1) Il 2011 sarà ricordato come un anno decisivo per l’Italia: un anno cioè in cui si sono determinati mutamenti rilevanti nella struttura della società italiana. Nel 2011, in conseguenza dell’aggravarsi della crisi del debito e dell’innalzamento dello spread, a seguito del declassamento delle agenzia di rating Moody’s e Standard & Poor’s, l’Italia ha subito dapprima il commissariamento della sua politica economica da parte della BCE, poi l’imposizione da parte del presidente Napolitano, con procedure di dubbia costituzionalità, di un governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’unico inesorabile mandato di varare le manovre economiche imposte dalla UE. Secondo l’orientamento della grande stampa e della quasi totalità dei media, “l’annus horribilis” 2011 si è concluso con un lieto fine: Mario Monti sarebbe dunque il nuovo uomo della provvidenza, l’ultimo in ordine storico, giunto per grazia bancaria a salvare l’Italia dal baratro del default finanziario e ad imporre una trasformazione sistemica in senso liberista della società italiana. La grande sconfitta è stata la politica. I grandi partiti, PdL e PD, già “mortalmente” contrapposti, si sono omologati nel sostegno incondizionato a Monti. Quest’ultimo ha infatti varato manovre impopolari che nessun governo precedente avrebbe potuto realizzare, se non con la prospettiva di perdere vaste fasce del proprio consenso elettorale. L’unica polemica tra destra e sinistra, consiste attualmente nel rivendicare a sé il merito del sostegno incondizionato ed entusiasta a Monti, di aver già previsto e proposto senza successo manovre similari. La continuità tra Monti e i governi precedenti è evidente. Destra e sinistra rivelano dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, la loro gemellare e speculare identità nei programmi e nella prassi politica: la loro unica funzione da 20 anni a questa parte è stata quella di legittimare in Italia l’ordine economico e geopolitico occidentale. Ma il sostegno di PdL e PD a Monti ha accentuato la divaricazione già evidente tra classe politica e paese reale. Monti, al di là delle manifestazioni di protesta anche accentuate, oggi gode del consenso della maggioranza degli italiani, che, atterriti dallo spettro di una Italia condannata a seguire il destino della Grecia, giudicano positivamente l’operato del governo Monti, nella misura in cui specularmente rifiuta i politici e i partiti, la loro corruzione, la loro incapacità ad affrontare la crisi economica. Il governo Monti, dunque rappresenterebbe il superamento della vecchia dicotomia destra/sinistra? Sembrerebbe di si, dal momento che entrambe convergono nella condivisione dei contenuti delle manovre “lacrime e sangue”, rivelando un insospettabile senso di responsabilità nazionale, un “patriottismo” finanziario-liberista che annulla tutte le contrapposizioni in nome della “salvezza nazionale”. In realtà, non è nei programmi del governo Monti realizzare un nuovo progetto di riforme politiche, semmai esso porta a compimento un processo di disgregazione della politica italiana e la sua omologazione alle direttive finanziarie UE, perpetrata attraverso l’azzeramento di ogni dialettica di ogni contrapposizione politica. In effetti il governo Monti non ha un programma politico, né vuole essere rappresentativo di una fantomatica unità nazionale. E’ un governo “non politico”, composto da tecnici e come tale, non ha programmi progettuali, ma di mera attuazione delle direttive della BCE, in accordi con i gruppi finanziari di oltre Oceano, quali Goldman Sachs. Il governo Monti non svolge quindi nemmeno una politica economica. Che le misure di smantellamento dello stato sociale, di aggravio della pressione fiscale, di riforma in senso liberista della legislazione sul lavoro comportino cali di produzione, disoccupazione, recessione generalizzata, non è un fatto rilevante per Monti & C: le conseguenze sull’economia reale e l’impatto sociale delle manovre sono temi estranei alla azione governativa. Monti non è un premier eletto e non ha responsabilità dinanzi agli elettori: il suo mandato è limitato alle problematiche finanziarie connesse allo spread del debito pubblico e come tale, è tenuto a rispondere solo alle direttive sovranazionali della UE. La classe politica si è omologata a Monti non per responsabilità, ma per allinearsi alla sua deresponsabilizzazione, che inevitabilmente comporta l’abiura cosciente e volontaria della sovranità nazionale, ormai ridotta a fardello inutile e rischioso nel mondo finanziarizzato occidentale.
