09 gennaio 2012

Lo Schema Ponzi Europeo


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parapà PONZI PONZI* pà! Allacciate le cinture di sicurezza cari amici di Rischio Calcolato, e abbiate la pazienza di seguire il filo logico di quanto segue, questa volta non sarò breve ma ne varrà la pena.

Questa è una di quelle faccende che quando le capisci, pensi tra te e te: Non è possibile che sia così, non può essere vero. E invece si è proprio vero!

Oggi andiamo in profondità nel mega schema Ponzi inventato da Mario Draghi (qualcuno direbbe eseguito da Mario Draghi..) per far tirare a campare ancora qualche mese la scassata baracca bancaria europea. (indovinate chi paga? scommetto che il sospetto vi viene ancora prima di leggere le conclusioni di questo articolo.).

Cominciamo dall’inizio:

A metà Dicembre, Mario Draghi annunciava che la BCE avrebbe effetuato un operazione di finanziamento straordinario in favore delle banche europee (leggete questo post per una trattazione dettagliata), in pratica la BCE, attraverso diverse aste si è messa a finanziare qualsiasi banca europea che si presenti ai suoi sportelli depositando a garanzia un “collaterale” ovvero crediti di bassa qualità allì1% di tasso per un periodo di 36 mesi.

Fino qui tutto bene? Andiamo avanti.

Come noto la prima asta si è svolta lo scorso 21 Dicembre 2011 e sono stati assegnati la bellezza di 486 miliardi di euro in nuovi finanziamenti, va detto che in realtà il nuovo debito creato ammonta a “solo” 211 miliardi in quanto contemporaneamente le banche hanno chiuso altri tipi di finanziamenti meno convenienti che intrattenevano con la BCE.

Facciamo ancora un passettino.

Il finanziamento straordinario della BCE, non si caratterizza solo per un tasso irrisorio, c’è anche la questione dei crediti di bassa qualità accettati come collaterale. Vedete, certi termini non vengono mai usati a caso, quando Draghi 20 giorni fa, parlava di abbassare il livello della qualità del credito accettato dalla BCE per concedere finanziamenti alle banche si riferiva ad una cosa ben precisa e specifica. E qui viene il bello (si fa per dire).

Prima di svelare l’arcano occorre fare un passo indietro.

Vi ricordate questo codicillo pro banche iscritto nella finanziaria del prof. Mario Monti:

Dal Decreto Legge del 6 Dicembre 2011 n. 201 prevede infatti all’articolo 8 comma primo:

Art. 8 – Misure per la stabilità del sistema creditizio

1. Ai sensi della Comunicazione della Commissione europea C(2011)8744 concernente l’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, il Ministro dell’economia e delle finanze, fino al 30 giugno 2012, è autorizzato a concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane, con scadenza da tre mesi fino a cinque anni o, a partire dal 1 gennaio 2012, a sette anni per le obbligazioni bancarie garantite di cui all’art. 7-bis della legge 30 aprile 1999, n. 130, e di emissione successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, si procede all’eventuale proroga del predetto termine in conformità alla normativa europea in materia. (FONTE)

Attenzione alle date, la norma entra in vigore dal 6 Dicembre 2011, una settimana prima che la BCE a “sorpresa” annunci l’LTRO (il finanziamento al’1% per 36 mesi).

Ok ci siamo? Andiamo avanti!

Da qui in poi ci aiuta un ottimo articolo apparso sul sito del sole 24 ore di Morya Longo datato 21 Dicembre:

Quando oggi la Banca centrale europea aprirà i rubinetti della liquidità, gli istituti di credito italiani potranno giocare jolly nuovi di zecca per «prelevare» denaro a Francoforte: le obbligazioni bancarie garantite dallo Stato previste dalla manovra del Governo Monti. Tutte le banche italiane sono già pronte a calare questo jolly, nella speranza di superare la pesante crisi di liquidità che le sta soffocando da mesi: già oggi, secondo le indiscrezioni raccolte dal «Sole 24 Ore», gli istituti italiani hanno a disposizione qualcosa come 50 miliardi di euro di questi nuovi titoli.

Li hanno già creati. Li hanno pronti all’uso. E li utilizzeranno già oggi per andare dalla Bce: questo significa che gli istituti italiani (dai big come Intesa e UniCredit, ai medi come Veneto Banca, Credito Valtellinese, Iccrea, Popolare di Vicenza e Popolare dell’Emilia) hanno la possibilità di prelevare da Francoforte 50 miliardi in più. E, in futuro, potranno arrivare a 228 miliardi di euro. Ecco la nuova ‘medicina’, artificiale, contro il credit crunch. ….

