24 ottobre 2011

Condividi: Panico Usa: è Wall Street a detenere il nostro debito

Gli Usa sono letteralmente terrorizzati: se crolla uno Stato europeo, uno qualsiasi, vanno in crisi le grandi banchefrancesi e tedesche sorrette da Wall Street. Ecco perché Washington è così attenta alla crisi europea e raccomanda a Bruxelles di scongiurare il rischio di default, a cominciare da quello della Grecia: il collasso a catena porterebbe alla bancarotta delle centrali finanziarie statunitensi. Lo afferma Robert Reich, docente di politiche pubbliche all’università californiana di Berkeley, già ministro del lavoro del presidente Clinton nonché autore di tredici libri. «Perché l’America dovrebbe essere così preoccupata? Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell’implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario».

E’ l’analista Debora Billi a sottolineare l’intervento di Reich affidato al web: «Sì, esportiamo in Europa – ammette il professore – ma le esportazioni non Timothy Geithnerfiniranno e, in ogni caso, sono una goccia nel mare dell’economia statunitense». Se il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha «unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea», la vera ragione risiede nella drammatica fragilità del sistema finanziario creato da Wall Street ed esteso all’Europa: «Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti – scrive Reich – può facilmente colpire lebanche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia». E qui «entra in ballo Wall Street», che «ha prestato una montagna di soldi allebanche tedesche e francesi».

La totale esposizione all’eurozona, continua Reich, è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale. E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti: «Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall’Europa – sull’energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l’effetto domino è incalcolabile». Capito? Seguite i soldi, raccomanda Reich: «Se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banchetedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers».

Ecco perché le azioni delle principali banche Usa sono scese così tanto nel mese scorso, osserva l’economista californiano, fiutando il peggio: Morgan Stanley ha chiuso al punto più basso dal dicembre 2008. La gigantesca banca d’affari mondiale è in pericolo, sottolinea Debora Billi nel suo blog “Crisis.blogosfere“: «Reich sostiene che, se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari», ovvero «2 miliardi in più del totale dei suoi assets», pur sostenendo di non avere alcuna esposizione Robert Reichverso lebanche francesi: «In realtà, l’esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps. Ecco perché a Washington sono terrorizzati – e perché il segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate».

«Non vi confondete», avverte la Billi: «Gli Usa vogliono che l’Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere – portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l’Irlanda è l’esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street. Chiuso il cerchio». In altre parole, conclude Debora Billi, non è la Grecia il problema. Né l’Italia, il Portogallo, o la Spagna. «Il vero problema è il sistema finanziario – centrato a Wall Street. E noi non l’abbiamo ancora risolto».

di Giorgio Cattaneo

23 ottobre 2011

Capitalismo produttivo, finanziario, di Stato & sociale



Si fa presto a dire capitalismo. Fa presto sia chi ne elogia le infallibili virtù, tanto chi se ne dichiara “anti” o “contro”. Ma di quale capitalismo si tessono gli elogi e di quale, invece, ci si dichiara fieri avversori? Perché di capitalismi ce ne sono molti. Perfino il comunismo, che dai più è considerato il suo esatto opposto, può essere definito come tipologia di capitalismo: di stato – certo – ma pur sempre capitalismo. Se per capitale, infatti, si intende la quantità di moneta e altri beni monetizzabili, come i mezzi di produzione, posseduti da uno o più individui, trasferire il capitale dall’individuo allo stato, dal privato al pubblico, non cambia poi di molto la questione. Semmai, la distinzione fra capitalismo e comunismo si pone sugli effetti prodotti da questa ideologia della proprietà, a partire dal profitto, dal superprofitto e, soprattutto, dalla loro destinazione d’uso. Ma qui siamo già a valle del processo capitalistico: quando, cioè, il capitale inizialmente investito produce il suo frutto. A monte, invece, la distinzione va fatta proprio sul tipo di investimento scelto ed operato dal capitalista. E qui le opzioni sono due: capitalismo produttivo e capitalismo finanziario. Almeno inizialmente, la differenza era netta: il primo investiva in attività produttive di imprese e servizi, ne assumeva il rischio e offriva lavoro. Il secondo si limitava a prestare capitale a chi non ne possedeva, con poco o nessun rischio (sin dall’antichità l’insolvenza del debitore era punita drasticamente fino al massimo della pena: la schiavitù dell’insolvente che diventava, così, “proprietà” del creditore) e, soprattutto, senza produrre altro che denaro dal denaro. Per sé e solo per sé. Tanto era chiara la distinzione che i redditi del capitalismo produttivo si chiamavano “guadagni” (poi, “profitti”) e quelli del capitalismo finanziario, “interessi” o, in caso di eccesso della domanda di restituzione del prestito originario, “usura”.

