21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti

19 gennaio 2012

Il movimento dei forconi è il riscatto del Sud

forconi-movimento-mega
Li ho incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani. Mi dissero: siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader.

Ed io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare!

Non rivogliono il Regno delle due Sicilie ma sono stanchi di essere depredati e di recitare il ruolo di “Bancomat d’Italia”.


In Sicilia il Movimento dei Forconi blocca la regione. I giornali ignorano il fatto. E c'è chi ipotizza strani legami politici dietro queste proteste. Lei cosa ne pensa?


Ogni volta che il Sud protesta, e vi assicuro che ha tonnellate di ragioni per farlo, si trova sempre qualche motivo per infamare le ragioni della protesta. Io a questo movimento ho dedicato un capitolo del mio ultimo libro "Giù al sud", quando non ne parlava nessuno. Li avevo incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani, creata da padre Ennio Pintacuda, e avevo scoperto un mondo di cui l'Italia non sa nulla, perché se il Sud non è mafia, non è camorra, non è notizia.
Mi raccontarono che in 3 anni, su 200 mila aziende agricole, 50 mila erano state sequestrate, messe all'asta; mi raccontarono di gente che da generazioni coltivava quelle terre, che era scomparsa dall'oggi al domani in silenzio per pudore...tragedie vissute nel silenzio, all'interno delle famiglie.
Qualcuno mi si avvicinò e mi disse: noi siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader e io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare!
Questo è emblematico del grado di disperazione di questa gente.

Il Regno delle due Sicilie era ricchissimo. Poi l'impoverimento, la fuga del Sud. Un'emigrazione che continua anche oggi. Perché?

Ci sono almeno tre argomenti enormi nella sua domanda. Il primo, è l'impoverimento del Sud, un territorio che è esistito per oltre 700 anni con quei confini, con quella gente, e che il Regno delle due Sicilie ereditò e poi gestì per 127 anni. Per chi voglia fare dei paragoni, 127 anni è più di quanto è durato il Regno d'Italia, 85 per i Savoia, è più di quanto è durata la Repubblica italiana, è quasi quanto sono durati il Regno d'Italia e la Repubblica italiana messi insieme. Quella era una dinastia divenuta autoctona, perché creò le prime aree industriali in Italia: basta andarsi a leggere i documenti de "L' Invenzione del mezzogiorno" scritto da Nicola Zitara, e anche tanti altri libri.
L'invasione del sud con annessione comportò la distruzione dell'economia del Sud, la chiusura dei più grandi stabilimenti siderurgici d'Italia che erano in Calabria, l'eccidio, con sparatorie, delle maestranze che volevano impedirlo, la devastazione delle più grandi e efficienti officine meccaniche d'Italia che erano nel napoletano, l'asportazione dei lingotti d'oro, della ricchezza del Regno delle due Sicilie. Tutto questo comportò una ventina d'anni dopo, oltre alla reazione armata di quelli che furono chiamati briganti, che agivano per difendere il proprio paese, l'abbandono della propria terra da parte dei meridionali, un fatto questo che non era mai accaduto in decine di millenni. L'emigrazione dal sud, secondo varie stime, ha portato via 20/25 milioni di meridionali in 90 anni.
Rispetto al passato oggi è cambiato poco o nulla. Un esempio? Il Comitato interministeriale di programmazione economica divide le quote da sbloccare, che spesso sono soldi destinati al sud, per 200 quote e destina 199 quote al nord e una al sud. Con Monti le quote, anche perché i soldi sono diminuiti, sono state circa 40, di cui 39 al nord e una al sud e in tutto il programma di Monti non c'è una parola per il sud. E poi ci si meraviglia delle proteste? I cittadini del Sud vogliono solo rispetto, attenzione ed essere considerati alla pari degli altri cittadini di questo paese.
Del movimento dei forconi fanno parte anche i pastori sardi, guidati da Felice Floris. Ricordo che quando ci furono 100 mila forme di parmigiano invendute, l'allora governo a trazione leghista le fece acquistare con i soldi destinati al mezzogiorno; quando ci fu il pecorino invenduto per i sardi, l'allora governo mandò la polizia a spaccare le teste dei sardi a randellate in Sardegna, e quando i sardi presero il traghetto per andare a Roma, li aspettarono sul molo a Civitavecchia a spaccargli le teste preventivamente, prima ancora che arrivassero nella Capitale a manifestare.
I soldi che hanno usano per il parmigiano erano stati stanziati per il sud! Poi ci si meraviglia se la gente si organizza...In Sicilia il movimento dei forconi ha cominciato a protestare dopo l'ennesimo suicidio di un signore che si è lanciato dalla sua terrazza con una corda legata al collo.

E' ipotizzabile che la crisi economia spazzi via l'Italia e riporti ad assetti pre-unitari?