I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcera¬zione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. E’ il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992. Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani. Vorrei far nota¬re quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente inde¬boliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cade¬re le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.
La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.
E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli ¬di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la di¬cotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere iner¬ziale è ancora forte. Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale.
Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per derespon¬sabilizzazione. Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecito¬rio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, i1 linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne du¬bito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!
L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!
2) Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone. Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza. Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli. Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi. Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese. Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.
Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il lo¬ro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!
Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.
Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”. In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose). In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tut¬ti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza. In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzar¬si. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filoso¬fo e scienziato sociale.
Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluziona¬ria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovescia¬mento.
Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno di¬rigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmen¬te smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.. Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura. Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (fami¬glia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).
E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.
La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filo¬sofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).
Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo. Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscien¬za e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni. Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.
3) In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca. La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico. Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi. La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo. La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati. Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.
Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).
L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.
Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è. Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.
L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiama¬vano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.
Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo. Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.
Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove. Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.
4) La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente. Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti. Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”. L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica. Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkosy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti. Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA. Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkosy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA. Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico - finanziario, ma anche geopolitico: so vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane. Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.
Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamenta¬le.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passas¬se praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”. E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi
14 marzo 2012
13 marzo 2012
Gli Dei cialtroni
Monti è sempre più popolare sulla stampa italiana e su quella mondiale che s’inventano impennate negli indici di gradimento della pubblica opinione, nonostante le scudisciate sferrate da costui alle terga dei connazionali. A meno di non essere del tutto pervertiti c’è da giurare che solo in pochi apprezzano le pratiche “slave” e sadomaso del professore borchiato sotto il cappotto d’ordinanza cattedratica. Gentaglia da salotto insomma che non frequentando bar e bettole da volgo si arroga comunque il diritto di mettere in bocca alla plebe parole di giubilo per il Salvator cortese della Patria. Ma l’uomo della provvidenza parziale, il semidio dello spread, l’eroe dei mercati internazionali si guarda bene dal provocare l’ira degli dèi del Grande Capitale e della Finanza Internazionale contro i quali ogni tanto inveisce ma non agisce mentre è sempre pronto a scatenare fulmini e saette sui comuni mortali, sottoposti ad ogni tipo di persecuzione e vessazione. Nettare per gli dèi, lacrime e sangue per noi. Qualcuno si è preso la briga di fare due conti su questo primo periodo del governo soprannaturale composto da tecnici avviati alla carriera divina per una scorciatoia “trilaterale”. Così è emerso dal torbido clima di questa abominevole sobrietà che la spinta celeste dei suddetti figliastri di Pluvio, Olimpo ladro!, è assolutamente unidirezionale e preme soltanto sui settori sociali più svantaggiati. Che pertanto sacramentano e ne hanno ben donde, altro che sacrifici in onore delle divinità professorali! Per esempio, un articolo di Domenico Moro –con un taglio un po’ troppo ancestrale con ancora al centro il conflitto capitale/lavoro- sul sito Marx XXI (Marx che, ricordiamolo, nella sua epoca veniva spesso raffigurato dalla pubblicistica come un Prometeo al quale l’aquila imperiale andava a mangiare il fegato, punizione guadagnata per aver consegnato il fuoco teorico della rivoluzione al proletariato) riporta una serie di gravi iniquità nemmeno citate dai giornali:
“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.
Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”
E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo
“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.
Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”
E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo
12 marzo 2012
La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito
La crisi dell’Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito
C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.
Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.
L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.
Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.
Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.
Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.
In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.
Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.
Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.
Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.
Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.
Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.
Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.
Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.
La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.
Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.
Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.
Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh
(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)
C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.
Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.
L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.
Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.
Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.
Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.
In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.
Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.
Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.
Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.
Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.
Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.
Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.
Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.
La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.
Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.
Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.
Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh
(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)
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14 marzo 2012
Monti: la mutazione antropologica degli italiani
1) Il 2011 sarà ricordato come un anno decisivo per l’Italia: un anno cioè in cui si sono determinati mutamenti rilevanti nella struttura della società italiana. Nel 2011, in conseguenza dell’aggravarsi della crisi del debito e dell’innalzamento dello spread, a seguito del declassamento delle agenzia di rating Moody’s e Standard & Poor’s, l’Italia ha subito dapprima il commissariamento della sua politica economica da parte della BCE, poi l’imposizione da parte del presidente Napolitano, con procedure di dubbia costituzionalità, di un governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’unico inesorabile mandato di varare le manovre economiche imposte dalla UE. Secondo l’orientamento della grande stampa e della quasi totalità dei media, “l’annus horribilis” 2011 si è concluso con un lieto fine: Mario Monti sarebbe dunque il nuovo uomo della provvidenza, l’ultimo in ordine storico, giunto per grazia bancaria a salvare l’Italia dal baratro del default finanziario e ad imporre una trasformazione sistemica in senso liberista della società italiana. La grande sconfitta è stata la politica. I grandi partiti, PdL e PD, già “mortalmente” contrapposti, si sono omologati nel sostegno incondizionato a Monti. Quest’ultimo ha infatti varato manovre impopolari che nessun governo precedente avrebbe potuto realizzare, se non con la prospettiva di perdere vaste fasce del proprio consenso elettorale. L’unica polemica tra destra e sinistra, consiste attualmente nel rivendicare a sé il merito del sostegno incondizionato ed entusiasta a Monti, di aver già previsto e proposto senza successo manovre similari. La continuità tra Monti e i governi precedenti è evidente. Destra e sinistra rivelano dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, la loro gemellare e speculare identità nei programmi e nella prassi politica: la loro unica funzione da 20 anni a questa parte è stata quella di legittimare in Italia l’ordine economico e geopolitico occidentale. Ma il sostegno di PdL e PD a Monti ha accentuato la divaricazione già evidente tra classe politica e paese reale. Monti, al di là delle manifestazioni di protesta anche accentuate, oggi gode del consenso della maggioranza degli italiani, che, atterriti dallo spettro di una Italia condannata a seguire il destino della Grecia, giudicano positivamente l’operato del governo Monti, nella misura in cui specularmente rifiuta i politici e i partiti, la loro corruzione, la loro incapacità ad affrontare la crisi economica. Il governo Monti, dunque rappresenterebbe il superamento della vecchia dicotomia destra/sinistra? Sembrerebbe di si, dal momento che entrambe convergono nella condivisione dei contenuti delle manovre “lacrime e sangue”, rivelando un insospettabile senso di responsabilità nazionale, un “patriottismo” finanziario-liberista che annulla tutte le contrapposizioni in nome della “salvezza nazionale”. In realtà, non è nei programmi del governo Monti realizzare un nuovo progetto di riforme politiche, semmai esso porta a compimento un processo di disgregazione della politica italiana e la sua omologazione alle direttive finanziarie UE, perpetrata attraverso l’azzeramento di ogni dialettica di ogni contrapposizione politica. In effetti il governo Monti non ha un programma politico, né vuole essere rappresentativo di una fantomatica unità nazionale. E’ un governo “non politico”, composto da tecnici e come tale, non ha programmi progettuali, ma di mera attuazione delle direttive della BCE, in accordi con i gruppi finanziari di oltre Oceano, quali Goldman Sachs. Il governo Monti non svolge quindi nemmeno una politica economica. Che le misure di smantellamento dello stato sociale, di aggravio della pressione fiscale, di riforma in senso liberista della legislazione sul lavoro comportino cali di produzione, disoccupazione, recessione generalizzata, non è un fatto rilevante per Monti & C: le conseguenze sull’economia reale e l’impatto sociale delle manovre sono temi estranei alla azione governativa. Monti non è un premier eletto e non ha responsabilità dinanzi agli elettori: il suo mandato è limitato alle problematiche finanziarie connesse allo spread del debito pubblico e come tale, è tenuto a rispondere solo alle direttive sovranazionali della UE. La classe politica si è omologata a Monti non per responsabilità, ma per allinearsi alla sua deresponsabilizzazione, che inevitabilmente comporta l’abiura cosciente e volontaria della sovranità nazionale, ormai ridotta a fardello inutile e rischioso nel mondo finanziarizzato occidentale.