La distinzione rimase evidente per secoli: difficilmente il finanziere diventava produttore o il produttore, finanziere. I ruoli cominciarono a diventare meno nitidi sul finire del Medio Evo, quando a Genova, nel 1406, nacque la prima banca moderna: il Banco di San Giorgio. Oh, la banca! questa sovrana istituzione privata che è diventata l’incubo dei giorni nostri. Va detto che all’inizio non fu neanche una cattiva idea, offrendosi, la banca, come mediatrice riconosciuta e garante del passaggio di denaro fra risparmiatori e imprenditori. Lo scambio aveva dei costi (differenza fra interesse dato a chi depositava i suoi risparmi e quello chiesto all’imprenditore che fruiva del prestito) ma i vantaggi dovuti dal vertiginoso aumento dalla circolazione del denaro e dai suoi investimenti produttivi furono enormi. Tanto che, con un’accelerazione incredibile a quei tempi, Genova divenne la potenza economica ricordata dalla storia. Gli svantaggi? Uno e originario, ma non immediatamente percepito nella sua portata negativa: l’immenso potere della banca di Genova divenne in breve tempo superiore a quello del governo politico. Con quali effetti? Innanzi tutto, con quello di dettare le sue leggi di primato all’intera economia dello stato. A quel punto, appare ovvio, i confini fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario cominciarono ad assottigliarsi fino quasi a non poter distinguere dove comincia l’uno e dove finisce l’altro.

Ma ci vollero altri secoli per poter prendere atto del fenomeno con analisi lucide tipo quella di Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte rivoluzionaria e per fama al mondo semplicemente Lenin: «Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà».

Destrutturiamo il suo detto. Il “capitalismo industriale” (o produttivo) si connota con le parole chiave: “libera concorrenza” (di mercato) e “regole” (ce ne sono o potrebbero essercene altre di regole oltre alla “borsa” che, anzi, oggi appare terreno di pertinenza finanziaria ma, per quel che serve, atteniamoci al principio della “regola”). Il capitalismo finanziario (quello delle banche e altri noti istituti) invece, si distingue con i termini: “imperialismo” (oggi, forse, Lenin direbbe globalizzazione), “monopolio” (ma monopolistica, in quanto statale, lo fu anche l’economia sovietica) e “dominio” (in antitesi alla libertà). L’altra parola chiave è “fusione” fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario «mediante – osservava giustamente Lenin – il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa».

Ed è esattamente quello che è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, anche in Italia. Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat, vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli squali che cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi.

Torneranno tempi più normali per questa “povera patria”, come auspicava Franco Battiato nell’omonima canzone? Bisognerebbe, innanzi tutto, mettere una bella capezza (penso ad una robin-tax planetaria, per esempio) al collo dell’usorocrazia mondiale. Poi, a me personalmente, basterebbe entrasse in auge il capitalismo sociale di Adriano Olivetti, l’imprenditore industriale che a Ivrea reinvestiva il superprofitto della sua azienda in beni e servizi socialmente utili per la comunità dei lavoratori. A questo, magari, aggiungerei la richiesta di rendere finalmente esecutivo l’articolo 46 della Costituzione italiana che testualmente recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Niente di più.

di Miro Renzaglia

22 ottobre 2011

Ma la Casta non si indigna di se stessa

http://static.fanpage.it/socialmediafanpage/wp-content/uploads/2011/05/Parlamento-230x155.jpg

Il ministero dell’Economia, sempre così lento quando si tratta di trovare fondi per lo sviluppo, ha deliberato con lestezza da furetto che il taglio degli stipendi si applica a tutti i dirigenti pubblici tranne che a ministri e sottosegretari. Non solo a lorsignori non verrà più trattenuto neppure un euro, ma con la busta paga di novembre si vedranno restituire con tante scuse le decurtazioni dei mesi scorsi.

