20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin

16 marzo 2012

Goldman Sachs, le accuse dell'ex-dirigente. Una deriva morale strategica?

Goldman Sachs
Le accuse di deriva morale che l'ex dirigente muove a Goldman Sachs potrebbero essere dovute alla nuova fase economica in cui l'azienda si muove

Ambiente “tossico e distruttivo”, clienti chiamati “pupazzi” cui si cercano di affibbiare titoli spazzatura con l'unico scopo di massimizzare i profitti, neanche un briciolo di “cultura aziendale”, piuttosto il messaggio per i nuovi arrivati che solo essendo spregiudicati riusciranno a fare carriera. Questa la descrizione, non proprio confortante, che il dirigente Greg Smith, al suo ultimo giorno di lavoro, fornisce dalle pagine del New York Times della sua quasi-ex azienda: Goldman Sachs.

Ebbene sì, pare proprio che alla banca di investimenti che ci ha generosamente donato due primi ministri (Romano Prodi ed il mai eletto Mario Monti), un governatore della Banca d'Italia (Mario Draghi, ora assurto a presidente della Banca centrale europea) e che ha avuto un ruolo chiave negli attacchi al nostro debito sovrano assieme alla Deutsche bank – per non parlare del debito greco -, non siano proprio degli stinchi di santo.

Bella scoperta, direte voi. Eppure quando lo stesso Smith afferma che non sempre è stato così, che un tempo “Si ruotava intorno a lavoro di squadra, integrità, spirito di umiltà, e sempre cercando il bene dei nostri clienti”, potrebbe non avere tutti i torti.

Greg Smith è stato ai vertici di Goldman Sachs per 12 anni, come direttore esecutivo per i derivati in Usa, Europa, Medio oriente ed Africa. Nella lettera accusatoria che ha deciso di scrivere nello stesso giorno in cui abbandonava l'incarico sostiene di aver assistito ad un cambiamento enorme nel modo di gestire l'azienda.

“Potrà suonare sorprendente ad un pubblico scettico - afferma Smith – ma la cultura è stata sempre una parte vitale del successo di Goldman Sachs”. E continua: “La cultura era l'ingrediente segreto che ha reso questo posto fantastico e ci ha permesso di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni. Non era solo di fare soldi, questo da solo non può sostenere una società per così tanto tempo. Aveva qualcosa a che fare con l'orgoglio e la fede nella organizzazione”.

Per poi concludere amaramente, “Mi dispiace dire che oggi mi guardo intorno e vedere praticamente alcuna traccia della cultura che mi ha fatto amare a lavorare per questa azienda per molti anni. Non ho più l'orgoglio, o la convinzione.”

Qualcosa, secondo l'ex dirigente, ha smesso di funzionare; la banca sta affrontando una deriva semi-criminale che la conduce ad abbandonare del tutto gli interessi dei propri clienti per rincorrere facili profitti. Ma è davvero una deriva? Un “declino nella fibra morale della società [che] rappresenta la singola minaccia più grave per la sua sopravvivenza a lungo termine”, come afferma Smith?

Ci sono elementi che fanno ritenere che invece il nuovo volto di Goldman Sachs sia frutto di una strategia molto più a lungo termine di quanto l'ex dirigente non ritenga. Quando Smith entrò nell'azienda, l'economia mondiale era ancora in fase di espansione (pur essendoci già avvisaglie della crisi imminente). Per una grande banca d'affari, quando un'economia è in espansione è il momento di “curare il cliente”, ovvero di cercare di creare una ricchezza più diffusa possibile nella società. Perché? Semplicemente perché più saranno cresciuti i beni materiali, la ricchezza reale di quella determinata società, più ci sarà da arraffare nel momento della crisi.

Adesso è il momento della crisi. È il momento in cui la ricchezza creata nel periodo di espansione viene redistribuita verso l'alto, in cui le banche smettono di emettere credito ma traggono profitto dall'enorme debito accumulato negli anni; in pratica convertono il debito, frutto della somma degli interessi della moneta da esse stesse emessa, in beni materiali.

Per questo le crisi sono cicliche: l'economia capitalista ha bisogno di rigenerarsi di volta in volta, di azzerare il debito accumulato, di distruggere i diritti acquisiti dai lavoratori, creare manodopera a basso costo e povertà diffusa per poi ripartire da zero. E le banche sanno esattamente come muoversi in ogni momento. Sanno quando è il momento di favorire la crescita, quando quello di fare sciacallaggio. Lo sgomento di Smith nasce probabilmente dall'interpretare in maniera lineare quel frammento di circonferenza che si è trovato a vivere.
di Andrea Degl'Innocenti

20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin

16 marzo 2012

Goldman Sachs, le accuse dell'ex-dirigente. Una deriva morale strategica?

Goldman Sachs
Le accuse di deriva morale che l'ex dirigente muove a Goldman Sachs potrebbero essere dovute alla nuova fase economica in cui l'azienda si muove

Ambiente “tossico e distruttivo”, clienti chiamati “pupazzi” cui si cercano di affibbiare titoli spazzatura con l'unico scopo di massimizzare i profitti, neanche un briciolo di “cultura aziendale”, piuttosto il messaggio per i nuovi arrivati che solo essendo spregiudicati riusciranno a fare carriera. Questa la descrizione, non proprio confortante, che il dirigente Greg Smith, al suo ultimo giorno di lavoro, fornisce dalle pagine del New York Times della sua quasi-ex azienda: Goldman Sachs.

Ebbene sì, pare proprio che alla banca di investimenti che ci ha generosamente donato due primi ministri (Romano Prodi ed il mai eletto Mario Monti), un governatore della Banca d'Italia (Mario Draghi, ora assurto a presidente della Banca centrale europea) e che ha avuto un ruolo chiave negli attacchi al nostro debito sovrano assieme alla Deutsche bank – per non parlare del debito greco -, non siano proprio degli stinchi di santo.

Bella scoperta, direte voi. Eppure quando lo stesso Smith afferma che non sempre è stato così, che un tempo “Si ruotava intorno a lavoro di squadra, integrità, spirito di umiltà, e sempre cercando il bene dei nostri clienti”, potrebbe non avere tutti i torti.

Greg Smith è stato ai vertici di Goldman Sachs per 12 anni, come direttore esecutivo per i derivati in Usa, Europa, Medio oriente ed Africa. Nella lettera accusatoria che ha deciso di scrivere nello stesso giorno in cui abbandonava l'incarico sostiene di aver assistito ad un cambiamento enorme nel modo di gestire l'azienda.

“Potrà suonare sorprendente ad un pubblico scettico - afferma Smith – ma la cultura è stata sempre una parte vitale del successo di Goldman Sachs”. E continua: “La cultura era l'ingrediente segreto che ha reso questo posto fantastico e ci ha permesso di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni. Non era solo di fare soldi, questo da solo non può sostenere una società per così tanto tempo. Aveva qualcosa a che fare con l'orgoglio e la fede nella organizzazione”.

Per poi concludere amaramente, “Mi dispiace dire che oggi mi guardo intorno e vedere praticamente alcuna traccia della cultura che mi ha fatto amare a lavorare per questa azienda per molti anni. Non ho più l'orgoglio, o la convinzione.”

Qualcosa, secondo l'ex dirigente, ha smesso di funzionare; la banca sta affrontando una deriva semi-criminale che la conduce ad abbandonare del tutto gli interessi dei propri clienti per rincorrere facili profitti. Ma è davvero una deriva? Un “declino nella fibra morale della società [che] rappresenta la singola minaccia più grave per la sua sopravvivenza a lungo termine”, come afferma Smith?

Ci sono elementi che fanno ritenere che invece il nuovo volto di Goldman Sachs sia frutto di una strategia molto più a lungo termine di quanto l'ex dirigente non ritenga. Quando Smith entrò nell'azienda, l'economia mondiale era ancora in fase di espansione (pur essendoci già avvisaglie della crisi imminente). Per una grande banca d'affari, quando un'economia è in espansione è il momento di “curare il cliente”, ovvero di cercare di creare una ricchezza più diffusa possibile nella società. Perché? Semplicemente perché più saranno cresciuti i beni materiali, la ricchezza reale di quella determinata società, più ci sarà da arraffare nel momento della crisi.

Adesso è il momento della crisi. È il momento in cui la ricchezza creata nel periodo di espansione viene redistribuita verso l'alto, in cui le banche smettono di emettere credito ma traggono profitto dall'enorme debito accumulato negli anni; in pratica convertono il debito, frutto della somma degli interessi della moneta da esse stesse emessa, in beni materiali.

Per questo le crisi sono cicliche: l'economia capitalista ha bisogno di rigenerarsi di volta in volta, di azzerare il debito accumulato, di distruggere i diritti acquisiti dai lavoratori, creare manodopera a basso costo e povertà diffusa per poi ripartire da zero. E le banche sanno esattamente come muoversi in ogni momento. Sanno quando è il momento di favorire la crescita, quando quello di fare sciacallaggio. Lo sgomento di Smith nasce probabilmente dall'interpretare in maniera lineare quel frammento di circonferenza che si è trovato a vivere.
di Andrea Degl'Innocenti