I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcera¬zione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. E’ il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992. Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani. Vorrei far nota¬re quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente inde¬boliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cade¬re le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.
La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.
E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli ¬di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la di¬cotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere iner¬ziale è ancora forte. Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale.
Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per derespon¬sabilizzazione. Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecito¬rio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, i1 linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne du¬bito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!
L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!
2) Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone. Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza. Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli. Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi. Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese. Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.
Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il lo¬ro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!
Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.
Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”. In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose). In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tut¬ti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza. In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzar¬si. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filoso¬fo e scienziato sociale.
Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluziona¬ria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovescia¬mento.
Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno di¬rigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmen¬te smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.. Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura. Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (fami¬glia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).
E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.
La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filo¬sofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).
Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo. Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscien¬za e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni. Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.
3) In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca. La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico. Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi. La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo. La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati. Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.
Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).
L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.
Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è. Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.
L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiama¬vano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.
Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo. Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.
Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove. Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.
4) La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente. Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti. Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”. L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica. Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkosy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti. Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA. Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkosy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA. Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico - finanziario, ma anche geopolitico: so vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane. Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.
Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamenta¬le.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passas¬se praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”. E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi
I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcera¬zione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. E’ il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992. Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani. Vorrei far nota¬re quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente inde¬boliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cade¬re le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.
La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.
E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli ¬di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la di¬cotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere iner¬ziale è ancora forte. Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale.
Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per derespon¬sabilizzazione. Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecito¬rio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, i1 linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne du¬bito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!
L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!
2) Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone. Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza. Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli. Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi. Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese. Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.
Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il lo¬ro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!
Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.
Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”. In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose). In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tut¬ti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza. In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzar¬si. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filoso¬fo e scienziato sociale.
Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluziona¬ria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovescia¬mento.
Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno di¬rigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmen¬te smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.. Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura. Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (fami¬glia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).
E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.
La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filo¬sofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).
Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo. Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscien¬za e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni. Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.
3) In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca. La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico. Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi. La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo. La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati. Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.
Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).
L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.
Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è. Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.
L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiama¬vano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.
Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo. Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.
Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove. Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.
4) La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente. Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti. Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”. L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica. Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkosy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti. Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA. Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkosy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA. Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico - finanziario, ma anche geopolitico: so vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane. Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.
Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamenta¬le.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passas¬se praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”. E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi
13 marzo 2012
Gli Dei cialtroni
Monti è sempre più popolare sulla stampa italiana e su quella mondiale che s’inventano impennate negli indici di gradimento della pubblica opinione, nonostante le scudisciate sferrate da costui alle terga dei connazionali. A meno di non essere del tutto pervertiti c’è da giurare che solo in pochi apprezzano le pratiche “slave” e sadomaso del professore borchiato sotto il cappotto d’ordinanza cattedratica. Gentaglia da salotto insomma che non frequentando bar e bettole da volgo si arroga comunque il diritto di mettere in bocca alla plebe parole di giubilo per il Salvator cortese della Patria. Ma l’uomo della provvidenza parziale, il semidio dello spread, l’eroe dei mercati internazionali si guarda bene dal provocare l’ira degli dèi del Grande Capitale e della Finanza Internazionale contro i quali ogni tanto inveisce ma non agisce mentre è sempre pronto a scatenare fulmini e saette sui comuni mortali, sottoposti ad ogni tipo di persecuzione e vessazione. Nettare per gli dèi, lacrime e sangue per noi. Qualcuno si è preso la briga di fare due conti su questo primo periodo del governo soprannaturale composto da tecnici avviati alla carriera divina per una scorciatoia “trilaterale”. Così è emerso dal torbido clima di questa abominevole sobrietà che la spinta celeste dei suddetti figliastri di Pluvio, Olimpo ladro!, è assolutamente unidirezionale e preme soltanto sui settori sociali più svantaggiati. Che pertanto sacramentano e ne hanno ben donde, altro che sacrifici in onore delle divinità professorali! Per esempio, un articolo di Domenico Moro –con un taglio un po’ troppo ancestrale con ancora al centro il conflitto capitale/lavoro- sul sito Marx XXI (Marx che, ricordiamolo, nella sua epoca veniva spesso raffigurato dalla pubblicistica come un Prometeo al quale l’aquila imperiale andava a mangiare il fegato, punizione guadagnata per aver consegnato il fuoco teorico della rivoluzione al proletariato) riporta una serie di gravi iniquità nemmeno citate dai giornali:
“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.
Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”
E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo
“Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%. Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise. Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011”.
Si sarà comportato con tutte le furie del cielo dottorale anche con le grandi imprese? Nemmeno per il loden, ed infatti: “le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.”
E non è finita qui perché tra l’IMU (la tassa sugli immobili che costringerà chi non potrà versare l’ennesimo ed odioso balzello a vendersi la casa, come sostiene Nicola Porro su Il Giornale) e la riforma del mercato del lavoro orientata a decurtare le vecchie garanzie per sostituirle con la mera propaganda del mercato globale, è sicuro che gli ultimi della Penisola, a forza di sprofondare, finiranno dritti dritti nell’Ade. Le nubi intorno a Monti si fanno sempre più fitte, proprio come quelle intorno al Monte Olimpo, dove però un tempo campeggiavano degli dèi dai tratti umani e non dei cialtroni con la faccia da marionette della Trilaterale.
di Gianni Petrosillo
12 marzo 2012
La crisi dell'Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito
La crisi dell’Europa è la crisi del modello economico fondato sul debito
C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.
Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.
L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.
Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.
Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.
Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.
In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.
Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.
Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.
Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.
Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.
Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.
Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.
Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.
La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.
Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.
Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.
Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh
(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)
C’è un aspetto dell’attuale crisi economica in Europa e Nordamerica che è stato completamente sorvolato: l’attuale condizione di queste potenti economie convalida la tradizionale saggezza indiana riguardo alle questioni economiche e finanziarie, ponendo degli interrogativi su modelli economici (e stili di vita) basati sul debito. Considerati i probabili scenari futuri in Grecia e nell’Unione Europea, tutto ciò diventerà chiaro come il sole.
Dopo lunghi negoziati, i leader europei, i creditori privati e il FMI sono riusciti a predisporre il secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia, il quale è ritenuto politicamente accettabile per i creditori, fornendo ad Atene un sostegno che si calcola possa essere sostenibile. Saranno garantiti alla Grecia 130 miliardi di euro (173 miliardi di dollari) di finanziamenti addizionali per i prossimi due anni. Le banche private hanno accettato una riduzione del 53,5% del valore nominale delle obbligazioni greche in loro possesso, unitamente a una riduzione del tasso d’interesse sui nuovi titoli, partendo dal 2% e salendo al 4.3% dal 2020. Tutto ciò equivale a una perdita dell’attuale valore netto di circa il 75% (una perdita maggiorata al 21% rispetto agli accordi del luglio dello scorso anno). Inoltre, i tassi d’interesse applicati dai membri dell’eurozona sui loro prestiti di salvataggio per la Grecia saranno ridotti dello 0,50%.