Da tempo attendiamo dalla Casta un segnale di rinsavimento, un gesto minimo di coerenza che inauguri qualche cambio d’abitudini. Per far digerire i sacrifici di Ferragosto ci avevano promesso la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province e altre prelibatezze. Ma che fine ha riservato l’autunno alle parole fiorite davanti ai microfoni estivi? La riduzione dei parlamentari è appassita all’interno dell’ennesimo progetto di riforma universale delle istituzioni, il Calderolone, che come tutti i suoi predecessori non verrà mai approvato.

L’ abolizione di alcune Province, già annunciata in pompa magna dal governo, è attualmente stipata nell’ultimo ripiano del freezer, in attesa che qualcuno si ricordi di scongelarla, ma vedrete che resterà lì. E il ridimensionamento delle retribuzioni? Per essere sicuri che non si facesse, è stata istituita una commissione apposita che avrebbe dovuto decidere entro il 31 dicembre, se non fosse già nata con la deroga incorporata: fino al 31 marzo, quando si andrà a votare oppure si ricomincerà a prorogare. Ah, ma almeno per i vitalizi nessuna pietà. A-bo-li-ti. Dalla prossima legislatura, naturalmente. E solo dopo la creazione di un nuovo sistema previdenziale. Chi lo indicherà? Ma una commissione. Prorogabile. Prorogabilissima.

Il sondaggio mostrato l’altra sera a Ballarò da Pagnoncelli era piuttosto sconvolgente: il 61% dei cittadini italiani ritiene seriamente che l’intervento prioritario contro la crisi non sia la detassazione del lavoro, la patrimoniale o un piano robusto di lavori pubblici, ma la riduzione del numero dei parlamentari. Con il collega Carlo Bertini, nostro esperto in Casta e dintorni, abbiamo fatto i conti della serva. Gli stipendi e i rimborsi spese di senatori e deputati ci costano 200 milioni di euro l’anno. Dimezzandoli ne risparmieremmo 100. Una benedizione, ma pur sempre una goccia nell’oceano del debito pubblico, ormai prossimo alla soglia psicologica dei duemila miliardi.

Eppure, nell’esprimere la loro opinione economicamente assurda, gli italiani non sono stati affatto stupidi o qualunquisti. Hanno mandato un messaggio politico. Dai loro rappresentanti pretendono qualcosa di cui sentono d’avere terribilmente bisogno: il buon esempio. Provate a immaginare se domattina i leader di destra e di sinistra, smettendo per un giorno di delegittimarsi a vicenda, si presentassero insieme in conferenza stampa per annunciare la volontà di lavorare gratis fino al termine della legislatura. Sarebbe un gesto populista? Può darsi. Ma li renderebbe più autorevoli nel momento in cui si accingessero a chiedere sforzi ulteriori ai contribuenti. Durante la tempesta i capitani che vogliono essere obbediti non si barricano nei propri appartamenti con le scorte di caviale, ma stanno in mezzo alla ciurma condividendone i rischi e i disagi.

Qualcuno mi ha suggerito di scrivere questo stesso articolo tutti i giorni, «finché non si arrendono», ma temo che i lettori si stuferebbero molto prima degli onorevoli. La Casta è totalmente sganciata dal mondo reale. Altrimenti si sarebbe accorta che nel disprezzo che gli italiani manifestano per i suoi stipendi si cela un giudizio più profondo: il disprezzo per l’inutilità del suo lavoro e per l’incompetenza di una parte consistente dei suoi esponenti. Il problema vero non è che guadagnano troppo. E’ che fanno ben poco per meritarsi quel che guadagnano.

