04 gennaio 2012

Argentina, la rinascita in dieci anni




Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…

di Filippo Bovo

03 gennaio 2012

Perchè gli stati devono pagare 600 volte più delle banche?






Sono cifre incredibili. Si sapeva già che, alla fine del 2008, George Bush e Henry Paulson avevano messo sul tavolo 700 miliardi di dollari (540 miliardi di Euro) per salvare le banche americane. Una somma colossale. Ma un giudice americano ha recentemente dato ragione ai giornalisti di Bloomberg che domandavano alla loro banca centrale di essere trasparente sull'aiuto che essa stessa aveva dato al sistema bancario.

Dopo aver spulciato 20.000 pagine di documenti diversi, Bloomberg mostra che la Federal Reserve (FED) ha segretamente prestato alle banche in difficoltà la somma di 1.200 miliardi al tasso incredibilmente basso dello 0,01 %.

Nello stesso momento, in molti paesi i popoli subiscono piani di austerità imposti da governi a cui i mercati finanziari non accettano di prestare miliardi a tassi di interesse inferiori al 6,7 o al 9%! Asfissiati da tali tassi di interesse, i governi sono “obbligati” a bloccare pensioni, sussidi familiari o salari dei dipendenti pubblici e di tagliare gli investimenti, e ciò fa aumentare la disoccupazione e presto ci farà sprofondare in una recessione molto grave.

É normale che in caso di crisi, le banche private, che si finanziano abitualmente all'1 % presso le banche centrali, possano beneficiare di tassi allo 0,01 % mentre certi Stati sono al contrario obbligati a pagare tassi 600 o 800 volte più elevati? “Essere governati dal denaro organizzato è tanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, affermava Roosevelt. Aveva ragione. Noi stiamo vivendo una crisi del capitalismo non regolamentato che può rivelarsi un suicidio per la nostra civilizzazione. Come affermano lo scrittore Edgar Morin e Stéphane Hessel in Le Chemin de l'ésperance (Fayard, 2011) [“I sentieri della speranza”, N.d.t.], le nostre società devono scegliere : la metamorfosi o la morte?

Aspetteremo che sia troppo tardi per aprire gli occhi? Aspetteremo che sia troppo tardi per capire la gravità della crisi e scegliere insieme la metamorfosi prima dello sfascio delle nostre società? Non abbiamo la possibilità qui di sviluppare le dieci o quindici riforme concrete che renderanno possibile questa metamorfosi. Vogliamo solamente dimostrare che è possibile dar torto a Paul Krugman quando spiega che l'Europa sta entrando in una “spirale negativa”. Come dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Come agire senza modificare i trattati, il che richiederà mesi di lavoro e diverrà impossibile, se l'Europa è sempre più detestata dai suoi cittadini?

Angela Merkel ha ragione nel dire che niente deve incoraggiare i governi a continuare la fuga in avanti. Ma l'essenziale delle somme che i nostri Stati prendono in prestito sui mercati finanziari riguarda vecchi debiti. Nel 2012 la Francia deve prender in prestito 400 miliardi: 100 miliardi che corrispondono al deficit del bilancio (che sarebbe quasi nullo se si annullerebbero i ribassi d'imposta concessi negli ultimi dieci anni) e 300 miliardi che corrispondono a vecchi debiti, che arrivano a scadenza e che siamo incapaci di rimborsare se non ci reindebitiamo per le stesse cifre qualche ora prima di rimborsarli.

Far pagare tassi d'interesse colossali per debiti accumulati cinque o dieci anni fa non aiuta a responsabilizzare i governi ma ad asfissiare le nostre economie facendo guadagnare le banche private; con il pretesto che ci sia un rischio, prestano a tassi molto elevati sapendo che non c'è alcun rischio reale, perché il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (ESFS) [“Fondo salva stati”, N.d.t.] garantirà la solvibilità degli Stati debitori.

Bisogna finirla con questa concezione del due pesi due misure: ispirandoci a quello che ha fatto la banca centrale americana per salvare il sistema finanziario, proponiamo che “il vecchio debito” dei nostri Stati possa essere rifinanziato a tassi vicini allo 0%.