(……)

Effetti collaterali

Ma gli istituti potrebbero usare i soldi, prelevati dalla Bce anche grazie ai nuovi titoli, per farne altri usi. Non solo per rimborsare i propri titoli in scadenza, ma anche ‐ testimonia un banchiere ‐ «per ricomprare parte del proprio debito sul mercato a prezzi bassi». Ma le banche potrebbero anche fare altro (caldeggiate dalle stesse Autorità): utilizzare i finanziamenti della Bce (all’1%) per comprare BTp (che rendono il 6,5%). Questo avrebbe il merito di abbassare anche i rendimenti dei BTp e di dare un sollievo allo Stato. Ma avrebbe anche l’effetto collaterale di creare un corto circuito spaventoso: lo Stato mette la garanzia sui bond bancari, le banche li usano per finanziarsi in Bce e con i soldi comprano titoli dello stesso Stato. Non serve un genio per vedere, dietro questa «manna», una potenziale bomba.

Per una volta devo dare merito ad un media mainstream, dunque applausi a Morya Longo, ha centrato il punto.

Ma com’è andata in realtà?

da ASCA via Yahoo Finance:

(ASCA) – Roma, 21 dic – Sono 14 le banche italiane che hanno emesso bond con la garanzia dello Stato per un totale di 40,44 miliardi di euro e che da oggi sono in negoziazione. Nel dettaglio Intesa Sanpaolo (Dusseldorf: 575913.DU - notizie) ha emeso bond per 12 miliardi, Mps (BSE: MPSLTD.BO - notizie) 10 miliardi di euro, Unicredit (MDD: UCG.MDD - notizie) 7,5 miliardi, Banco Popolare (Francoforte: A0MWJR - notizie) 3 miliardi, Popolare Vicenza 1,5 miliardi, Carige per 1,3 miliardi, Dexia Crediop 1,05 miliardi, Popolare Sondrio 1 miliardo, Credem 800 milioni, Popolare Emilia Romagna 750 milioni, Iccrea banca Impresa 650, Credito Valtellinese 500 milioni, Iccrea Banca 290 milioni, Banca (Santiago: BANCA.SN - notizie) Etruria (Milano: PEL.MI - notizie) 100 milioni.

E ora l’ultimo tassello dello schema Ponzi (quello che non appare sul S24O): Siete pronti?

Sapete che cosa sono questi fantomatici bond emessi (anzi creati come dice la Longo) con garanzia dello stato? Bene, signore e signori sono dei giroconti! Vi siete chiesti come le banche siano riuscite a piazzare nel volgere di pochi giorni 40,44 miliardi di euro di cartaccia che non vuole più nessuno?

Semplice, questi benedetti bond garantiti dallo stato, se li sono sottoscritti sa soli!!!!!!!!!

Tanto per capirci le banche, hanno emesso bond a varie scadenze, e poi se li sono interamente sottoscritti da soli, dopodiche ci hanno fatto mettere il bollino blu della garanzia statale (costa circa un 1%) infine hanno presentato il tutto alla BCE come collaterale per ottenere nuovi finanziamenti.

Ole, Mr Ponzi! sei un bambino di fronte a questi geni!

Meritoriamente Zerohedge (link) ieri ha coperto questa storia (i russi non russano) e ci ha regalato la schermata di bloomberg che descrive un paio di questi Ponzi-Bond:

Intesa SanPaolo 3 month Bill

20120103_PT1_0

UniCredit 3 month Bill

20120103_PT2_020120103_PT4_0

Fantastico vero! E ora prepariamoci, perchè non finisce qui, a metà Gennaio 2012 la BCE farà una nuova asta per assegnare ancora un pochino di droga…oooops volevo dire, di debito all’1% alle banche che si presenteranno con nuovi Ponzi Bond da scontare alla cassa.

Siamo seduti su una Santa Barbara di debito e di moneta sempre più inflazionata.

parapà Ponzi Ponzi* pà!!

* (da Wikipedia) Charles Ponzi (Lugo, 3 marzo 1882 – Rio de Janeiro, 18 gennaio 1949) è stato un truffatore italiano. Immigrò negli Stati Uniti, dove divenne uno dei più grandi truffatori della storia americana.

Tra i molti nomi che adottò per mettere in atto le sue operazioni ci sono Charles Ponei, Charles P. Bianchi, Carl e Carlo. Il suo nome è legato all’espressione “schema di Ponzi” per indicare il meccanismo di truffa che adottò e che ancora oggi è in uso in numerose versioni moderne che fanno uso della posta elettronica…. (la catena di Sant’Antonio)

p.s. e se fallisce una di queste banche, indovinate a chi verranno a chiedere il conto della garanzia?

di Funny King

08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding


09 gennaio 2012

Lo Schema Ponzi Europeo


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parapà PONZI PONZI* pà! Allacciate le cinture di sicurezza cari amici di Rischio Calcolato, e abbiate la pazienza di seguire il filo logico di quanto segue, questa volta non sarò breve ma ne varrà la pena.

