24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)

24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)