassurta, a solo dodici anni dal crollo del muro di Berlino, al ruolo di baluardo del Mondo Libero contro l'Asse del Male, gli Stati canaglia e i loro sgherri, votati all'odio perché invidiosi del livello di vita e di ricchezza raggiunto dagli Usa e dai loro più fedeli alleati. Un'invidia che, non si mancava di aggiungere, si nascondeva dietro le invettive contro l'empietà e l'arroganza dei nemici dell'islam. Fummo tra i pochi, allora e dopo, che cercarono di opporre al frastuono della propaganda la voce critica della ragione, proponendo argomenti invece di proclami. Dicemmo chiaramente - chi vuole, può sincerarsene leggendo due libri (entrambi editi da Laterza) come il nostro Contro l'americanismo e La paura e l'arroganza curato da Franco Cardini - che, nei suoi tratti essenziali, la dinamica politica, economica e culturale del mondo non sarebbe stata modificata dall'attacco aereo alle Torri gemelle: la scalata all'egemonia planetaria degli Stati Uniti, in atto ormai da un abbondante decennio, ne avrebbe semmai tratto un ulteriore impulso; l'Europa avrebbe accentuato la già marcata sudditanza ai voleri d'oltre Atlantico, rinunciando a qualsiasi iniziativa indipendente; la tanto temuta propagazione di sentimenti antiamericani nell'ex Terzo mondo non ci sarebbe stata; il mondo islamico non avrebbe imboccato la via del radicalismo oltranzista. E, soprattutto, l'infiltrazione dell'american way of life, con il suo carico di precetti individualistici, materialistici e cosmopoliti, negli anfratti dell'immaginario collettivo delle popolazioni di ogni angolo del globo non solo non sarebbe rallentata ma avrebbe tratto nuova linfa dalla vittimizzazione degli States che gli attentati di New York e di Washington favorivano: rappresentare il paese della più potente, spietata e attiva macchina da guerra esistente nei panni del gigante buono e vulnerabile vigliaccamente colpito dai malvagi era un'arma formidabile per rafforzarne il mito e creare, sulla base della compassione, complicità verso le nuove imprese belliche che si annunciavano all'orizzonte.
A distanza di un decennio, è inevitabile constatare che avevamo azzeccato l'analisi. Sulle ali della retorica dell'11 settembre, che le attuali celebrazioni si incaricano di tenere ben viva con un intento politico celato, come di consueto, dietro il richiamo ai buoni e doverosi sentimenti, gli Usa hanno costruito un percorso lastricato di guerre, bombardamenti a tappeto, massacri di militari e civili dei paesi nemici, che soltanto in virtù degli accorgimenti tecnologici che consentono agli aggressori di distruggere dall'alto ogni bersaglio senza rischiare danni non hanno prodotto una contabilità di vittime equiparabile a quella dei maggiori conflitti del XX secolo. E nel loro sanguinoso itinerario verso il dominio, oltre a godere del plauso dell'apparato comunicativo dell'intera area di influenza occidentale, pronto a tacere, distorcere, negare, mentire a comando ogniqualvolta veniva ritenuto necessario, hanno potuto contare sull'efficace azione di una nutrita retroguardia economico-finanziaria, pronta a ricostruire ciò che era stato distrutto traendone e in parte distribuendo ai più servizievoli amici ampi profitti, e soprattutto sull'impegno di una fureria intellettuale, che nei paesi soggiogati a suon di bombe ha diffuso a piene mani, seguendo una tradizione consolidata, quei formidabili strumenti di condizionamento mentale che sono i gadgets della cultura di massa made in Usa.
La conquista dell'agognato ruolo di gendarme planetario è stata però, bisogna riconoscerlo, ostacolata dalla forte crescita economica di concorrenti inattesi, prime fra tutti Cina e India, e lo scenario unipolare disegnato dagli strateghi neoconservatori dell'amministrazione Bush si è rivelato sin qui impraticabile. L'esplosione della bolla economica interna del 2008 ha poi accentuato i problemi. Ma per assurgere a padroni del mondo, gli eredi dei Padri pellegrini ce l'hanno messa davvero tutta. E nella partita più importante, quella per il controllo delle mentalità collettive, il loro vantaggio è ancora straordinariamente consistente. Le aspettative che si sono create attorno alla cosiddetta "primavera araba", dalla quale ci si attende formalmente un'ondata di democratizzazione ma si esige sostanzialmente una robusta occidentalizzazione - dei costumi, dei consumi, delle leggi, degli stili di vita, delle credenze - ne sono una spia evidente. E non si può negare, come invece piace fare da sempre agli ambienti pervasi di un antiamericanismo pregiudiziale, rancoroso e sommario, mosso non dalla critica rigorosa di un modello di civiltà ma da un confuso mix di nostalgie ereditarie (di destra e/o di sinistra) e wishful thinking, che l'azione condotta dagli Usa e dai loro volenterosi complici sia stata, e sia, molto efficace. Tanto da rendersi pressoché impermeabile agli argomenti con cui coloro che non ne condividevano né le premesse né gli obiettivi hanno tentato di contrastarla.
I motivi di questo successo attengono sia all'ordine delle sue premesse teoriche sia a quello degli strumenti empirici incaricati di tradurle in realtà.