Queste sono sciocchezze che tendono a nascondere la serietà e la profondità delle argomentazioni per cui il sud protesta.
Dal Meridione sono andati via negli ultimi 10 anni 700 mila giovani laureati. In qualsiasi paese qualunque governo di destra o di sinistra si sarebbe occupato di questo problema. La verità è che nessuno lo vuole risolvere, perché questo è un affare per una parte del paese. Solo per far studiare i suoi figli e poi regalarli al nord, il sud spende circa 3 miliardi di Euro all'anno. Come dimostrano gli studi fatti sull'argomento, formare un laureato costa dalle scuole materne alla laurea 300 mila Euro, ma per quelli fuori sede la cifra aumenta di circa 100 mila. 23 mila studenti meridionali ogni anno si spostano al nord, fate voi i conti.
Una laurea dura in genere, sono calcoli de "Il Sole 24 ore" circa 7 anni, moltiplicate per 7 e avrete il salasso del sud a favore del nord per regalargli una classe dirigente a proprie spese. Questo solo per l'istruzione. Poi pensiamo ai trasporti: sono stati cancellati da un improponibile, impresentabile amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato tutti, ma proprio tutti, i treni diretti sud - nord, il paese è stato spezzato in due nell'anno del 150° anniversario della cosiddetta unità. E ancora, il 90% degli aerei che partono dal sud deve pagare pedaggio a Malpensa, solo per far vivere un aeroporto che non doveva esistere. Per andare da Palermo a Tunisi bisogna prendere l'aereo per Malpensa e poi da Malpensa andare a Tunisi. Dovrà finire questa porcheria!
Un ultimo aneddoto, che ho raccontato nel mio libro "Terroni": alcuni miei amici di Bari per andare a Milano si vedevano costretti a pagare all'Alitalia un biglietto più costoso del Bari -New York. Allora, per risparmiare, compravano il biglietto per New York, arrivavano a Malpensa, scendevano, strappavano il biglietto e andavano a Milano! Il sud è il Bancomat d'Italia, continuamente insultato con l'epiteto di "ladro". In realtà, è l'unico caso al mondo nella storia dell'umanità di un ladro che più ruba e più si impoverisce, di un derubato che più viene derubato e più si arricchisce. Ci sarà qualcosa di strano?

di Pino Aprile

21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti

19 gennaio 2012

Il movimento dei forconi è il riscatto del Sud

forconi-movimento-mega
Li ho incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani. Mi dissero: siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader.

Ed io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare!

Non rivogliono il Regno delle due Sicilie ma sono stanchi di essere depredati e di recitare il ruolo di “Bancomat d’Italia”.


In Sicilia il Movimento dei Forconi blocca la regione. I giornali ignorano il fatto. E c'è chi ipotizza strani legami politici dietro queste proteste. Lei cosa ne pensa?


Ogni volta che il Sud protesta, e vi assicuro che ha tonnellate di ragioni per farlo, si trova sempre qualche motivo per infamare le ragioni della protesta. Io a questo movimento ho dedicato un capitolo del mio ultimo libro "Giù al sud", quando non ne parlava nessuno. Li avevo incontrati alla scuola di politica di Filaga sui monti Sicani, creata da padre Ennio Pintacuda, e avevo scoperto un mondo di cui l'Italia non sa nulla, perché se il Sud non è mafia, non è camorra, non è notizia.
Mi raccontarono che in 3 anni, su 200 mila aziende agricole, 50 mila erano state sequestrate, messe all'asta; mi raccontarono di gente che da generazioni coltivava quelle terre, che era scomparsa dall'oggi al domani in silenzio per pudore...tragedie vissute nel silenzio, all'interno delle famiglie.
Qualcuno mi si avvicinò e mi disse: noi siamo alla disperazione, pronti alle armi, ci manca solo un leader e io risposi: guardate che non ho fatto neanche il militare!
Questo è emblematico del grado di disperazione di questa gente.

Il Regno delle due Sicilie era ricchissimo. Poi l'impoverimento, la fuga del Sud. Un'emigrazione che continua anche oggi. Perché?