Rusconi e Galli della Loggia hanno scritto che l’unica via di uscita dalla sterilità dell’indignazione è il ritorno alla politica. Non però alla delega politica. Se intende sopravvivere, la democrazia non potrà più esaurirsi in una crocetta da apporre su una scheda ogni cinque anni. Quel 61% che considera i politici la rovina del nostro Paese trovi qualche ora del proprio tempo da dedicare alla comunità. Solo ripartendo dal basso si potrà selezionare una classe dirigente nuova, alla quale auguro di guadagnare tantissimo, ma soltanto sulla base dei risultati.

di Massimo Gramellini

24 ottobre 2011

Condividi: Panico Usa: è Wall Street a detenere il nostro debito

Gli Usa sono letteralmente terrorizzati: se crolla uno Stato europeo, uno qualsiasi, vanno in crisi le grandi banchefrancesi e tedesche sorrette da Wall Street. Ecco perché Washington è così attenta alla crisi europea e raccomanda a Bruxelles di scongiurare il rischio di default, a cominciare da quello della Grecia: il collasso a catena porterebbe alla bancarotta delle centrali finanziarie statunitensi. Lo afferma Robert Reich, docente di politiche pubbliche all’università californiana di Berkeley, già ministro del lavoro del presidente Clinton nonché autore di tredici libri. «Perché l’America dovrebbe essere così preoccupata? Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell’implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario».

E’ l’analista Debora Billi a sottolineare l’intervento di Reich affidato al web: «Sì, esportiamo in Europa – ammette il professore – ma le esportazioni non Timothy Geithnerfiniranno e, in ogni caso, sono una goccia nel mare dell’economia statunitense». Se il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha «unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea», la vera ragione risiede nella drammatica fragilità del sistema finanziario creato da Wall Street ed esteso all’Europa: «Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti – scrive Reich – può facilmente colpire lebanche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia». E qui «entra in ballo Wall Street», che «ha prestato una montagna di soldi allebanche tedesche e francesi».

La totale esposizione all’eurozona, continua Reich, è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale. E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti: «Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall’Europa – sull’energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l’effetto domino è incalcolabile». Capito? Seguite i soldi, raccomanda Reich: «Se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banchetedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers».

Ecco perché le azioni delle principali banche Usa sono scese così tanto nel mese scorso, osserva l’economista californiano, fiutando il peggio: Morgan Stanley ha chiuso al punto più basso dal dicembre 2008. La gigantesca banca d’affari mondiale è in pericolo, sottolinea Debora Billi nel suo blog “Crisis.blogosfere“: «Reich sostiene che, se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari», ovvero «2 miliardi in più del totale dei suoi assets», pur sostenendo di non avere alcuna esposizione Robert Reichverso lebanche francesi: «In realtà, l’esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps. Ecco perché a Washington sono terrorizzati – e perché il segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate».

«Non vi confondete», avverte la Billi: «Gli Usa vogliono che l’Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere – portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l’Irlanda è l’esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street. Chiuso il cerchio». In altre parole, conclude Debora Billi, non è la Grecia il problema. Né l’Italia, il Portogallo, o la Spagna. «Il vero problema è il sistema finanziario – centrato a Wall Street. E noi non l’abbiamo ancora risolto».

di Giorgio Cattaneo

23 ottobre 2011

Capitalismo produttivo, finanziario, di Stato & sociale



Si fa presto a dire capitalismo. Fa presto sia chi ne elogia le infallibili virtù, tanto chi se ne dichiara “anti” o “contro”. Ma di quale capitalismo si tessono gli elogi e di quale, invece, ci si dichiara fieri avversori? Perché di capitalismi ce ne sono molti. Perfino il comunismo, che dai più è considerato il suo esatto opposto, può essere definito come tipologia di capitalismo: di stato – certo – ma pur sempre capitalismo. Se per capitale, infatti, si intende la quantità di moneta e altri beni monetizzabili, come i mezzi di produzione, posseduti da uno o più individui, trasferire il capitale dall’individuo allo stato, dal privato al pubblico, non cambia poi di molto la questione. Semmai, la distinzione fra capitalismo e comunismo si pone sugli effetti prodotti da questa ideologia della proprietà, a partire dal profitto, dal superprofitto e, soprattutto, dalla loro destinazione d’uso. Ma qui siamo già a valle del processo capitalistico: quando, cioè, il capitale inizialmente investito produce il suo frutto. A monte, invece, la distinzione va fatta proprio sul tipo di investimento scelto ed operato dal capitalista. E qui le opzioni sono due: capitalismo produttivo e capitalismo finanziario. Almeno inizialmente, la differenza era netta: il primo investiva in attività produttive di imprese e servizi, ne assumeva il rischio e offriva lavoro. Il secondo si limitava a prestare capitale a chi non ne possedeva, con poco o nessun rischio (sin dall’antichità l’insolvenza del debitore era punita drasticamente fino al massimo della pena: la schiavitù dell’insolvente che diventava, così, “proprietà” del creditore) e, soprattutto, senza produrre altro che denaro dal denaro. Per sé e solo per sé. Tanto era chiara la distinzione che i redditi del capitalismo produttivo si chiamavano “guadagni” (poi, “profitti”) e quelli del capitalismo finanziario, “interessi” o, in caso di eccesso della domanda di restituzione del prestito originario, “usura”.