Questa è una di quelle faccende che quando le capisci, pensi tra te e te: Non è possibile che sia così, non può essere vero. E invece si è proprio vero!

Oggi andiamo in profondità nel mega schema Ponzi inventato da Mario Draghi (qualcuno direbbe eseguito da Mario Draghi..) per far tirare a campare ancora qualche mese la scassata baracca bancaria europea. (indovinate chi paga? scommetto che il sospetto vi viene ancora prima di leggere le conclusioni di questo articolo.).

Cominciamo dall’inizio:

A metà Dicembre, Mario Draghi annunciava che la BCE avrebbe effetuato un operazione di finanziamento straordinario in favore delle banche europee (leggete questo post per una trattazione dettagliata), in pratica la BCE, attraverso diverse aste si è messa a finanziare qualsiasi banca europea che si presenti ai suoi sportelli depositando a garanzia un “collaterale” ovvero crediti di bassa qualità allì1% di tasso per un periodo di 36 mesi.

Fino qui tutto bene? Andiamo avanti.

Come noto la prima asta si è svolta lo scorso 21 Dicembre 2011 e sono stati assegnati la bellezza di 486 miliardi di euro in nuovi finanziamenti, va detto che in realtà il nuovo debito creato ammonta a “solo” 211 miliardi in quanto contemporaneamente le banche hanno chiuso altri tipi di finanziamenti meno convenienti che intrattenevano con la BCE.

Facciamo ancora un passettino.

Il finanziamento straordinario della BCE, non si caratterizza solo per un tasso irrisorio, c’è anche la questione dei crediti di bassa qualità accettati come collaterale. Vedete, certi termini non vengono mai usati a caso, quando Draghi 20 giorni fa, parlava di abbassare il livello della qualità del credito accettato dalla BCE per concedere finanziamenti alle banche si riferiva ad una cosa ben precisa e specifica. E qui viene il bello (si fa per dire).

Prima di svelare l’arcano occorre fare un passo indietro.

Vi ricordate questo codicillo pro banche iscritto nella finanziaria del prof. Mario Monti:

Dal Decreto Legge del 6 Dicembre 2011 n. 201 prevede infatti all’articolo 8 comma primo:

Art. 8 – Misure per la stabilità del sistema creditizio

1. Ai sensi della Comunicazione della Commissione europea C(2011)8744 concernente l’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, il Ministro dell’economia e delle finanze, fino al 30 giugno 2012, è autorizzato a concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane, con scadenza da tre mesi fino a cinque anni o, a partire dal 1 gennaio 2012, a sette anni per le obbligazioni bancarie garantite di cui all’art. 7-bis della legge 30 aprile 1999, n. 130, e di emissione successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, si procede all’eventuale proroga del predetto termine in conformità alla normativa europea in materia. (FONTE)

Attenzione alle date, la norma entra in vigore dal 6 Dicembre 2011, una settimana prima che la BCE a “sorpresa” annunci l’LTRO (il finanziamento al’1% per 36 mesi).

Ok ci siamo? Andiamo avanti!

Da qui in poi ci aiuta un ottimo articolo apparso sul sito del sole 24 ore di Morya Longo datato 21 Dicembre:

Quando oggi la Banca centrale europea aprirà i rubinetti della liquidità, gli istituti di credito italiani potranno giocare jolly nuovi di zecca per «prelevare» denaro a Francoforte: le obbligazioni bancarie garantite dallo Stato previste dalla manovra del Governo Monti. Tutte le banche italiane sono già pronte a calare questo jolly, nella speranza di superare la pesante crisi di liquidità che le sta soffocando da mesi: già oggi, secondo le indiscrezioni raccolte dal «Sole 24 Ore», gli istituti italiani hanno a disposizione qualcosa come 50 miliardi di euro di questi nuovi titoli.

Li hanno già creati. Li hanno pronti all’uso. E li utilizzeranno già oggi per andare dalla Bce: questo significa che gli istituti italiani (dai big come Intesa e UniCredit, ai medi come Veneto Banca, Credito Valtellinese, Iccrea, Popolare di Vicenza e Popolare dell’Emilia) hanno la possibilità di prelevare da Francoforte 50 miliardi in più. E, in futuro, potranno arrivare a 228 miliardi di euro. Ecco la nuova ‘medicina’, artificiale, contro il credit crunch. ….