Non c'è bisogno di modificare i trattati europei per metter in atto questa idea: certo, la Banca centrale europea (BCE) non è autorizzata a prestare agli Stati membri, ma può prestare senza limite agli organismi pubblici di credito (articolo 21.3 dello statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali (articolo 23 dello stesso statuto). Essa può dunque prestare allo 0,01 % alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) o alla Cassa dei depositi ed esse, a loro volta, possono prestare allo 0,02 % agli Stati che si indebitano per rimborsare i loro vecchi debiti.

Niente impedisce di attuare tali finanziamenti fin da gennaio! Non lo si dice abbastanza: il bilancio dell'Italia presenta un'eccedenza primaria. Esso sarebbe dunque in equilibrio se l'Italia non dovesse pagare dei costi finanziari sempre più elevati. Bisogna lasciare che l'Italia affondi nella recessione e nella crisi politica o bisogna accettare di porre fine alle rendite bancarie private? La risposta dovrebbe essere evidente per chi agisce in favore del bene comune.

Il ruolo che i trattati attribuiscono alla BCE è di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi. Come può non reagire quando alcuni paesi vedono i rendimenti dei loro buoni del Tesoro raddoppiare o triplicare in qualche mese? La BCE deve anche controllare la stabilità delle nostre economie. Come può non agire quando il prezzo del debito minaccia di farci cadere in un recessione che, secondo il governatore della Banca d'Inghilterra, sarebbe “più grave di quella del 1930”?

Se ci si attiene ai trattati, niente impedisce alla BCE d'agire con forza per far abbassare il costo del debito. Non solo non ci sono ostacoli che le impediscano di agire, ma anzi, ogni elemento la spinge in questa direzione. Se la BCE fosse fedele ai trattati dovrebbe far di tutto per diminuire il costo del debito pubblico. É parere comune che l'inflazione sia la cosa più inquietante.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, è bastato un mese a Helmut Kohl, a François Mitterand e agli altri capi di Stato Europei per decidere di creare la moneta unica. Dopo quattro anni di crisi, cosa aspettano ancora i nostri dirigenti per dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Il meccanismo che proponiamo potrebbe applicarsi immediatamente, sia per diminuire il costo del vecchio debito che per finanziare gli investimenti fondamentali per il nostro avvenire, come ad esempio un piano europeo di risparmio energetico.

Quelli che richiedono la negoziazione di un nuovo trattato europeo hanno ragione: con i paesi che la vogliono bisogna costruire una Europa politica capace d'agire sulla globalizzazione: un'Europa veramente democratica come già la proponeva Wolfgang Schäuble e Karl Lamers nel 1994 o Joschka Fischer nel 2000. Occorre un trattato di convergenza sociale e una vera governance economica.

Tutto ciò è indispensabile. Ma nessun nuovo trattato potrà esser adottato se il nostro continente sprofonda in una “spirale negativa” e i cittadini iniziano a detestare tutto quello che viene deciso a Bruxelles. È urgente inviare ai cittadini un segnale molto chiaro : l'Europa non è nelle mani delle lobby finanziarie.

È al servizio dei suoi cittadini.

di Michel Rocard e Pierre Larrouturou

E venga il caos





http://www.griseldaonline.it/foto/repubblica_metropoli/Stabile,%20Metropoli%20nel%20caos.jpg

Ha detto Monti che i conti torneranno. Invece, tutta l’aristocrazia del denaro e i baroni della crapula a spese dello Stato non sono mai andati via, non si sono mai staccati dai propri privilegi mentre l’Italia veniva infilzata dallo spread e dai mercati. I nobili ed i notabili decadenti ed improduttivi, per non decadere del tutto, si sono messi a disposizione dei principi stranieri offrendo l’appoggio di un governo collaborazionista che toglie a chi lavora per dare al parassita ed al liquidatore di beni strategici. Gli sciamani della salvezza nazionale per rimediare ai nostri malanni economici sono arrivati ad invocare ed ottenere l’ascesa al potere degli déi minori della finanza ristretta e della piccola accademia locale nella convinzione di poter placare, per affinità parentale, l’ira delle divinità mondiali onnipossenti che già ci colpivano con le loro saette geopolitiche. Il risultato è che ora arrivano fulmini da tutte le parti. I dioscuri Napolitano e Monti sono i principali responsabili di questa punizione apocalittica. Stanno realizzando un sacco contro la patria, con scasso della sovranità nazionale, celando la loro manovra con i rituali della responsabilità e con le astruse formule tecniche che anziché segnalare la loro competenza indicano soltanto la loro arroganza. Il Paese non è più in grado di decidere per se stesso, riceve ordini dall’estero via telefono (ma soprattutto telepaticamente) e rinuncia alla sua indipendenza per potersi affiancare al tavolo dei prepotenti in posizione defilata e riversa. Prega in ginocchio per non essere ulteriormente percosso ma la posizione assunta non ispira nessuna pietà negli aguzzini. Questa condizione di minorità internazionale non ci porterà da nessuna parte perché dell’Europa, senza coraggio e coscienza, concepita dagli Usa come un cuscinetto, noi siamo diventati il misero lettino. A brandelli sulla branda in cui siamo stati legati ogni giorno gli avvoltoi vengono a mangiarci il fegato e la speranza. E’ vero quanto dicono molti analisti e cioè che questa crisi non può essere risolta esclusivamente dall’interno in quanto la sua natura è sovranazionale. Anzi, più ci diamo dentro con sacrifici ed immolazioni sull’altare della borsa più bruciamo le nostre possibilità di ripresa. Tuttavia, il fulcro del problema non è monetario, non dipende dalla debolezza dell’euro, dall’assenza di una linea fiscale unitaria, dal ruolo della BCE ecc. ecc. Semmai questi sono gli effetti infausti di una inesistente integrazione comunitaria che copre il vuoto politico intorno a cui il Continente ha costruito il suo tempio comune. Le catene che ci tengono stretti a Bruxelles sono dunque immaginarie, non esistono anche se tintinnano, eppure non riusciamo a muoverci ed a spezzare l’incantesimo. Più dei catenacci europei sono le nostre gambe inferme e pesanti ad impedirci di scattare fuori da questo incubo chiamato Ue, mentre i nostri “partners” cercano di coprirsi dalle raffiche sistemiche conciando la nostra pelle. L’unica forza politica che non si è accodata alla processione dei partiti col capo cosparso di cenere, al corteo dei finti cordoglianti che funeralizzano il futuro del popolo italiano è la Lega. Forse più per calcoli elettorali che per sincero sentimento sociale. Ad ogni modo le sole “bestemmie” contro i semidei del semistato che hanno semi-distrutto la Costituzione innalzandola più in alto per affossarla meglio sono uscite dalle bocche dei torvi federalisti. Calderoli ha praticamente chiesto l’impeachment di Napolitano anche se per la strada arzigogolata di una Commissione d’inchiesta parlamentare. E sono stati altri colleghi dell’ex ministro, verdi non più come leghisti ma ormai solo come marziani rispetto ai mutanti istituzionali lobotomizzati dalla tecnica, a sollevare più volte il conflitto d’interessi e ad attirare l’attenzione sugli addentellati di Monti con massonerie e poteri marci mondiali. Se il movimento di Bossi non si fosse fatto corrompere così a lungo dall’aria pestilenziale romana ci sarebbe da augurarsi che le minacce separatiste riuscissero finalmente ad incanalarsi in un seguito di piazza e di tumulto. Chissà che non sia proprio lo spauracchio più temuto degli ultimi decenni, quello della secessione, a diventare la scintilla di un sommovimento col quale innescare tendenze di malcontento e di rivolta in tutta la Penisola, da nord a sud. Fino al disordine generale. Dopo il casino berlusconiano e il casinò montiano col banco che perde sempre chiediamo il caos ingovernabile anche per il protettorato che ora sta giocando di sponda con le potenze estere per assicurarci una lenta e dolorosa agonia. Il crollo totale sta diventando un auspicio, proprio come nei primi anni del secolo scorso allorché, da Salvemini a Bordiga, si sperava che qualcuno o qualcosa spazzasse via lo Stato liberale ormai marcio nella fondamenta. Abbiamo superato il punto di non ritorno e gli iettatori di gabinetto tentano ancora di raggirarci con i conti da far tornare. Meglio che venga giù tutto per provare a ricostruire il tempo e lo spazio di un’ Italia libera e padrona del suo destino.

di Gianni Petrosillo

04 gennaio 2012

Argentina, la rinascita in dieci anni




Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…

di Filippo Bovo

03 gennaio 2012

Perchè gli stati devono pagare 600 volte più delle banche?






Sono cifre incredibili. Si sapeva già che, alla fine del 2008, George Bush e Henry Paulson avevano messo sul tavolo 700 miliardi di dollari (540 miliardi di Euro) per salvare le banche americane. Una somma colossale. Ma un giudice americano ha recentemente dato ragione ai giornalisti di Bloomberg che domandavano alla loro banca centrale di essere trasparente sull'aiuto che essa stessa aveva dato al sistema bancario.

Dopo aver spulciato 20.000 pagine di documenti diversi, Bloomberg mostra che la Federal Reserve (FED) ha segretamente prestato alle banche in difficoltà la somma di 1.200 miliardi al tasso incredibilmente basso dello 0,01 %.

Nello stesso momento, in molti paesi i popoli subiscono piani di austerità imposti da governi a cui i mercati finanziari non accettano di prestare miliardi a tassi di interesse inferiori al 6,7 o al 9%! Asfissiati da tali tassi di interesse, i governi sono “obbligati” a bloccare pensioni, sussidi familiari o salari dei dipendenti pubblici e di tagliare gli investimenti, e ciò fa aumentare la disoccupazione e presto ci farà sprofondare in una recessione molto grave.

É normale che in caso di crisi, le banche private, che si finanziano abitualmente all'1 % presso le banche centrali, possano beneficiare di tassi allo 0,01 % mentre certi Stati sono al contrario obbligati a pagare tassi 600 o 800 volte più elevati? “Essere governati dal denaro organizzato è tanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, affermava Roosevelt. Aveva ragione. Noi stiamo vivendo una crisi del capitalismo non regolamentato che può rivelarsi un suicidio per la nostra civilizzazione. Come affermano lo scrittore Edgar Morin e Stéphane Hessel in Le Chemin de l'ésperance (Fayard, 2011) [“I sentieri della speranza”, N.d.t.], le nostre società devono scegliere : la metamorfosi o la morte?

Aspetteremo che sia troppo tardi per aprire gli occhi? Aspetteremo che sia troppo tardi per capire la gravità della crisi e scegliere insieme la metamorfosi prima dello sfascio delle nostre società? Non abbiamo la possibilità qui di sviluppare le dieci o quindici riforme concrete che renderanno possibile questa metamorfosi. Vogliamo solamente dimostrare che è possibile dar torto a Paul Krugman quando spiega che l'Europa sta entrando in una “spirale negativa”. Come dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Come agire senza modificare i trattati, il che richiederà mesi di lavoro e diverrà impossibile, se l'Europa è sempre più detestata dai suoi cittadini?

Angela Merkel ha ragione nel dire che niente deve incoraggiare i governi a continuare la fuga in avanti. Ma l'essenziale delle somme che i nostri Stati prendono in prestito sui mercati finanziari riguarda vecchi debiti. Nel 2012 la Francia deve prender in prestito 400 miliardi: 100 miliardi che corrispondono al deficit del bilancio (che sarebbe quasi nullo se si annullerebbero i ribassi d'imposta concessi negli ultimi dieci anni) e 300 miliardi che corrispondono a vecchi debiti, che arrivano a scadenza e che siamo incapaci di rimborsare se non ci reindebitiamo per le stesse cifre qualche ora prima di rimborsarli.

Far pagare tassi d'interesse colossali per debiti accumulati cinque o dieci anni fa non aiuta a responsabilizzare i governi ma ad asfissiare le nostre economie facendo guadagnare le banche private; con il pretesto che ci sia un rischio, prestano a tassi molto elevati sapendo che non c'è alcun rischio reale, perché il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (ESFS) [“Fondo salva stati”, N.d.t.] garantirà la solvibilità degli Stati debitori.

Bisogna finirla con questa concezione del due pesi due misure: ispirandoci a quello che ha fatto la banca centrale americana per salvare il sistema finanziario, proponiamo che “il vecchio debito” dei nostri Stati possa essere rifinanziato a tassi vicini allo 0%.

Non c'è bisogno di modificare i trattati europei per metter in atto questa idea: certo, la Banca centrale europea (BCE) non è autorizzata a prestare agli Stati membri, ma può prestare senza limite agli organismi pubblici di credito (articolo 21.3 dello statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali (articolo 23 dello stesso statuto). Essa può dunque prestare allo 0,01 % alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) o alla Cassa dei depositi ed esse, a loro volta, possono prestare allo 0,02 % agli Stati che si indebitano per rimborsare i loro vecchi debiti.

Niente impedisce di attuare tali finanziamenti fin da gennaio! Non lo si dice abbastanza: il bilancio dell'Italia presenta un'eccedenza primaria. Esso sarebbe dunque in equilibrio se l'Italia non dovesse pagare dei costi finanziari sempre più elevati. Bisogna lasciare che l'Italia affondi nella recessione e nella crisi politica o bisogna accettare di porre fine alle rendite bancarie private? La risposta dovrebbe essere evidente per chi agisce in favore del bene comune.

Il ruolo che i trattati attribuiscono alla BCE è di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi. Come può non reagire quando alcuni paesi vedono i rendimenti dei loro buoni del Tesoro raddoppiare o triplicare in qualche mese? La BCE deve anche controllare la stabilità delle nostre economie. Come può non agire quando il prezzo del debito minaccia di farci cadere in un recessione che, secondo il governatore della Banca d'Inghilterra, sarebbe “più grave di quella del 1930”?

Se ci si attiene ai trattati, niente impedisce alla BCE d'agire con forza per far abbassare il costo del debito. Non solo non ci sono ostacoli che le impediscano di agire, ma anzi, ogni elemento la spinge in questa direzione. Se la BCE fosse fedele ai trattati dovrebbe far di tutto per diminuire il costo del debito pubblico. É parere comune che l'inflazione sia la cosa più inquietante.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, è bastato un mese a Helmut Kohl, a François Mitterand e agli altri capi di Stato Europei per decidere di creare la moneta unica. Dopo quattro anni di crisi, cosa aspettano ancora i nostri dirigenti per dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Il meccanismo che proponiamo potrebbe applicarsi immediatamente, sia per diminuire il costo del vecchio debito che per finanziare gli investimenti fondamentali per il nostro avvenire, come ad esempio un piano europeo di risparmio energetico.

Quelli che richiedono la negoziazione di un nuovo trattato europeo hanno ragione: con i paesi che la vogliono bisogna costruire una Europa politica capace d'agire sulla globalizzazione: un'Europa veramente democratica come già la proponeva Wolfgang Schäuble e Karl Lamers nel 1994 o Joschka Fischer nel 2000. Occorre un trattato di convergenza sociale e una vera governance economica.

Tutto ciò è indispensabile. Ma nessun nuovo trattato potrà esser adottato se il nostro continente sprofonda in una “spirale negativa” e i cittadini iniziano a detestare tutto quello che viene deciso a Bruxelles. È urgente inviare ai cittadini un segnale molto chiaro : l'Europa non è nelle mani delle lobby finanziarie.

È al servizio dei suoi cittadini.

di Michel Rocard e Pierre Larrouturou

E venga il caos





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Ha detto Monti che i conti torneranno. Invece, tutta l’aristocrazia del denaro e i baroni della crapula a spese dello Stato non sono mai andati via, non si sono mai staccati dai propri privilegi mentre l’Italia veniva infilzata dallo spread e dai mercati. I nobili ed i notabili decadenti ed improduttivi, per non decadere del tutto, si sono messi a disposizione dei principi stranieri offrendo l’appoggio di un governo collaborazionista che toglie a chi lavora per dare al parassita ed al liquidatore di beni strategici. Gli sciamani della salvezza nazionale per rimediare ai nostri malanni economici sono arrivati ad invocare ed ottenere l’ascesa al potere degli déi minori della finanza ristretta e della piccola accademia locale nella convinzione di poter placare, per affinità parentale, l’ira delle divinità mondiali onnipossenti che già ci colpivano con le loro saette geopolitiche. Il risultato è che ora arrivano fulmini da tutte le parti. I dioscuri Napolitano e Monti sono i principali responsabili di questa punizione apocalittica. Stanno realizzando un sacco contro la patria, con scasso della sovranità nazionale, celando la loro manovra con i rituali della responsabilità e con le astruse formule tecniche che anziché segnalare la loro competenza indicano soltanto la loro arroganza. Il Paese non è più in grado di decidere per se stesso, riceve ordini dall’estero via telefono (ma soprattutto telepaticamente) e rinuncia alla sua indipendenza per potersi affiancare al tavolo dei prepotenti in posizione defilata e riversa. Prega in ginocchio per non essere ulteriormente percosso ma la posizione assunta non ispira nessuna pietà negli aguzzini. Questa condizione di minorità internazionale non ci porterà da nessuna parte perché dell’Europa, senza coraggio e coscienza, concepita dagli Usa come un cuscinetto, noi siamo diventati il misero lettino. A brandelli sulla branda in cui siamo stati legati ogni giorno gli avvoltoi vengono a mangiarci il fegato e la speranza. E’ vero quanto dicono molti analisti e cioè che questa crisi non può essere risolta esclusivamente dall’interno in quanto la sua natura è sovranazionale. Anzi, più ci diamo dentro con sacrifici ed immolazioni sull’altare della borsa più bruciamo le nostre possibilità di ripresa. Tuttavia, il fulcro del problema non è monetario, non dipende dalla debolezza dell’euro, dall’assenza di una linea fiscale unitaria, dal ruolo della BCE ecc. ecc. Semmai questi sono gli effetti infausti di una inesistente integrazione comunitaria che copre il vuoto politico intorno a cui il Continente ha costruito il suo tempio comune. Le catene che ci tengono stretti a Bruxelles sono dunque immaginarie, non esistono anche se tintinnano, eppure non riusciamo a muoverci ed a spezzare l’incantesimo. Più dei catenacci europei sono le nostre gambe inferme e pesanti ad impedirci di scattare fuori da questo incubo chiamato Ue, mentre i nostri “partners” cercano di coprirsi dalle raffiche sistemiche conciando la nostra pelle. L’unica forza politica che non si è accodata alla processione dei partiti col capo cosparso di cenere, al corteo dei finti cordoglianti che funeralizzano il futuro del popolo italiano è la Lega. Forse più per calcoli elettorali che per sincero sentimento sociale. Ad ogni modo le sole “bestemmie” contro i semidei del semistato che hanno semi-distrutto la Costituzione innalzandola più in alto per affossarla meglio sono uscite dalle bocche dei torvi federalisti. Calderoli ha praticamente chiesto l’impeachment di Napolitano anche se per la strada arzigogolata di una Commissione d’inchiesta parlamentare. E sono stati altri colleghi dell’ex ministro, verdi non più come leghisti ma ormai solo come marziani rispetto ai mutanti istituzionali lobotomizzati dalla tecnica, a sollevare più volte il conflitto d’interessi e ad attirare l’attenzione sugli addentellati di Monti con massonerie e poteri marci mondiali. Se il movimento di Bossi non si fosse fatto corrompere così a lungo dall’aria pestilenziale romana ci sarebbe da augurarsi che le minacce separatiste riuscissero finalmente ad incanalarsi in un seguito di piazza e di tumulto. Chissà che non sia proprio lo spauracchio più temuto degli ultimi decenni, quello della secessione, a diventare la scintilla di un sommovimento col quale innescare tendenze di malcontento e di rivolta in tutta la Penisola, da nord a sud. Fino al disordine generale. Dopo il casino berlusconiano e il casinò montiano col banco che perde sempre chiediamo il caos ingovernabile anche per il protettorato che ora sta giocando di sponda con le potenze estere per assicurarci una lenta e dolorosa agonia. Il crollo totale sta diventando un auspicio, proprio come nei primi anni del secolo scorso allorché, da Salvemini a Bordiga, si sperava che qualcuno o qualcosa spazzasse via lo Stato liberale ormai marcio nella fondamenta. Abbiamo superato il punto di non ritorno e gli iettatori di gabinetto tentano ancora di raggirarci con i conti da far tornare. Meglio che venga giù tutto per provare a ricostruire il tempo e lo spazio di un’ Italia libera e padrona del suo destino.

di Gianni Petrosillo