La distinzione rimase evidente per secoli: difficilmente il finanziere diventava produttore o il produttore, finanziere. I ruoli cominciarono a diventare meno nitidi sul finire del Medio Evo, quando a Genova, nel 1406, nacque la prima banca moderna: il Banco di San Giorgio. Oh, la banca! questa sovrana istituzione privata che è diventata l’incubo dei giorni nostri. Va detto che all’inizio non fu neanche una cattiva idea, offrendosi, la banca, come mediatrice riconosciuta e garante del passaggio di denaro fra risparmiatori e imprenditori. Lo scambio aveva dei costi (differenza fra interesse dato a chi depositava i suoi risparmi e quello chiesto all’imprenditore che fruiva del prestito) ma i vantaggi dovuti dal vertiginoso aumento dalla circolazione del denaro e dai suoi investimenti produttivi furono enormi. Tanto che, con un’accelerazione incredibile a quei tempi, Genova divenne la potenza economica ricordata dalla storia. Gli svantaggi? Uno e originario, ma non immediatamente percepito nella sua portata negativa: l’immenso potere della banca di Genova divenne in breve tempo superiore a quello del governo politico. Con quali effetti? Innanzi tutto, con quello di dettare le sue leggi di primato all’intera economia dello stato. A quel punto, appare ovvio, i confini fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario cominciarono ad assottigliarsi fino quasi a non poter distinguere dove comincia l’uno e dove finisce l’altro.

Ma ci vollero altri secoli per poter prendere atto del fenomeno con analisi lucide tipo quella di Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte rivoluzionaria e per fama al mondo semplicemente Lenin: «Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà».

Destrutturiamo il suo detto. Il “capitalismo industriale” (o produttivo) si connota con le parole chiave: “libera concorrenza” (di mercato) e “regole” (ce ne sono o potrebbero essercene altre di regole oltre alla “borsa” che, anzi, oggi appare terreno di pertinenza finanziaria ma, per quel che serve, atteniamoci al principio della “regola”). Il capitalismo finanziario (quello delle banche e altri noti istituti) invece, si distingue con i termini: “imperialismo” (oggi, forse, Lenin direbbe globalizzazione), “monopolio” (ma monopolistica, in quanto statale, lo fu anche l’economia sovietica) e “dominio” (in antitesi alla libertà). L’altra parola chiave è “fusione” fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario «mediante – osservava giustamente Lenin – il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa».

Ed è esattamente quello che è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, anche in Italia. Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat, vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli squali che cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi.

Torneranno tempi più normali per questa “povera patria”, come auspicava Franco Battiato nell’omonima canzone? Bisognerebbe, innanzi tutto, mettere una bella capezza (penso ad una robin-tax planetaria, per esempio) al collo dell’usorocrazia mondiale. Poi, a me personalmente, basterebbe entrasse in auge il capitalismo sociale di Adriano Olivetti, l’imprenditore industriale che a Ivrea reinvestiva il superprofitto della sua azienda in beni e servizi socialmente utili per la comunità dei lavoratori. A questo, magari, aggiungerei la richiesta di rendere finalmente esecutivo l’articolo 46 della Costituzione italiana che testualmente recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Niente di più.

di Miro Renzaglia

22 ottobre 2011

Ma la Casta non si indigna di se stessa

http://static.fanpage.it/socialmediafanpage/wp-content/uploads/2011/05/Parlamento-230x155.jpg

Il ministero dell’Economia, sempre così lento quando si tratta di trovare fondi per lo sviluppo, ha deliberato con lestezza da furetto che il taglio degli stipendi si applica a tutti i dirigenti pubblici tranne che a ministri e sottosegretari. Non solo a lorsignori non verrà più trattenuto neppure un euro, ma con la busta paga di novembre si vedranno restituire con tante scuse le decurtazioni dei mesi scorsi.

Da tempo attendiamo dalla Casta un segnale di rinsavimento, un gesto minimo di coerenza che inauguri qualche cambio d’abitudini. Per far digerire i sacrifici di Ferragosto ci avevano promesso la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province e altre prelibatezze. Ma che fine ha riservato l’autunno alle parole fiorite davanti ai microfoni estivi? La riduzione dei parlamentari è appassita all’interno dell’ennesimo progetto di riforma universale delle istituzioni, il Calderolone, che come tutti i suoi predecessori non verrà mai approvato.

L’ abolizione di alcune Province, già annunciata in pompa magna dal governo, è attualmente stipata nell’ultimo ripiano del freezer, in attesa che qualcuno si ricordi di scongelarla, ma vedrete che resterà lì. E il ridimensionamento delle retribuzioni? Per essere sicuri che non si facesse, è stata istituita una commissione apposita che avrebbe dovuto decidere entro il 31 dicembre, se non fosse già nata con la deroga incorporata: fino al 31 marzo, quando si andrà a votare oppure si ricomincerà a prorogare. Ah, ma almeno per i vitalizi nessuna pietà. A-bo-li-ti. Dalla prossima legislatura, naturalmente. E solo dopo la creazione di un nuovo sistema previdenziale. Chi lo indicherà? Ma una commissione. Prorogabile. Prorogabilissima.

Il sondaggio mostrato l’altra sera a Ballarò da Pagnoncelli era piuttosto sconvolgente: il 61% dei cittadini italiani ritiene seriamente che l’intervento prioritario contro la crisi non sia la detassazione del lavoro, la patrimoniale o un piano robusto di lavori pubblici, ma la riduzione del numero dei parlamentari. Con il collega Carlo Bertini, nostro esperto in Casta e dintorni, abbiamo fatto i conti della serva. Gli stipendi e i rimborsi spese di senatori e deputati ci costano 200 milioni di euro l’anno. Dimezzandoli ne risparmieremmo 100. Una benedizione, ma pur sempre una goccia nell’oceano del debito pubblico, ormai prossimo alla soglia psicologica dei duemila miliardi.

Eppure, nell’esprimere la loro opinione economicamente assurda, gli italiani non sono stati affatto stupidi o qualunquisti. Hanno mandato un messaggio politico. Dai loro rappresentanti pretendono qualcosa di cui sentono d’avere terribilmente bisogno: il buon esempio. Provate a immaginare se domattina i leader di destra e di sinistra, smettendo per un giorno di delegittimarsi a vicenda, si presentassero insieme in conferenza stampa per annunciare la volontà di lavorare gratis fino al termine della legislatura. Sarebbe un gesto populista? Può darsi. Ma li renderebbe più autorevoli nel momento in cui si accingessero a chiedere sforzi ulteriori ai contribuenti. Durante la tempesta i capitani che vogliono essere obbediti non si barricano nei propri appartamenti con le scorte di caviale, ma stanno in mezzo alla ciurma condividendone i rischi e i disagi.

Qualcuno mi ha suggerito di scrivere questo stesso articolo tutti i giorni, «finché non si arrendono», ma temo che i lettori si stuferebbero molto prima degli onorevoli. La Casta è totalmente sganciata dal mondo reale. Altrimenti si sarebbe accorta che nel disprezzo che gli italiani manifestano per i suoi stipendi si cela un giudizio più profondo: il disprezzo per l’inutilità del suo lavoro e per l’incompetenza di una parte consistente dei suoi esponenti. Il problema vero non è che guadagnano troppo. E’ che fanno ben poco per meritarsi quel che guadagnano.

Rusconi e Galli della Loggia hanno scritto che l’unica via di uscita dalla sterilità dell’indignazione è il ritorno alla politica. Non però alla delega politica. Se intende sopravvivere, la democrazia non potrà più esaurirsi in una crocetta da apporre su una scheda ogni cinque anni. Quel 61% che considera i politici la rovina del nostro Paese trovi qualche ora del proprio tempo da dedicare alla comunità. Solo ripartendo dal basso si potrà selezionare una classe dirigente nuova, alla quale auguro di guadagnare tantissimo, ma soltanto sulla base dei risultati.

di Massimo Gramellini