Sul primo di questi versanti, la carta vincente degli Usa è stata il ricorso sistematico e onnipervadente all'ideologia dei diritti dell'uomo, costruita ad immagine e somiglianza del loro modello di società e dei progetti di espansione imperiale connaturati al paese che aveva già partorito nel corso degli oltre due secoli di vita le dottrine del «destino manifesto» e del «cortile di casa» e che fin dalla nascita ha coltivato la convinzione di aver ricevuto da Dio il compito di adempiere ad una missione universale di conversione al Bene dei miscredenti, non esitando a ricorrere ai mezzi più crudeli per adempierla (gli ormai dimenticati nativi, ridotti dopo il genocidio a stereotipo per un genere cinematografico oggi non più di moda, ne sanno qualcosa). In nome e per conto dei dogmi contenuti in queste nuove Tavole della Legge, si è fatto strame del concetto di sovranità nazionale che per secoli aveva costituito un cardine del tentativo di imporre un diritto internazionale condiviso, si è negata la nozione di autodeterminazione dei popoli quando le scelte da questi compiute non andavano nella direzione auspicata, e soprattutto si è varata la mortifera formula della "guerra umanitaria" che ha derubricato le uccisioni di civili dei paesi aggrediti a "danni collaterali" riparabili a suon di scuse postume, ha legittimato l'uso di ordigni micidiali come i proiettili al fosforo e all'uranio impoverito. Insomma, si è celebrato il trionfo del principio per cui il fine giustifica i mezzi se ad utilizzare anche i più abietti fra questi sono i Buoni contro i Cattivi.
A far da velo a questa evidenza e a magnificare, per coprirla, la nobiltà del nuovo umanesimo sterminatore e devastatore ha provveduto un'armata intellettuale variegata, fatta perlopiù di convertiti dell'utopia comunista pronti a tutto pur di allinearsi al clima di opinione dominante e di goderne le rendite — si pensi a Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, esempi estremi di una specie molto diffusa e assai ben pagata dai giornali che ne pubblicano i periodici violenti sfoghi umorali —, mentre sui pochi critici (come l'Alain de Benoist di Oltre i diritti dell'uomo o il Danilo Zolo di Chi dice umanità) si è abbattuta la scure del silenzio, aggravata dallo stato semicomatoso in cui vegetano gli ambienti sedicenti nonconformisti, da tempo incapaci anche soltanto di leggere, far proprie e far circolare al di fuori delle rispettive nicchie le riflessioni attorno alle quali potrebbe essere costruita una linea di resistenza culturale all'omologazione sistemica.
L'imposizione di questa ideologia ipocrita e insidiosa, veicolata dalle migliaia di voci - dai conduttori di talk shows televisivi agli inviati sugli scenari bellici, dagli editorialisti dei quotidiani ai bloggers consenzienti, dai redattori radiofonici agli opinionisti, ai romanzieri, ai filosofi, sociologi e politologi accademici allineati allo spirito del tempo - di cui la odierna fabbrica del consenso dispone non sarebbe tuttavia stata sufficiente a raggiungere gli scopi che gli occidentalizzatori del mondo si proponevano se la declamazione teorica non fosse stata seguita dai fatti. Cioè dalle risoluzioni delle istituzioni internazionali, dagli embarghi, e poi dalle forniture di armi e denaro
a dissidenti e ribelli, dal lavorio dei servizi segreti, dalle incursioni aeree, dai bombardamenti, dalle invasioni di truppe. Delegittimazione del nemico e suo assoggettamento con la forza dovevano procedere di pari passo. E così è stato. Una volta dipinti i soggetti ostili come spietati tiranni e sfoderata la risorsa della demonizzazione dei "nuovi Hitler" - una galleria infinita, che dopo Milosevic, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, non ha risparmiato né Assad né Gheddafi, inevitabilmente rappresentati con balletti e ciuffetto ribelle malgrado le evidenti incongruenze fisiognomiche, e ha sfiorato i capi di Hezbollah e Hamas e perfino Mubarak (I) -, si è potuti passare alle maniere spicce.
Un ruolo fondamentale è stato svolto, in questo quadro, dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui gli Usa e i loro vassalli da decenni deplorano e neutralizzano le ripetute pronunce di Assemblea, quando sono dirette a deplorare gli atti di violenza perpetrati da Israele, ma utilizzano le opportunità quando è il ristretto Consiglio di Sicurezza ad avallare, grazie a bilanciamenti di interessi, ricatti e compensi, le loro decisioni. Dall'indecorosa sceneggiata di Colin Powell all'epoca dell'invenzione delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene ai contorsionismi dialettici adoperati per giustificare i diversi atti di aggressione, gonfiando o nascondendo a seconda dei casi e dei soggetti implicati stragi e repressioni, fino alla grottesca risoluzione che ha dato il via alle migliaia di bombardamenti contro gli obiettivi libici che hanno consentito di vincere la resistenza di Gheddafi e dei suoi, il catalogo delle genuflessioni dell'organo supremo dell'Onu ai voleri statunitensi è vastissimo, e ancora una volta basterebbe leggere quanto ha scritto in argomento uno studioso libero da tutele e condizionamenti come Danilo Zolo, in libri come Cosmopolis, I signori della pace e La giustizia dei vincitori per rendersene conto.
Se l'Onu ha costituito l'elemento fondamentale del circuito legittimante che ha all'altro capo l'ideologia dei diritti dell'uomo, e ha consentito di far apparire come repressioni di regimi tirannici contro popolazioni plebiscitariamente insorte quelle che erano in realtà guerre civili tra contrapposte minoranze desiderose di conquistare o mantenere il potere con ogni mezzo, autorizzando forze estranee allo scenario dello scontro a scendere in campo militarmente a favore dell'una fazione contro l'altra, a fare da braccio armato all'interventismo umanitario (sul quale la lettura d'obbligo è quella degli studi di Alessandro Colombo: La lunga alleanza, La guerra ineguale e La disunità del mondo) è stata, come è noto, la Nato. All'organizzazione militare transatlantica spetta infatti il ruolo più pesante ed ambiguo nella trama dell'imperialismo