Ci sono almeno tre argomenti enormi nella sua domanda. Il primo, è l'impoverimento del Sud, un territorio che è esistito per oltre 700 anni con quei confini, con quella gente, e che il Regno delle due Sicilie ereditò e poi gestì per 127 anni. Per chi voglia fare dei paragoni, 127 anni è più di quanto è durato il Regno d'Italia, 85 per i Savoia, è più di quanto è durata la Repubblica italiana, è quasi quanto sono durati il Regno d'Italia e la Repubblica italiana messi insieme. Quella era una dinastia divenuta autoctona, perché creò le prime aree industriali in Italia: basta andarsi a leggere i documenti de "L' Invenzione del mezzogiorno" scritto da Nicola Zitara, e anche tanti altri libri.
L'invasione del sud con annessione comportò la distruzione dell'economia del Sud, la chiusura dei più grandi stabilimenti siderurgici d'Italia che erano in Calabria, l'eccidio, con sparatorie, delle maestranze che volevano impedirlo, la devastazione delle più grandi e efficienti officine meccaniche d'Italia che erano nel napoletano, l'asportazione dei lingotti d'oro, della ricchezza del Regno delle due Sicilie. Tutto questo comportò una ventina d'anni dopo, oltre alla reazione armata di quelli che furono chiamati briganti, che agivano per difendere il proprio paese, l'abbandono della propria terra da parte dei meridionali, un fatto questo che non era mai accaduto in decine di millenni. L'emigrazione dal sud, secondo varie stime, ha portato via 20/25 milioni di meridionali in 90 anni.
Rispetto al passato oggi è cambiato poco o nulla. Un esempio? Il Comitato interministeriale di programmazione economica divide le quote da sbloccare, che spesso sono soldi destinati al sud, per 200 quote e destina 199 quote al nord e una al sud. Con Monti le quote, anche perché i soldi sono diminuiti, sono state circa 40, di cui 39 al nord e una al sud e in tutto il programma di Monti non c'è una parola per il sud. E poi ci si meraviglia delle proteste? I cittadini del Sud vogliono solo rispetto, attenzione ed essere considerati alla pari degli altri cittadini di questo paese.
Del movimento dei forconi fanno parte anche i pastori sardi, guidati da Felice Floris. Ricordo che quando ci furono 100 mila forme di parmigiano invendute, l'allora governo a trazione leghista le fece acquistare con i soldi destinati al mezzogiorno; quando ci fu il pecorino invenduto per i sardi, l'allora governo mandò la polizia a spaccare le teste dei sardi a randellate in Sardegna, e quando i sardi presero il traghetto per andare a Roma, li aspettarono sul molo a Civitavecchia a spaccargli le teste preventivamente, prima ancora che arrivassero nella Capitale a manifestare.
I soldi che hanno usano per il parmigiano erano stati stanziati per il sud! Poi ci si meraviglia se la gente si organizza...In Sicilia il movimento dei forconi ha cominciato a protestare dopo l'ennesimo suicidio di un signore che si è lanciato dalla sua terrazza con una corda legata al collo.

E' ipotizzabile che la crisi economia spazzi via l'Italia e riporti ad assetti pre-unitari?

Queste sono sciocchezze che tendono a nascondere la serietà e la profondità delle argomentazioni per cui il sud protesta.
Dal Meridione sono andati via negli ultimi 10 anni 700 mila giovani laureati. In qualsiasi paese qualunque governo di destra o di sinistra si sarebbe occupato di questo problema. La verità è che nessuno lo vuole risolvere, perché questo è un affare per una parte del paese. Solo per far studiare i suoi figli e poi regalarli al nord, il sud spende circa 3 miliardi di Euro all'anno. Come dimostrano gli studi fatti sull'argomento, formare un laureato costa dalle scuole materne alla laurea 300 mila Euro, ma per quelli fuori sede la cifra aumenta di circa 100 mila. 23 mila studenti meridionali ogni anno si spostano al nord, fate voi i conti.
Una laurea dura in genere, sono calcoli de "Il Sole 24 ore" circa 7 anni, moltiplicate per 7 e avrete il salasso del sud a favore del nord per regalargli una classe dirigente a proprie spese. Questo solo per l'istruzione. Poi pensiamo ai trasporti: sono stati cancellati da un improponibile, impresentabile amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato tutti, ma proprio tutti, i treni diretti sud - nord, il paese è stato spezzato in due nell'anno del 150° anniversario della cosiddetta unità. E ancora, il 90% degli aerei che partono dal sud deve pagare pedaggio a Malpensa, solo per far vivere un aeroporto che non doveva esistere. Per andare da Palermo a Tunisi bisogna prendere l'aereo per Malpensa e poi da Malpensa andare a Tunisi. Dovrà finire questa porcheria!
Un ultimo aneddoto, che ho raccontato nel mio libro "Terroni": alcuni miei amici di Bari per andare a Milano si vedevano costretti a pagare all'Alitalia un biglietto più costoso del Bari -New York. Allora, per risparmiare, compravano il biglietto per New York, arrivavano a Malpensa, scendevano, strappavano il biglietto e andavano a Milano! Il sud è il Bancomat d'Italia, continuamente insultato con l'epiteto di "ladro". In realtà, è l'unico caso al mondo nella storia dell'umanità di un ladro che più ruba e più si impoverisce, di un derubato che più viene derubato e più si arricchisce. Ci sarà qualcosa di strano?

di Pino Aprile