L’accordo dovrebbe comportare un abbassamento del rapporto tra debito e PIL della Grecia al 120,5% nel 2020.
Tuttavia, l’elargizione del prestito è condizionata dall’attuazione da parte della Grecia di determinate misure entro la fine del mese – ad esempio, ridurre il salario minimo per rendere il mercato del lavoro più flessibile – e sarà sottoposta a un “rafforzato e permanente” monitoraggio da parte dei funzionari della Commissione Europea in Grecia.
La Grecia dovrà depositare il valore di un trimestre del pagamento del servizio di debito in un “conto separato”, il quale sarà monitorato dalla troika composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e FMI.
Nel corso dei prossimi due mesi, la Grecia promulgherà una legge “garante che la priorità sarà concessa ai pagamenti del servizio del debito”, sancendolo nella Costituzione “il più presto possibile”. Il pacchetto, se sarà attuato (si tratta di un grosso se), consentirà alla Grecia di evitare un default disordinato nel prossimo mese con 14,5 miliardi di euro (19 miliardi di dollari) di obbligazioni in scadenza. Tuttavia, la tregua è destinata ad essere temporanea ed è improbabile che possa offrire delle soluzioni ai problemi di base della Grecia o, più importante, delle economie dell’eurozona.
Questo perché la pazienza e la fiducia si stanno esaurendo su tutti i fronti. Gli istituti di credito esercitano delle pressioni, richiedendo una maggiore austerità e forti impegni, i titolari di mutuo stanno diventando sempre più risentiti per le condizioni che si stanno cercando di imporre loro, e la gente nei paesi prestatori è irritata di fronte alla prospettiva di compiere dei sacrifici per salvare i loro dissoluti vicini. Ci sono state violente manifestazioni e proteste ad Atene e altrove contro il pacchetto d’austerità. Per i greci, i quali hanno avuto a lungo vita facile come parte integrante della più ampia eurozona, i sacrifici richiesti, in particolare la riduzione delle pensioni, rappresentano una pillola amara da ingoiare. La sensazione di essere costretti a subire delle privazioni in base alle insistenze degli stranieri, soprattutto tedeschi, li rende ancor più risentiti. Con la disoccupazione in crescita attorno al 20% per il quarto anno consecutivo, la rabbia dell’opinione pubblica contro la classe politica ha comportato settimane di proteste.
Quasi con lo stampino, la rabbia sta montando in altri paesi dell’eurozona per la prospettiva di dover salvare i greci, piuttosto che lasciarli cuocere nel loro brodo. I pessimisti sottolineano che la Grecia è nota per le promesse non mantenute. Nonostante gli impegni presi più di un anno fa volti alla massiccia privatizzazione e alla riduzione dell’amministrazione pubblica, non un singolo significativo settore greco è stato privatizzato, né un funzionario licenziato. Dopo aver speso miliardi per più di un decennio per l’integrazione della Germania, i tedeschi non vogliono spendere grandi somme supplementari a favore di coloro che considerano pigri, nonché fannulloni spendaccioni dell’Europa meridionale. Altri Stati creditori come la Finlandia e i Paesi Bassi sono altrettanto stufi di dover distribuire denaro, e meno della Germania si sentono costretti a svolgere la parte dei buoni europei.
In questo modo, l’agonia della Grecia non è affatto conclusa. Per prima cosa, le regolari e incessanti valutazioni della troika, così come le accese polemiche per gli eccessi di esborsi continueranno. E se l’Italia e la Spagna saranno in grado di fare evidenti progressi nella sistemazione delle proprie finanze pubbliche, il resto dell’eurozona si sentirà più al sicuro nel chiudere il rubinetto greco. Dunque la Grecia potrà solo ritardare un default disordinato, che alla fine avverrà comunque.
Sotto molti aspetti la Grecia rappresenta la debolezza dell’Unione Europea. Come sostenuto da Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che questo piccolo paese, economicamente debole e cronicamente mal gestito abbia causato tali difficoltà, indica la fragilità strutturale dell’UE. Le mancanze greche sono estreme, ma non uniche. La sua situazione dimostra che l’eurozona necessita ancora di una più praticabile miscela di flessibilità, disciplina e solidarietà.
Politicamente l’eurozona è una costruzione incompleta. Dispone di un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Non è né così profondamente integrata dal ritenere una rottura inconcepibile, né così poco unita dal rendere la sua implosione tollerabile. Alcuni politologi sostengono che se l’eurozona sopravviverà, deve trasformarsi in un’unione fiscale come l’India, dove sono assicurati trasferimenti dagli Stati con surplus a quelli con disavanzi (come succede tra il Gujarat e l’Orissa). Ma i tedeschi e gli elettori del nord Europa non considerano seriamente una simile prospettiva. Infatti, oggi la garanzia più potente per la sopravvivenza dell’UE è il costo rappresentato dalla sua rottura. Ma questo aspetto non basta. Nel lungo periodo, l’unità europea deve essere costruita su qualcosa di più positivo rispetto a questo principio. Si tratta comunque di un compito titanico, date le divergenze economiche e gli attriti politici emersi così chiaramente da questa crisi.
Economicamente l’eurozona è un matrimonio fra diseguali. Membri ad alta produttività (Germania, Paesi Bassi e Finlandia) e Paesi del sud a bassa produttività (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – PIIGS) sono legati da un’unica moneta, l’euro. L’euro è molto sottovalutato per la produttività della Germania, che quindi ha espanso le proprie esportazioni. Ma la stessa moneta è troppo forte per i PIIGS, che hanno aggravato i disavanzi commerciali. In questo modo, la crisi dell’eurozona è fondamentalmente una crisi della bilancia dei pagamenti. Poiché tutti i membri usano l’euro, gli squilibri commerciali tra loro non sono evidenziati. Ma essi sono enormi, per un totale di circa 500 miliardi di euro. Un tasso di cambio non competitivo ha gravato i PIIGS, i quali hanno una crescita del PIL molto lenta o negativa, causando una riduzione del gettito fiscale e, di conseguenza, un aumento del deficit di bilancio. Dunque, un problema commerciale si è trasformato in un problema fiscale.
Risolvere queste questioni non è facile. Inoltre, vi è preoccupazione per il deteriorarsi dell’economia dell’eurozona, che probabilmente si trova in recessione. I piani d’austerità varati da alcuni governi ritarderebbero solamente la crescita economica, riducendo le entrate governative e aggravando lo squilibrio fiscale. Tutto ciò, a sua volta, farà ulteriormente calare la fiducia, mettendo in discussione la capacità di diversi Stati sovrani di sostenere le proprie spese. E’ un circolo vizioso.
Le banche europee sono sotto forte pressione. Hanno massicce dosi di obbligazioni, non solo della Grecia, ma anche di altri paesi che si ritiene siano in una situazione critica. Il pacchetto di salvataggio greco comporterà per loro delle pesanti perdite. Se il contagio greco si diffonderà in altri paesi, l’intero sistema finanziario potrebbe essere in pericolo. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle banche stiano ottenendo prestiti dalla BCE per le loro obbligazioni in scadenza, piuttosto che per emettere capitali nell’economia attraverso prestiti commerciali.
I Paesi e le aziende dell’Asia sono particolarmente colpiti da questa stretta creditizia da parte delle banche europee, che sono state le loro grandi finanziatrici. La riduzione dei crediti da parte di queste banche, unitamente al rallentamento dell’economia in Europa potrebbe comportare delle conseguenze negative per le esportazioni asiatiche.
Cosa causeranno questi sviluppi per l’India? L’UE è il principale partner commerciale dell’India, acquistando circa un quinto del totale delle esportazioni indiane. Con un rallentamento delle esportazioni dovuto a un calo della domanda da parte dell’UE, aggravata dai tagli governativi del bilancio e dalla riduzione dei finanziamenti bancari, potrebbe ampliarsi il disavanzo del conto delle partite correnti dell’India. Dal momento che più di tre quarti delle esportazioni indiane verso l’UE provengono dal settore manifatturiero, questo prevedibile calo della domanda di esportazioni potrebbe esercitare delle pressioni sulla produzione industriale nazionale. Infine, mentre i mercati di tutto il mondo restano nervosi, il commercio e i flussi d’investimenti futuri dipenderanno da come verrà risolta la crisi del debito dell’eurozona. Gli afflussi di capitali verso l’India potrebbero essere influenzati nel caso in cui le banche europee continuassero ad ottenere prestiti per soddisfare le loro obbligazioni non ancora scadute, piuttosto che per espandere il credito al fine di favorire nuovi investimenti.
Non vi è alcuna certezza su come, quando e in che modo l’eurozona uscirà dalla complicata situazione in cui versa. Dal momento che l’eurozona fatica a trovare una via d’uscita alla propria multiforme crisi, l’India non può pretendere di rimanerne non influenzata. Necessita di una strategia globale per affrontare tutte le eventualità e gli scenari. Tutto ciò che attualmente osserviamo è istintiva reazione del mercato a specifici sviluppi. Chiaramente, questo non è sufficiente.
La situazione dei paesi europei così come quella degli Stati Uniti offre alcune lezioni di base per l’India. Il loro passaggio da una crisi all’altra dimostra i pericoli rappresentati da modelli economici basati sul debito. Seguendo l’economia keynesiana, i governi di questi paesi hanno invocato pesanti spese pubbliche al fine di creare domanda aggiuntiva e stimolare la crescita. Gli individui e le famiglie di questi paesi hanno accumulato debito su debito in modo tale da ricercare un modello di esistenza che pensavano fosse il modo corretto di vivere. Una cultura basata sulle carte di credito e prestiti sub-prime ha creato un’illusione di opulenza.
Stanno ora riscoprendo le virtù della buona vecchia prudenza. Le loro stravaganze sono ora delle ossessioni. I loro governi sono “in tensione”. I loro sistemi di sicurezza sociale stanno diventando sempre più insostenibili e inadeguati. Si tratta di un risultato inevitabile in una società in cui la specializzazione esclusiva della gente maggiormente pagata è ideare nuovi e più complessi prodotti finanziari. Stanno imparando nel modo più duro che non si può influenzare il percorso verso la prosperità.
Prima guadagna, poi spendi, questo ci hanno insegnato i nostri antenati. Spendi sempre meno di quello che guadagni, ci hanno detto. I nostri shastra e i saggi disapprovavano il comportamento dei re che indulgevano in dissolutezza e sperperavano le tasse pagate dai loro sudditi. Sotto l’influenza delle economie occidentali, i governi dell’India indipendente hanno dimenticato queste lezioni, ricorrendo al finanziamento del deficit su larga scala e spingendo al rialzo i prezzi di tutto centinaia di volte nel corso degli ultimi anni.
Oggi, l’abitudine di vivere al di là di ogni mezzo, che si riflette in giganteschi deficit fiscali, è diventata una macina attorno al collo dell’economia. La stampa di banconote, prendendo in prestito da chiunque è disposto a dare in prestito, è una strada angosciosa che non porta allo sviluppo. Le nazioni sono costruite sul duro lavoro, la diligenza e l’onestà. Questa è la lezione che dovremmo imparare dalla crisi in Occidente.
di Virendra Parekh
(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)
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