statunitense tessuta nell'arco dell'ultimo ventennio, dall'Afghanistan al Kosovo alla Libia senza trascurare i molti scenari collaterali e minori, e la trasfigurazione dei suoi obiettivi originari - in realtà, un vero e proprio tradimento degli intenti proclamati alla sua nascita — è la prova più eclatante dell'inconsistenza politica dell'Europa, che per suo tramite si è soggiogata completamente ai disegni e agli interessi dell'alleato-padrone d'oltreoceano, rinunciando anche solo ad un motivato diritto a dissentire dalle sue iniziative. Il bombardamento di Belgrado ha reso trasparenti gli intenti che i promotori dell"'adeguamento strategico" dell'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (la cui ragion d'essere si era estinta con lo scioglimento del Patto di Varsavia) si prefiggevano: riaffermare ed ampliare il dominio sul Vecchio Continente, legarlo completamente a sé con le buone o con le cattive (il soft e l'hard power) e poi trascinarlo, facendogli pagare costi salati, nelle proprie avventure bellico-umanitarie. La spedizione libica, che si è tradotta in migliaia di bombardamenti giustificati sino all'ultimo, con suprema ipocrisia, dalla necessità di «proteggere la popolazione civile» che soltanto le loro micidiali incursioni contro gli obiettivi urbani potevano minacciare, ha dimostrato che, con l'andar del tempo, il potenziale bellico della struttura l'ha resa utilizzabile per scopi ancora più vasti, nel contesto di un piano di addomesticamento agli interessi occidentali in genere — e a quelli di alcuni paesi dell'area più in particolare — dei residui paesi riottosi. Giunti a questo punto, non è azzardato immaginare che in futuro la Nato potrà servire sistematicamente da maschera di comodo degli Stati Uniti in ogni conflitto, potendo vantare quella parvenza internazionale, ormai a vocazione universalistica, che nell'ambito della strategia adottata dai governi di Washington è una carta cruciale da giocare.
Lultimo tassello di questo mosaico, a suo modo non meno efficace degli altri, è il meccanismo dei Tribunali internazionali, primo fra tutti quello de L'Aia, che consente di ricorrere ad un altro strumento di condizionamento psicologico dell'opinione pubblica mondiale, l'accusa di crimini contro l'umanità, sostituto ben più impressionante della precedente nozione di crimini di guerra. Celando il sempiterno Vae victis sotto le prescrizioni di una legislazione ad hoc, voluta, amministrata ed interpretata ad hoc dai vincitori, questo presunto sistema di giustizia si è finora distinto per il rifiuto di assoggettare a procedimenti giudiziari i responsabili di notori atti di violenza perpetrati dalla "parte giusta" e per il clamore mediatico offerto ai processi o ai mandati d'arresto che hanno avuto per. oggetto alcune "bestie nere" degli Usa, da Milosevic a Karadzic e Mladic, da Bashir a Gheddafi (con il supporto di qualche capro espiatorio croato o bosniaco, utile per un'equanimità puramente di facciata e comunque additabile come esempio delle colpe del-l'esecrato nazionalismo altrui). Appare sempre più chiaro che la sua funzione, nell'ottica degli ispiratori, non consiste nel cercare le prove delle colpe degli indagati, ma nel dissuadere esemplarmente chiunque osi contrastare i principi santificati dall'ideologia dei diritti umani e, soprattutto, ostacolare l'omologazione del pianeta alla volontà e ai valori di chi si refigge di controllarlo integralmente. Pur con qualche intoppo, e con una rilevanza massmediale variabile a seconda dei casi, il meccanismo ha svolto il compito che gli era stato assegnato.
Il combinato di questi fattori ha prodotto nell'ultimo decennio, pur con modalità diverse e non sempre riuscendo a controllare sino in fondo gli esiti delle mosse compiute, un notevole impulso del processo di occidentalizzazione del mondo pilotato dagli Stati Uniti d'America. I vaticini sull'imminente implosione degli States che si ripetono periodicamente ad ogni accenno di crisi economica, e hanno trovato rinnovato vigore dall'autunno 2008 in poi, hanno nascosto agli occhi di molti osservatori pur non prevenuti questo dato di fatto, ma la sua sostanza resta, ed occorre capire, come il dossier di «Eléments» che pubblichiamo in questo numero si propone, se i recenti sconvolgimenti del mondo arabo siano o no un altro decisivo passo avanti in tale direzione. Ce lo dirà, comunque, il prossimo futuro.
Quel che è certo è che il progetto imperiale coltivato a Washington ai tempi di George W. Bush non si è estinto con la pur più riluttante e incerta presidenza Obama. E che ha trovato, oltre ai molti entusiasti corifei, un numero crescente di servitori volontari, talvolta inconsapevoli, i quali, abbracciando la dottrina che ne è alla base, predispongono il terreno per nuovi gravi conflitti a venire (in Siria? In Iran? In Libano? Nell'Asia orientale?) proprio mentre vanno celebrando l'epopea di una presunta età di. Pace perpetua, di Giustizia e di Libertà. Come ha scritto Alessandro Colombo, uno studioso attento delle relazioni internazionali che, oltre a conoscerle, sa interpretare ed applicare all'attualità le analisi schmittiane, nel suo recente La disunità del mondo (Feltrinelli), dopo il 1989 «l'eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine internazionale».
Questo è il lascito velenoso che la predicazione universalistica dell'ideologia liberale reca dentro di sé e che il progetto di dominio planetario statunitense sta liberando. Sarebbe davvero tempo di accorgersene e di reagire. Questa sì, ben più di altre, è una ragione profonda per indignarsi dello stato di cose che siamo costretti a sopportare.