(……)

Effetti collaterali

Ma gli istituti potrebbero usare i soldi, prelevati dalla Bce anche grazie ai nuovi titoli, per farne altri usi. Non solo per rimborsare i propri titoli in scadenza, ma anche ‐ testimonia un banchiere ‐ «per ricomprare parte del proprio debito sul mercato a prezzi bassi». Ma le banche potrebbero anche fare altro (caldeggiate dalle stesse Autorità): utilizzare i finanziamenti della Bce (all’1%) per comprare BTp (che rendono il 6,5%). Questo avrebbe il merito di abbassare anche i rendimenti dei BTp e di dare un sollievo allo Stato. Ma avrebbe anche l’effetto collaterale di creare un corto circuito spaventoso: lo Stato mette la garanzia sui bond bancari, le banche li usano per finanziarsi in Bce e con i soldi comprano titoli dello stesso Stato. Non serve un genio per vedere, dietro questa «manna», una potenziale bomba.

Per una volta devo dare merito ad un media mainstream, dunque applausi a Morya Longo, ha centrato il punto.

Ma com’è andata in realtà?

da ASCA via Yahoo Finance:

(ASCA) – Roma, 21 dic – Sono 14 le banche italiane che hanno emesso bond con la garanzia dello Stato per un totale di 40,44 miliardi di euro e che da oggi sono in negoziazione. Nel dettaglio Intesa Sanpaolo (Dusseldorf: 575913.DU - notizie) ha emeso bond per 12 miliardi, Mps (BSE: MPSLTD.BO - notizie) 10 miliardi di euro, Unicredit (MDD: UCG.MDD - notizie) 7,5 miliardi, Banco Popolare (Francoforte: A0MWJR - notizie) 3 miliardi, Popolare Vicenza 1,5 miliardi, Carige per 1,3 miliardi, Dexia Crediop 1,05 miliardi, Popolare Sondrio 1 miliardo, Credem 800 milioni, Popolare Emilia Romagna 750 milioni, Iccrea banca Impresa 650, Credito Valtellinese 500 milioni, Iccrea Banca 290 milioni, Banca (Santiago: BANCA.SN - notizie) Etruria (Milano: PEL.MI - notizie) 100 milioni.

E ora l’ultimo tassello dello schema Ponzi (quello che non appare sul S24O): Siete pronti?

Sapete che cosa sono questi fantomatici bond emessi (anzi creati come dice la Longo) con garanzia dello stato? Bene, signore e signori sono dei giroconti! Vi siete chiesti come le banche siano riuscite a piazzare nel volgere di pochi giorni 40,44 miliardi di euro di cartaccia che non vuole più nessuno?

Semplice, questi benedetti bond garantiti dallo stato, se li sono sottoscritti sa soli!!!!!!!!!

Tanto per capirci le banche, hanno emesso bond a varie scadenze, e poi se li sono interamente sottoscritti da soli, dopodiche ci hanno fatto mettere il bollino blu della garanzia statale (costa circa un 1%) infine hanno presentato il tutto alla BCE come collaterale per ottenere nuovi finanziamenti.

Ole, Mr Ponzi! sei un bambino di fronte a questi geni!

Meritoriamente Zerohedge (link) ieri ha coperto questa storia (i russi non russano) e ci ha regalato la schermata di bloomberg che descrive un paio di questi Ponzi-Bond:

Intesa SanPaolo 3 month Bill

20120103_PT1_0

UniCredit 3 month Bill

20120103_PT2_020120103_PT4_0

Fantastico vero! E ora prepariamoci, perchè non finisce qui, a metà Gennaio 2012 la BCE farà una nuova asta per assegnare ancora un pochino di droga…oooops volevo dire, di debito all’1% alle banche che si presenteranno con nuovi Ponzi Bond da scontare alla cassa.

Siamo seduti su una Santa Barbara di debito e di moneta sempre più inflazionata.

parapà Ponzi Ponzi* pà!!

* (da Wikipedia) Charles Ponzi (Lugo, 3 marzo 1882 – Rio de Janeiro, 18 gennaio 1949) è stato un truffatore italiano. Immigrò negli Stati Uniti, dove divenne uno dei più grandi truffatori della storia americana.

Tra i molti nomi che adottò per mettere in atto le sue operazioni ci sono Charles Ponei, Charles P. Bianchi, Carl e Carlo. Il suo nome è legato all’espressione “schema di Ponzi” per indicare il meccanismo di truffa che adottò e che ancora oggi è in uso in numerose versioni moderne che fanno uso della posta elettronica…. (la catena di Sant’Antonio)

p.s. e se fallisce una di queste banche, indovinate a chi verranno a chiedere il conto della garanzia?

di Funny King

08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding