08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding


05 gennaio 2012

Perché agli USA serve una grande guerra?




Perché agli USA serve una grande guerra

Attualmente ci troviamo nel mezzo d’una fase di turbolenza del ciclo evolutivo mondiale, cominciata negli anni ’80 e destinata a terminare per la metà del XXI secolo. Nel corso di tale processo, gli USA stanno evidentemente perdendo il loro status di superpotenza…

Stime fornite dagli esperti dell’Accademia Russa delle Scienze mostrano che l’attuale periodo di forte instabilità dovrebbe terminare attorno al 2017-2019, con una crisi. La crisi non sarà profonda quanto quelle del 2008-2009 e del 2011-2012, e segnerà la transizione verso un’economia edificata su una nuova base tecnologica. Il rinnovamento economico probabilmente comporterà, nel 2016-2020, grossi mutamenti nell’equilibrio mondiale di potenza e grandi conflitti politico-militari che coinvolgeranno sia i pesi massimi dell’agone globale, sia i paesi in via di sviluppo. Presumibilmente, gli epicentri dei conflitti saranno nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale post-sovietica.
Il secolo del dominio politico-militare e della supremazia economica globale degli USA è prossimo alla fine. Gli USA hanno fallito la prova dell’unipolarità e, feriti dai permanenti conflitti mediorientali, mancano oggi delle risorse necessarie a mantenere la guida mondiale.
La multipolarità implica una distribuzione più equa delle risorse mondiali ed una profonda trasformazione d’istituzioni internazionali come l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale ecc. Al momento il Washington Consensus pare morto e sepolto, e l’agenda globale dovrebbe avere al primo posto la costruzione di un’economia con molti meno livelli d’incertezza, più rigidi regolamenti finanziari, ed una maggiore equità nell’allocazione dei ritorni e profitti economici.

I centri dello sviluppo economico stanno slittando dall’Occidente, che vanta la rivoluzione industriale tra i suoi grandi meriti, all’Asia. Cina e India dovrebbero prepararsi ad una corsa economica senza precedenti, con sullo sfondo una più ampia competizione tra le economie, che sfruttano i modelli del capitalismo di Stato e della democrazia tradizionale. Cina e India, i due paesi più popolosi al mondo, definiranno le direzioni ed il ritmo dello sviluppo futuro, ma la grande battaglia per la supremazia mondiale sarà combattuta tra USA e Cina: in palio c’è anche la scelta del sistema politico e del modello socie-economico post-industriale per il XXI secolo.
La domanda che sorge è: come reagiranno a questa transizione gli USA?

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Va tenuto conto che qualsiasi strategia statunitense parte dall’assunto che sia inaccettabile perdere la supremazia mondiale. Il collegamento tra leadership mondiale e prosperità nel XXI secolo è un assioma per le élites statunitensi, indipendente da tutti i dettagli politici.

Modelli matematici delle dinamiche geopolitiche globali portano a concludere che l’unica opzione a disposizione degli USA per arrestare il rapido disfacersi del suo status geopolitico impareggiato, sia quella di vincere un conflitto convenzionale su larga scala.

Non è un segreto che occasionalmente hanno funzionato (si pensi al collasso dell’URSS) anche metodi non militari di sbarazzarsi dei rivali, e le corrispondenti tecnologie sono costantemente affinate negli USA. D’altro canto, ad oggi paesi come la Cina o l’Iran sono apparsi evidentemente immuni alla manipolazione esterna. Se le attuali dinamiche geopolitiche dovessero persistere, ci si può attendere il cambiamento di leadership mondiale per il 2025, ed il solo modo per gli USA di arrestare questo processo è scatenare una grande guerra…

Il paese che stia per perdere la supremazia non ha altra opzione che colpire per primo, ed è ciò che Washington sta facendo da circa 15 anni. La peculiare tattica degli USA è di scegliere come bersagli non i candidati alternativi alla supremazia geopolitica, ma paesi che appaiono più facili da affrontare al momento. Attaccando Jugoslavia, Afghanistan o Iraq, gli USA hanno cercato di gestire problemi puramente economici, o regionali; ma una questione più grande richiederà senz’altro un bersaglio assai più significativo. Gli analisti militari ritengono che i candidati più a rischio d’essere presi a bersaglio nel nome d’una nuova redistribuzione globale siano l’Iran più la Siria ed i gruppi sciiti quali il libanese Hezbollah.

La redistribuzione è, di fatto, in corso. La Primavera Araba, tramata e gestita da Washington, ha creato le condizioni appropriate ad una fusione del mondo musulmano in un singolo califfato. Gli USA ritengono che questa nuova formazione aiuterà la vacillante superpotenza a mantenere la propria presa sulle risorse energetiche chiave a livello mondiale, e a salvaguardare i suoi interessi rispetto all’Asia e all’Africa. Senza dubbio, la sfida che ha indotto gli USA ad architettare questo nuovo tipo di sistemazione è il crescente potere della Cina.

Liberarsi di Iran e Siria, che si frappongono sulla strada del dominio globale statunitense, sarebbe il prossimo passo naturale per Washington. I tentativi di rovesciare il regime iraniano fomentando disordini tra la popolazione sono falliti clamorosamente, ed analisti militari sospettano che all’Iran spetti uno scenario analogo a quelli visti in Iraq e Afghanistan. Il piano ha serie possibilità di realizzarsi, anche se oggi persino il ritiro da Iraq e Afghanistan pone considerevoli problemi agli USA.

La realizzazione del progetto del Grande Medio Oriente – assieme a notevoli danni alla posizione di Russia e Cina – sarebbe l’obiettivo centrale che gli USA sperano di conseguire combattendo una grande guerra… Il disegno è divenuto ampiamente noto negli USA dopo la pubblicazione sul Armed Forces Journal della celebre mappa di Peters. La motivazione di fondo sta nell’espellere Russia e Cina dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, nel tagliar fuori la Russia dal Caucaso Meridionale e dall’Asia Centrale, e nel disconnettere la Cina dai suoi fornitori d’energia più importanti.

Il materializzarsi del Grande Medio Oriente rovinerebbe le prospettive russe di costante e pacifico sviluppo; infatti l’instabile Caucaso del Sud, controllato dagli USA, trasmetterebbe ondate destabilizzanti nel Caucaso del Nord. Dal momento che la destabilizzazione sarebbe condotta da forze fondamentaliste islamiche, tutte le regioni russe a prevalenza musulmana sarebbero coinvolte.

Gli USA non sono più in grado di sostenere il Washington Consensus facendo affidamento su strumenti politici ed economici. Il cinese Jemin Jibao ha dipinto un quadro di strabiliante chiarezza, quando ha scritto che gli USA sono diventati un parassita mondiale che stampa illimitate quantità di dollari e le esporta per pagare le sue importazioni, e dunque sostiene gli eccessivi livelli di vita nordamericani derubando il resto del mondo. Il primo ministro russo ha espresso una visione simile durante il suo viaggio in Cina, il 17 novembre 2011.

Attualmente la Cina sta lavorando alacremente per limitare la sfera di circolazione del dollaro. La quota di valuta statunitense nelle riserve cinesi sta precipitando, e nell’aprile 2011 la Banca Centrale cinese ha annunciato il progetto di escludere totalmente il dollaro nelle compensazioni internazionali. Il colpo inferto al dominio valutario statunitense non è ovviamente destinato a rimanere senza risposta. Anche l’Iran sta cercando di ridurre la quota del dollaro nelle sue transazioni: nel luglio 2011 ha aperto una borsa petrolifera iraniana, dove sono accettati solo l’euro e la moneta persiana. Iran e Cina stanno negoziando di barattare prodotti cinesi col petrolio iraniano, rendendo così possibile, tra le altre cose, scavalcare le sanzioni imposte all’Iran. Il dirigente iraniano ha affermato che il volume degli scambi con la Cina dovrà raggiungere i 100 miliardi di dollari, e ciò renderebbe inefficaci i piani statunitensi per isolare l’Iran.
Gli sforzi statunitensi per destabilizzare il Medio Oriente potrebbero attribuirsi in parte al calcolo che la ricostruzione della regione, se devastata, richiederebbe massicce iniezioni di dollari, favorendo così la rivitalizzazione dell’economia statunitense. Nel 2011 la strategia statunitense mirante a preservare il dominio globale ha cominciato a tradursi in politiche basate sulla forza, dal momento che Washington vede nel deprezzamento dei possedimenti in dollari una possibile soluzione alla crisi. Una grande guerra potrebbe servire allo scopo. Il vincitore sarebbe in grado d’imporre al mondo le sue condizioni, come avvenne nel 1944 con la creazione del sistema di Bretton-Woods. Per Washington, guidare il mondo può valere una grande guerra.
Può l’Iran, fornitagli la necessaria assistenza, mettere fine all’espansione universale statunitense? La questione sarà trattata nel prossimo articolo.

di Viktor Burbaki

(Traduzione di Daniele Scalea)

Fonte: Strategic Culture Foundation

08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding


05 gennaio 2012

Perché agli USA serve una grande guerra?




Perché agli USA serve una grande guerra

Attualmente ci troviamo nel mezzo d’una fase di turbolenza del ciclo evolutivo mondiale, cominciata negli anni ’80 e destinata a terminare per la metà del XXI secolo. Nel corso di tale processo, gli USA stanno evidentemente perdendo il loro status di superpotenza…

Stime fornite dagli esperti dell’Accademia Russa delle Scienze mostrano che l’attuale periodo di forte instabilità dovrebbe terminare attorno al 2017-2019, con una crisi. La crisi non sarà profonda quanto quelle del 2008-2009 e del 2011-2012, e segnerà la transizione verso un’economia edificata su una nuova base tecnologica. Il rinnovamento economico probabilmente comporterà, nel 2016-2020, grossi mutamenti nell’equilibrio mondiale di potenza e grandi conflitti politico-militari che coinvolgeranno sia i pesi massimi dell’agone globale, sia i paesi in via di sviluppo. Presumibilmente, gli epicentri dei conflitti saranno nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale post-sovietica.
Il secolo del dominio politico-militare e della supremazia economica globale degli USA è prossimo alla fine. Gli USA hanno fallito la prova dell’unipolarità e, feriti dai permanenti conflitti mediorientali, mancano oggi delle risorse necessarie a mantenere la guida mondiale.
La multipolarità implica una distribuzione più equa delle risorse mondiali ed una profonda trasformazione d’istituzioni internazionali come l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale ecc. Al momento il Washington Consensus pare morto e sepolto, e l’agenda globale dovrebbe avere al primo posto la costruzione di un’economia con molti meno livelli d’incertezza, più rigidi regolamenti finanziari, ed una maggiore equità nell’allocazione dei ritorni e profitti economici.

I centri dello sviluppo economico stanno slittando dall’Occidente, che vanta la rivoluzione industriale tra i suoi grandi meriti, all’Asia. Cina e India dovrebbero prepararsi ad una corsa economica senza precedenti, con sullo sfondo una più ampia competizione tra le economie, che sfruttano i modelli del capitalismo di Stato e della democrazia tradizionale. Cina e India, i due paesi più popolosi al mondo, definiranno le direzioni ed il ritmo dello sviluppo futuro, ma la grande battaglia per la supremazia mondiale sarà combattuta tra USA e Cina: in palio c’è anche la scelta del sistema politico e del modello socie-economico post-industriale per il XXI secolo.
La domanda che sorge è: come reagiranno a questa transizione gli USA?

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Va tenuto conto che qualsiasi strategia statunitense parte dall’assunto che sia inaccettabile perdere la supremazia mondiale. Il collegamento tra leadership mondiale e prosperità nel XXI secolo è un assioma per le élites statunitensi, indipendente da tutti i dettagli politici.

Modelli matematici delle dinamiche geopolitiche globali portano a concludere che l’unica opzione a disposizione degli USA per arrestare il rapido disfacersi del suo status geopolitico impareggiato, sia quella di vincere un conflitto convenzionale su larga scala.

Non è un segreto che occasionalmente hanno funzionato (si pensi al collasso dell’URSS) anche metodi non militari di sbarazzarsi dei rivali, e le corrispondenti tecnologie sono costantemente affinate negli USA. D’altro canto, ad oggi paesi come la Cina o l’Iran sono apparsi evidentemente immuni alla manipolazione esterna. Se le attuali dinamiche geopolitiche dovessero persistere, ci si può attendere il cambiamento di leadership mondiale per il 2025, ed il solo modo per gli USA di arrestare questo processo è scatenare una grande guerra…

Il paese che stia per perdere la supremazia non ha altra opzione che colpire per primo, ed è ciò che Washington sta facendo da circa 15 anni. La peculiare tattica degli USA è di scegliere come bersagli non i candidati alternativi alla supremazia geopolitica, ma paesi che appaiono più facili da affrontare al momento. Attaccando Jugoslavia, Afghanistan o Iraq, gli USA hanno cercato di gestire problemi puramente economici, o regionali; ma una questione più grande richiederà senz’altro un bersaglio assai più significativo. Gli analisti militari ritengono che i candidati più a rischio d’essere presi a bersaglio nel nome d’una nuova redistribuzione globale siano l’Iran più la Siria ed i gruppi sciiti quali il libanese Hezbollah.

La redistribuzione è, di fatto, in corso. La Primavera Araba, tramata e gestita da Washington, ha creato le condizioni appropriate ad una fusione del mondo musulmano in un singolo califfato. Gli USA ritengono che questa nuova formazione aiuterà la vacillante superpotenza a mantenere la propria presa sulle risorse energetiche chiave a livello mondiale, e a salvaguardare i suoi interessi rispetto all’Asia e all’Africa. Senza dubbio, la sfida che ha indotto gli USA ad architettare questo nuovo tipo di sistemazione è il crescente potere della Cina.

Liberarsi di Iran e Siria, che si frappongono sulla strada del dominio globale statunitense, sarebbe il prossimo passo naturale per Washington. I tentativi di rovesciare il regime iraniano fomentando disordini tra la popolazione sono falliti clamorosamente, ed analisti militari sospettano che all’Iran spetti uno scenario analogo a quelli visti in Iraq e Afghanistan. Il piano ha serie possibilità di realizzarsi, anche se oggi persino il ritiro da Iraq e Afghanistan pone considerevoli problemi agli USA.

La realizzazione del progetto del Grande Medio Oriente – assieme a notevoli danni alla posizione di Russia e Cina – sarebbe l’obiettivo centrale che gli USA sperano di conseguire combattendo una grande guerra… Il disegno è divenuto ampiamente noto negli USA dopo la pubblicazione sul Armed Forces Journal della celebre mappa di Peters. La motivazione di fondo sta nell’espellere Russia e Cina dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, nel tagliar fuori la Russia dal Caucaso Meridionale e dall’Asia Centrale, e nel disconnettere la Cina dai suoi fornitori d’energia più importanti.

Il materializzarsi del Grande Medio Oriente rovinerebbe le prospettive russe di costante e pacifico sviluppo; infatti l’instabile Caucaso del Sud, controllato dagli USA, trasmetterebbe ondate destabilizzanti nel Caucaso del Nord. Dal momento che la destabilizzazione sarebbe condotta da forze fondamentaliste islamiche, tutte le regioni russe a prevalenza musulmana sarebbero coinvolte.

Gli USA non sono più in grado di sostenere il Washington Consensus facendo affidamento su strumenti politici ed economici. Il cinese Jemin Jibao ha dipinto un quadro di strabiliante chiarezza, quando ha scritto che gli USA sono diventati un parassita mondiale che stampa illimitate quantità di dollari e le esporta per pagare le sue importazioni, e dunque sostiene gli eccessivi livelli di vita nordamericani derubando il resto del mondo. Il primo ministro russo ha espresso una visione simile durante il suo viaggio in Cina, il 17 novembre 2011.

Attualmente la Cina sta lavorando alacremente per limitare la sfera di circolazione del dollaro. La quota di valuta statunitense nelle riserve cinesi sta precipitando, e nell’aprile 2011 la Banca Centrale cinese ha annunciato il progetto di escludere totalmente il dollaro nelle compensazioni internazionali. Il colpo inferto al dominio valutario statunitense non è ovviamente destinato a rimanere senza risposta. Anche l’Iran sta cercando di ridurre la quota del dollaro nelle sue transazioni: nel luglio 2011 ha aperto una borsa petrolifera iraniana, dove sono accettati solo l’euro e la moneta persiana. Iran e Cina stanno negoziando di barattare prodotti cinesi col petrolio iraniano, rendendo così possibile, tra le altre cose, scavalcare le sanzioni imposte all’Iran. Il dirigente iraniano ha affermato che il volume degli scambi con la Cina dovrà raggiungere i 100 miliardi di dollari, e ciò renderebbe inefficaci i piani statunitensi per isolare l’Iran.
Gli sforzi statunitensi per destabilizzare il Medio Oriente potrebbero attribuirsi in parte al calcolo che la ricostruzione della regione, se devastata, richiederebbe massicce iniezioni di dollari, favorendo così la rivitalizzazione dell’economia statunitense. Nel 2011 la strategia statunitense mirante a preservare il dominio globale ha cominciato a tradursi in politiche basate sulla forza, dal momento che Washington vede nel deprezzamento dei possedimenti in dollari una possibile soluzione alla crisi. Una grande guerra potrebbe servire allo scopo. Il vincitore sarebbe in grado d’imporre al mondo le sue condizioni, come avvenne nel 1944 con la creazione del sistema di Bretton-Woods. Per Washington, guidare il mondo può valere una grande guerra.
Può l’Iran, fornitagli la necessaria assistenza, mettere fine all’espansione universale statunitense? La questione sarà trattata nel prossimo articolo.

di Viktor Burbaki

(Traduzione di Daniele Scalea)

Fonte: Strategic Culture Foundation