(editoriale di Diorama Letterario, n. 305)

di Marco Tarchi

07 ottobre 2011

Cacciati e spennati

la russaItaliani: pane, amore, fantasia. Popolo di santi, navigatori ed amatori, spaghetti e mandolino, pistole e preservativi, pizza e mozzarella ‘ncoppa, cantanti, cantautori e canzonatori, dop, doc e IGT, tarantella e taranta, pizzica e bballe ‘o roccorol, o’ sole mio ed il mare impetuoso al tramonto. Certo, noi italiani siamo anche (ma, ça va sans dire, non solo) i nostri luoghi comuni che esportiamo all’estero, insieme al resto, per venderci meglio e fare i mariuoli con gli altri e tra di noi. Nessuno lo nega, ma ora l’aria è cambiata e stiamo seriamente peggiorando. Non c’entra niente il bunga bunga ed il fichi fichi. Eravamo gli inimitabili esecutori del pacco, doppiopacco e contropaccotto ma poi sono arrivati La Russa e Frattini ed ormai facciamo solo la figura dei farlocchi e dei meschini. Metti due zucconi a guidare importanti dicasteri e le barzellette si capovolgono in realtà. Che non fa ridere. Gabbati e burlati dal francese, dall’inglese e dall’americano. E‘ questo il contrappasso che ci tocca dopo decenni di freddure sciovinistiche, a sfondo internazionale, favorevoli al connazionale. Iniziamo da La Russa. Uno con quel cognome doveva buttarsi nel business dei materassi o nella filiera delle gnocche dell’est da inviare al Premier ed, invece, ce lo ritroviamo a reggere il Ministero della difesa. Siccome La Russa se non spara bombe in Libia spara cazzate in Brasile si è messo in testa di fare la voce grossa con le autorità carioca per il caso Battisti. I vertici di Brasilia dopo aver sentito il suo nome hanno sbadigliato a lungo, ma non sono riusciti a chiudere occhio per i lamenti che provenivano da Roma. Battisti se lo terranno e dato che insistiamo con questa litania che disturba i loro sogni faranno saltare il banco di commesse strategiche per le nostre imprese di punta. Si parla di un giro d’affari intorno ai 10 miliardi di euro che coinvolge Fincantieri, Eni e Finmeccanica. Guarguaglini e Scaroni sono preoccupati, dopo i deserti della Sirte temono di vedersi sbarrate anche le spiagge di Rio. I soldi, tuttavia, li perderà il sistema-paese e non La Russa che anziché finire in Siberia, come meriterebbe, potrebbe ricevere una vacanza premio a Copacabana dai nostri concorrenti esteri. Passiamo a Frattini. Questo rapace della diplomazia nostrana col becco di pollo e la coda di pavone aveva rassicurato la pubblica opinione nazionale sui risultati della guerra e sulla messa in sicurezza degli interessi italiani grazie agli accordi presi col CNT. Ma i versi accalorati del nostro allocco ministeriale stonavano con quelli dell’aquila imperiale che aveva evitato di inquadrarci tra i predatori in volo di Tripoli, nonché amici piumati dei capponi di Bengasi. A ciò si aggiungeva la trasvolata anzitempo, a beccamenti ancora in corso, di Cameron e Sarkozy, per accreditarsi quali unici fringuelli liberatori della Libia. Oggi, ben al di là dei cinguetii di Frattini che affibbiava ai critici italiani l’appellativo di gufi antipatriottici si scoprono finalmente le carte e per noi sono una sfilza di due di picche. Le PMI stanno trasmigrando dal Paese nordafricano perché scalzate dalle omologhe anglo-francesi. Lo denuncia il Presidente della camera di Commercio Italafrica Centrale secondo il quale Tripoli e Roma non cantano affatto sullo stesso ramo, e questo a tutto danno delle nostre aziende che sono costrette a lasciare le gabbie dorate per far posto ai barbagianni di Parigi, di Londra e financo di Ankara. Insomma, noi non eravamo uccelli del malaugurio quando insinuavamo che saremmo stati coperti da escrementi di piccione e lui non era un falco con la vista lunga quando affermava che c’era mangime per tutti. Anzi, ha venduto l’uccello sulla frasca senza nemmeno averlo avvistato ed ora si ritrova in pentola come una quaglia. Insomma, a causa di un tordo che si crede un politico siamo stati tutti spennati e siamo rimasti senza il becco di un quattrino. Complimenti a lui e all’uccello che lo ha messo al mondo istituzionale.

di Gianni Petrosillo

06 ottobre 2011

Lo spettro Lehman torna tra le banche





La crisi della Grecia e le incertezze dell'Europa si ripercuotono sulle borse mondiali. L'Eurogruppo rinvia la sesta tranche di aiuti ad Atene Tre anni fa l'esplosione della quarta banca d'affari del mondo innescò un «credit crunch»


Prestiti interbancari fermi per il «rischio Grecia». Bernanke (Fed) promette aiuti ed evita il tracollo
Ottobre 2008, ottobre 2011. Siamo di nuovo al punto di partenza. La crisi ha fatto un giro, bruciando risorse pubbliche per migliaia di miliardi di dollari, euro, yen. Ma il sistema bancario globale - inchiodato tre anni fa dal fallimento di Lehman Brothers, quarta banca d'affari degli Usa e del mondo - sta vivendo di nuovo un credit crunch. Tradotto: le banche non si prestano più soldi tra loro, figuriamoci ai clienti «normali» (imprese e privati).
La Cnn titolava in prima pagina, l'altroieri sera, «È Morgan Stanley la prossima Lehman?». A seguire un'analisi dettagliata della quantità di titoli di stato dei Piigs europei, a partire da quelli greci, che giacciono tra gli asset del colosso; minandone la solidità. Morgan Stanley è seconda soltanto a Goldman Sachs (che ieri ha diffuso stime molto grame sulla crescita globale e perfino una stagnazione europea nel 2012); un suo eventuale default avrebbe conseguenze sistemiche inimmaginabili.

Sui mercati europei, invece, le banche preferiscono depositare i propri soldi presso la Bce - a tassi molto inferiori a quelli dimercato - pur di non rischiare una mancata restituzione. Il tasso overnight (che misura il rischio del prestito interbancario) è tornato ai massimi livelli, come due anni e mezzo fa. Dopo Lehman.

Al centro dell'attenzione resta la crisi greca, naturalmente; e soprattutto il modo ondivago con cui le istituzioni internazionali stanno affrontandola. Ieri notte l'Eurogruppo - i ministri finanziari della zona euro - ha rinviato un'altra volta il versamento della sesta tranche di aiuti ad Atene, seminando incertezza aggiuntiva. Peggio. Ha rinviato anche la prevista riunione del 13 ottobre, che aveva proprio questa decisione all'ordine del giorno. Allo stesso tempo ha chiesto «misure supplementari» a quelle già accettate da Papandreou per sbloccare il piano di salvataggio. Mentre la Finlandia, in totale autonomia, ha raggiunto un accordo con il governo greco per avere «garanzie collaterali» esclusive in cambio della percentuale finnica di aiuti. Quel che stupisce è la sproporzione mostruosa tra i «risparmi» ottenuti licenziando decine di migliaia di statali, ecc (6,6 miliardi), e la dimensione del «secondo piano d'aiuti»: 109 miliardi.

Un discreto caos, non certo diminuito dal compromesso con cui l'Eurogruppo ha deciso di «rafforzare» il fondo di stabilità Efsf: tramite un «effetto leva», ovvero a debito, ma senza incrementare il capitale posto a garanzia. Il problema è come fare a non perdere la «tripla A» necessaria perché questo fondo possa reperire capitali a un tasso moderato; le agenzie di rating potrebbero non gradire l'escamotage.

Con queste premesse le borse non potevano che cedere clamorosamente terreno, soprattutto nel settore bancario. Tanto più che proprio ieri Deutsche Bank - non proprio un nanerottolo - ha tagliato le stime sull'utile 2011; nel terzo trimestre saranno anche necessari accantonamenti per 250 milioni a seguito di svalutazioni legate ai bond greci. E non basteranno i 500 licenziamenti subito messi in cantiere per tappare il buco. Anche gli altri colossi del credito continentali hanno perso percentuali oscillanti tra il 5 e l'8% (con la franco-belga Dexia oltre ogni limite).

Alla fine, dopo un'apertura di Wall Street che minacciava sfracelli - -2,32% - è toccato ancora una volta a Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve Usa, vestire i panni del grande tranquillizzatore. Davanti al Congresso ha spiegato che l'occupazione non crescerà a breve, e che «le tensioni finanziarie hanno intaccato il morale delle famiglie e delle imprese». Ma la Fed vigila. E anche se non ci sono «piani immediati» per un terzo episodio della saga «quantititive easing» (iniezioni di liquidità pubblica), la banca centrale «è pronta a fare di più per aiutare una ripartenza più decisa dell'economia». Può farlo perché le stime sull'inflazione, nel 2012, restano intorno al livello considerato ottimale: il 2%. Ma avverte comunque che «la politica monetaria è uno strumento potente, ma non è la panacea per i problemi dell'economia statunitense».

Tanto è bastato per risollevare il morale degli operatori di borsa, che hanno potuto ridurre le perdite in Europa e addirittura vedere un timido guadagno negli Usa. Poi Wall Street è tornata a cadere. Perché il dato strutturale resta fermo: è possibile uscire da una crisi globale contando soltanto sulla «liquidità» che alcuni stati - sempre meno - cercano ancora di garantire? Non serve una laurea per rispondere...
di Tommaso De Berlanga

04 ottobre 2011

Servi dell'Impero




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Dieci anni fa, di questi tempi, le parole d'ordine imposte dalla giaculatoria massmediale alla opinione del pubblico erano due. Dopo l'11 settembre, si diceva, il mondo non sarebbe stato «mai più come prima»: l'Occidente era stato ferito al cuore e avrebbe dovuto, di lì in poi, fronteggiare la tentacolare minaccia di un estremismo islamico che rischiava di metterlo in ginocchio. E per questo - ecco il secondo slogan - era venuto il momento del «siamo tutti americani», ovvero della solidarietà incondizionata con Washington, riassurta, a solo dodici anni dal crollo del muro di Berlino, al ruolo di baluardo del Mondo Libero contro l'Asse del Male, gli Stati canaglia e i loro sgherri, votati all'odio perché invidiosi del livello di vita e di ricchezza raggiunto dagli Usa e dai loro più fedeli alleati. Un'invidia che, non si mancava di aggiungere, si nascondeva dietro le invettive contro l'empietà e l'arroganza dei nemici dell'islam. Fummo tra i pochi, allora e dopo, che cercarono di opporre al frastuono della propaganda la voce critica della ragione, proponendo argomenti invece di proclami. Dicemmo chiaramente - chi vuole, può sincerarsene leggendo due libri (entrambi editi da Laterza) come il nostro Contro l'americanismo e La paura e l'arroganza curato da Franco Cardini - che, nei suoi tratti essenziali, la dinamica politica, economica e culturale del mondo non sarebbe stata modificata dall'attacco aereo alle Torri gemelle: la scalata all'egemonia planetaria degli Stati Uniti, in atto ormai da un abbondante decennio, ne avrebbe semmai tratto un ulteriore impulso; l'Europa avrebbe accentuato la già marcata sudditanza ai voleri d'oltre Atlantico, rinunciando a qualsiasi iniziativa indipendente; la tanto temuta propagazione di sentimenti antiamericani nell'ex Terzo mondo non ci sarebbe stata; il mondo islamico non avrebbe imboccato la via del radicalismo oltranzista. E, soprattutto, l'infiltrazione dell'american way of life, con il suo carico di precetti individualistici, materialistici e cosmopoliti, negli anfratti dell'immaginario collettivo delle popolazioni di ogni angolo del globo non solo non sarebbe rallentata ma avrebbe tratto nuova linfa dalla vittimizzazione degli States che gli attentati di New York e di Washington favorivano: rappresentare il paese della più potente, spietata e attiva macchina da guerra esistente nei panni del gigante buono e vulnerabile vigliaccamente colpito dai malvagi era un'arma formidabile per rafforzarne il mito e creare, sulla base della compassione, complicità verso le nuove imprese belliche che si annunciavano all'orizzonte.
A distanza di un decennio, è inevitabile constatare che avevamo azzeccato l'analisi. Sulle ali della retorica dell'11 settembre, che le attuali celebrazioni si incaricano di tenere ben viva con un intento politico celato, come di consueto, dietro il richiamo ai buoni e doverosi sentimenti, gli Usa hanno costruito un percorso lastricato di guerre, bombardamenti a tappeto, massacri di militari e civili dei paesi nemici, che soltanto in virtù degli accorgimenti tecnologici che consentono agli aggressori di distruggere dall'alto ogni bersaglio senza rischiare danni non hanno prodotto una contabilità di vittime equiparabile a quella dei maggiori conflitti del XX secolo. E nel loro sanguinoso itinerario verso il dominio, oltre a godere del plauso dell'apparato comunicativo dell'intera area di influenza occidentale, pronto a tacere, distorcere, negare, mentire a comando ogniqualvolta veniva ritenuto necessario, hanno potuto contare sull'efficace azione di una nutrita retroguardia economico-finanziaria, pronta a ricostruire ciò che era stato distrutto traendone e in parte distribuendo ai più servizievoli amici ampi profitti, e soprattutto sull'impegno di una fureria intellettuale, che nei paesi soggiogati a suon di bombe ha diffuso a piene mani, seguendo una tradizione consolidata, quei formidabili strumenti di condizionamento mentale che sono i gadgets della cultura di massa made in Usa.
La conquista dell'agognato ruolo di gendarme planetario è stata però, bisogna riconoscerlo, ostacolata dalla forte crescita economica di concorrenti inattesi, prime fra tutti Cina e India, e lo scenario unipolare disegnato dagli strateghi neoconservatori dell'amministrazione Bush si è rivelato sin qui impraticabile. L'esplosione della bolla economica interna del 2008 ha poi accentuato i problemi. Ma per assurgere a padroni del mondo, gli eredi dei Padri pellegrini ce l'hanno messa davvero tutta. E nella partita più importante, quella per il controllo delle mentalità collettive, il loro vantaggio è ancora straordinariamente consistente. Le aspettative che si sono create attorno alla cosiddetta "primavera araba", dalla quale ci si attende formalmente un'ondata di democratizzazione ma si esige sostanzialmente una robusta occidentalizzazione - dei costumi, dei consumi, delle leggi, degli stili di vita, delle credenze - ne sono una spia evidente. E non si può negare, come invece piace fare da sempre agli ambienti pervasi di un antiamericanismo pregiudiziale, rancoroso e sommario, mosso non dalla critica rigorosa di un modello di civiltà ma da un confuso mix di nostalgie ereditarie (di destra e/o di sinistra) e wishful thinking, che l'azione condotta dagli Usa e dai loro volenterosi complici sia stata, e sia, molto efficace. Tanto da rendersi pressoché impermeabile agli argomenti con cui coloro che non ne condividevano né le premesse né gli obiettivi hanno tentato di contrastarla.
I motivi di questo successo attengono sia all'ordine delle sue premesse teoriche sia a quello degli strumenti empirici incaricati di tradurle in realtà.
Sul primo di questi versanti, la carta vincente degli Usa è stata il ricorso sistematico e onnipervadente all'ideologia dei diritti dell'uomo, costruita ad immagine e somiglianza del loro modello di società e dei progetti di espansione imperiale connaturati al paese che aveva già partorito nel corso degli oltre due secoli di vita le dottrine del «destino manifesto» e del «cortile di casa» e che fin dalla nascita ha coltivato la convinzione di aver ricevuto da Dio il compito di adempiere ad una missione universale di conversione al Bene dei miscredenti, non esitando a ricorrere ai mezzi più crudeli per adempierla (gli ormai dimenticati nativi, ridotti dopo il genocidio a stereotipo per un genere cinematografico oggi non più di moda, ne sanno qualcosa). In nome e per conto dei dogmi contenuti in queste nuove Tavole della Legge, si è fatto strame del concetto di sovranità nazionale che per secoli aveva costituito un cardine del tentativo di imporre un diritto internazionale condiviso, si è negata la nozione di autodeterminazione dei popoli quando le scelte da questi compiute non andavano nella direzione auspicata, e soprattutto si è varata la mortifera formula della "guerra umanitaria" che ha derubricato le uccisioni di civili dei paesi aggrediti a "danni collaterali" riparabili a suon di scuse postume, ha legittimato l'uso di ordigni micidiali come i proiettili al fosforo e all'uranio impoverito. Insomma, si è celebrato il trionfo del principio per cui il fine giustifica i mezzi se ad utilizzare anche i più abietti fra questi sono i Buoni contro i Cattivi.
A far da velo a questa evidenza e a magnificare, per coprirla, la nobiltà del nuovo umanesimo sterminatore e devastatore ha provveduto un'armata intellettuale variegata, fatta perlopiù di convertiti dell'utopia comunista pronti a tutto pur di allinearsi al clima di opinione dominante e di goderne le rendite — si pensi a Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, esempi estremi di una specie molto diffusa e assai ben pagata dai giornali che ne pubblicano i periodici violenti sfoghi umorali —, mentre sui pochi critici (come l'Alain de Benoist di Oltre i diritti dell'uomo o il Danilo Zolo di Chi dice umanità) si è abbattuta la scure del silenzio, aggravata dallo stato semicomatoso in cui vegetano gli ambienti sedicenti nonconformisti, da tempo incapaci anche soltanto di leggere, far proprie e far circolare al di fuori delle rispettive nicchie le riflessioni attorno alle quali potrebbe essere costruita una linea di resistenza culturale all'omologazione sistemica.
L'imposizione di questa ideologia ipocrita e insidiosa, veicolata dalle migliaia di voci - dai conduttori di talk shows televisivi agli inviati sugli scenari bellici, dagli editorialisti dei quotidiani ai bloggers consenzienti, dai redattori radiofonici agli opinionisti, ai romanzieri, ai filosofi, sociologi e politologi accademici allineati allo spirito del tempo - di cui la odierna fabbrica del consenso dispone non sarebbe tuttavia stata sufficiente a raggiungere gli scopi che gli occidentalizzatori del mondo si proponevano se la declamazione teorica non fosse stata seguita dai fatti. Cioè dalle risoluzioni delle istituzioni internazionali, dagli embarghi, e poi dalle forniture di armi e denaro
a dissidenti e ribelli, dal lavorio dei servizi segreti, dalle incursioni aeree, dai bombardamenti, dalle invasioni di truppe. Delegittimazione del nemico e suo assoggettamento con la forza dovevano procedere di pari passo. E così è stato. Una volta dipinti i soggetti ostili come spietati tiranni e sfoderata la risorsa della demonizzazione dei "nuovi Hitler" - una galleria infinita, che dopo Milosevic, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, non ha risparmiato né Assad né Gheddafi, inevitabilmente rappresentati con balletti e ciuffetto ribelle malgrado le evidenti incongruenze fisiognomiche, e ha sfiorato i capi di Hezbollah e Hamas e perfino Mubarak (I) -, si è potuti passare alle maniere spicce.
Un ruolo fondamentale è stato svolto, in questo quadro, dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui gli Usa e i loro vassalli da decenni deplorano e neutralizzano le ripetute pronunce di Assemblea, quando sono dirette a deplorare gli atti di violenza perpetrati da Israele, ma utilizzano le opportunità quando è il ristretto Consiglio di Sicurezza ad avallare, grazie a bilanciamenti di interessi, ricatti e compensi, le loro decisioni. Dall'indecorosa sceneggiata di Colin Powell all'epoca dell'invenzione delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene ai contorsionismi dialettici adoperati per giustificare i diversi atti di aggressione, gonfiando o nascondendo a seconda dei casi e dei soggetti implicati stragi e repressioni, fino alla grottesca risoluzione che ha dato il via alle migliaia di bombardamenti contro gli obiettivi libici che hanno consentito di vincere la resistenza di Gheddafi e dei suoi, il catalogo delle genuflessioni dell'organo supremo dell'Onu ai voleri statunitensi è vastissimo, e ancora una volta basterebbe leggere quanto ha scritto in argomento uno studioso libero da tutele e condizionamenti come Danilo Zolo, in libri come Cosmopolis, I signori della pace e La giustizia dei vincitori per rendersene conto.
Se l'Onu ha costituito l'elemento fondamentale del circuito legittimante che ha all'altro capo l'ideologia dei diritti dell'uomo, e ha consentito di far apparire come repressioni di regimi tirannici contro popolazioni plebiscitariamente insorte quelle che erano in realtà guerre civili tra contrapposte minoranze desiderose di conquistare o mantenere il potere con ogni mezzo, autorizzando forze estranee allo scenario dello scontro a scendere in campo militarmente a favore dell'una fazione contro l'altra, a fare da braccio armato all'interventismo umanitario (sul quale la lettura d'obbligo è quella degli studi di Alessandro Colombo: La lunga alleanza, La guerra ineguale e La disunità del mondo) è stata, come è noto, la Nato. All'organizzazione militare transatlantica spetta infatti il ruolo più pesante ed ambiguo nella trama dell'imperialismo statunitense tessuta nell'arco dell'ultimo ventennio, dall'Afghanistan al Kosovo alla Libia senza trascurare i molti scenari collaterali e minori, e la trasfigurazione dei suoi obiettivi originari - in realtà, un vero e proprio tradimento degli intenti proclamati alla sua nascita — è la prova più eclatante dell'inconsistenza politica dell'Europa, che per suo tramite si è soggiogata completamente ai disegni e agli interessi dell'alleato-padrone d'oltreoceano, rinunciando anche solo ad un motivato diritto a dissentire dalle sue iniziative. Il bombardamento di Belgrado ha reso trasparenti gli intenti che i promotori dell"'adeguamento strategico" dell'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (la cui ragion d'essere si era estinta con lo scioglimento del Patto di Varsavia) si prefiggevano: riaffermare ed ampliare il dominio sul Vecchio Continente, legarlo completamente a sé con le buone o con le cattive (il soft e l'hard power) e poi trascinarlo, facendogli pagare costi salati, nelle proprie avventure bellico-umanitarie. La spedizione libica, che si è tradotta in migliaia di bombardamenti giustificati sino all'ultimo, con suprema ipocrisia, dalla necessità di «proteggere la popolazione civile» che soltanto le loro micidiali incursioni contro gli obiettivi urbani potevano minacciare, ha dimostrato che, con l'andar del tempo, il potenziale bellico della struttura l'ha resa utilizzabile per scopi ancora più vasti, nel contesto di un piano di addomesticamento agli interessi occidentali in genere — e a quelli di alcuni paesi dell'area più in particolare — dei residui paesi riottosi. Giunti a questo punto, non è azzardato immaginare che in futuro la Nato potrà servire sistematicamente da maschera di comodo degli Stati Uniti in ogni conflitto, potendo vantare quella parvenza internazionale, ormai a vocazione universalistica, che nell'ambito della strategia adottata dai governi di Washington è una carta cruciale da giocare.
Lultimo tassello di questo mosaico, a suo modo non meno efficace degli altri, è il meccanismo dei Tribunali internazionali, primo fra tutti quello de L'Aia, che consente di ricorrere ad un altro strumento di condizionamento psicologico dell'opinione pubblica mondiale, l'accusa di crimini contro l'umanità, sostituto ben più impressionante della precedente nozione di crimini di guerra. Celando il sempiterno Vae victis sotto le prescrizioni di una legislazione ad hoc, voluta, amministrata ed interpretata ad hoc dai vincitori, questo presunto sistema di giustizia si è finora distinto per il rifiuto di assoggettare a procedimenti giudiziari i responsabili di notori atti di violenza perpetrati dalla "parte giusta" e per il clamore mediatico offerto ai processi o ai mandati d'arresto che hanno avuto per. oggetto alcune "bestie nere" degli Usa, da Milosevic a Karadzic e Mladic, da Bashir a Gheddafi (con il supporto di qualche capro espiatorio croato o bosniaco, utile per un'equanimità puramente di facciata e comunque additabile come esempio delle colpe del-l'esecrato nazionalismo altrui). Appare sempre più chiaro che la sua funzione, nell'ottica degli ispiratori, non consiste nel cercare le prove delle colpe degli indagati, ma nel dissuadere esemplarmente chiunque osi contrastare i principi santificati dall'ideologia dei diritti umani e, soprattutto, ostacolare l'omologazione del pianeta alla volontà e ai valori di chi si refigge di controllarlo integralmente. Pur con qualche intoppo, e con una rilevanza massmediale variabile a seconda dei casi, il meccanismo ha svolto il compito che gli era stato assegnato.
Il combinato di questi fattori ha prodotto nell'ultimo decennio, pur con modalità diverse e non sempre riuscendo a controllare sino in fondo gli esiti delle mosse compiute, un notevole impulso del processo di occidentalizzazione del mondo pilotato dagli Stati Uniti d'America. I vaticini sull'imminente implosione degli States che si ripetono periodicamente ad ogni accenno di crisi economica, e hanno trovato rinnovato vigore dall'autunno 2008 in poi, hanno nascosto agli occhi di molti osservatori pur non prevenuti questo dato di fatto, ma la sua sostanza resta, ed occorre capire, come il dossier di «Eléments» che pubblichiamo in questo numero si propone, se i recenti sconvolgimenti del mondo arabo siano o no un altro decisivo passo avanti in tale direzione. Ce lo dirà, comunque, il prossimo futuro.
Quel che è certo è che il progetto imperiale coltivato a Washington ai tempi di George W. Bush non si è estinto con la pur più riluttante e incerta presidenza Obama. E che ha trovato, oltre ai molti entusiasti corifei, un numero crescente di servitori volontari, talvolta inconsapevoli, i quali, abbracciando la dottrina che ne è alla base, predispongono il terreno per nuovi gravi conflitti a venire (in Siria? In Iran? In Libano? Nell'Asia orientale?) proprio mentre vanno celebrando l'epopea di una presunta età di. Pace perpetua, di Giustizia e di Libertà. Come ha scritto Alessandro Colombo, uno studioso attento delle relazioni internazionali che, oltre a conoscerle, sa interpretare ed applicare all'attualità le analisi schmittiane, nel suo recente La disunità del mondo (Feltrinelli), dopo il 1989 «l'eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine internazionale».
Questo è il lascito velenoso che la predicazione universalistica dell'ideologia liberale reca dentro di sé e che il progetto di dominio planetario statunitense sta liberando. Sarebbe davvero tempo di accorgersene e di reagire. Questa sì, ben più di altre, è una ragione profonda per indignarsi dello stato di cose che siamo costretti a sopportare.

(editoriale di Diorama Letterario, n. 305)

di Marco Tarchi