09 aprile 2012

Esorcismi



Ragionamento:


1. Le lotte contro le misure antipopolari, che in questo periodo stanno prendendo i vari governi europei, hanno sempre una dimensione nazionale, mai una dimensione europea.
2. Al contrario, l'azione dei rappresentanti politici dell'attuale capitalismo regressivo (volta a “riportare la lancetta della storia a prima del 1929, a cancellare lo stato sociale e abrogare il compromesso fra capitale e lavoro”) ha una dimensione sovranazionale.
3. D'altronde, è un fatto che “l'unica leva di potere cui la sinistra può (…) puntare è il controllo dell'apparato dello stato nazionale”.
4. Inoltre, “l'euro è una moneta unica che paradossalmente ha diviso invece di unire: ha esaltato le differenze e le irriducibilità fra i vari paesi rendendo più difficile concordare le iniziative fra le diverse sinistre”.

Fin qui D'Eramo. Queste analisi sono ampiamente condivisibili. Quali conclusioni trarne? Chi legge questo blog conosce le nostre posizioni: occorre riconquistare la sovranità nazionale, e quindi anche economica, e usare il potere dello Stato per ricostruire la giustizia e la coesione sociale che trent'anni di neoliberismo hanno cancellato.
Come si può intuire (dopotutto, stiamo parlando di un editoriale del “Manifesto”), non è questa la conclusione che trae D'Eramo. La sua conclusione è che “quella nazionalistica è una tentazione illusoria e vana”. Occorre invece, sembra dire D'Eramo, che le sinistre portino la battaglia sul terreno dell'intera Unione Europea, per esempio organizzando uno sciopero generale europeo e invadendo le piazze dell'intera Unione.
Ora, noi riteniamo che la proposta di D'Eramo sia, essa sì, una “tentazione illusoria e vana”. Ma poiché essa rappresenta una idea di fondo condivisa, in una forma o nell'altra, da tutta o quasi la sinistra, ci sembra valga la pena di discuterla seriamente. E l'unico modo di discutere seriamente una tesi è prenderla sul serio. Prendiamo allora sul serio la tesi di D'Eramo. Egli chiede una lotta sociale e popolare a livello europeo contro le politiche economiche neoliberiste e antipopolari. Se questa proposta è una proposta seria, essa deve far riferimento ad un soggetto sociale che sia l'attore di questa lotta europea. Come già avevamo indicato in un saggio scritto assieme a Fabrizio Tringali, questa proposta richiede in sostanza che esista qualcosa come un “popolo europeo” che sia l'attore di una lotta popolare europea. A seconda delle preferenze ideologiche, al posto di “popolo europeo” si può naturalmente parlare di “proletariato europeo”, di “classe operaia europea”, di “ceti subalterni europei”: dal punto di vista del nostro ragionamento, non cambia molto.
Ma cosa significa “popolo europeo”? Quali sono le condizioni almeno necessarie (e forse nemmeno sufficienti) perché si possa parlare di “popolo europeo”? Proviamo ad elencarne qualcuna:

1.Una lingua comune. I vari soggetti di uno stesso popolo devono avere la possibilità di comunicare fra loro, con immediatezza, in una lingua comprensibile a tutti e che tutti padroneggiano.
2.Mescolanza di popolazioni: vi devono essere dei movimenti migratori diffusi che mescolino le varie popolazioni, in maniera che ci sia la possibilità di conoscenza reciproca a livello “molecolare” e si diffondano la solidarietà e la fiducia reciproca, anche attraverso il lavoro comune e la comune lotta contro le avversità. Basti pensare a come centocinquant'anni di storia italiana hanno portato gente del sud a vivere al nord e viceversa, cementando il senso di appartenenza comune.
3.Mezzi di informazione comuni: vi deve essere una base comune di conoscenza, di informazione, di giudizio sui fatti politici, e questa è possibile solo grazie a mezzi di informazione che siano letti o ascoltati da tutti (e per questo c'è ovviamente bisogno della lingua comune di cui al primo punto).

Perché è necessario un “popolo europeo” per concretizzare la proposta di D'Eramo? Perché, in sua mancanza, succede esattamente quello che egli descrive. Succede cioè che ciascun popolo europeo si muove e lotta per proprio conto, ed è inevitabile che sia così. Vi è infatti un ostacolo fortissimo contro la prospettiva, indicata da D'Eramo, di una lotta popolare europea, ed è il fatto che le misure regressive del governo portoghese, per fare un esempio, toccano ovviamente solo i portoghesi, non i francesi o i tedeschi o gli italiani. Questi ultimi non hanno quindi uno stimolo “materiale” diretto a lottare contro le misure regressive del governo portoghese. Il discorso può ovviamente esser ripetuto per tutti i diversi paesi. In ognuno di essi la crisi ha tempi specifici, e questo facilita la diffusione dell'idea che la crisi di ciascun paese sia solo sua. Oltre a questo, vi è la contrapposizione fra i paesi “virtuosi” del nord e quelli “viziosi” del sud, che sembra essere penetrata nel senso comune e rende ancora più difficile la formazione di una coscienza popolare europea.
Tutte queste difficoltà possono essere superate solo in presenza di una profonda solidarietà fra i popoli europei, e questo può avvenire solo grazie ad una autentica conoscenza reciproca, che non deriva da slogan o da iniziative superficiali e spettacolari come feste o manifestazioni, ma può essere solo il prodotto di una storia che abbia portato appunto a una lingua comune e a una certa mescolanza di popolazioni.
Se dunque la proposta di D'Eramo deve essere presa sul serio, essa può essere interpretata come la proposta della creazione di un popolo europeo, e quindi della realizzazione delle condizioni sopra descritte (ripetiamolo: condizioni necessarie ma forse nemmeno sufficienti). Ma si capisce bene che una simile proposta non è una proposta politica attuale: la creazione di un popolo europeo sufficientemente unito può essere forse un nobile ideale culturale sul quale iniziare oggi a lavorare, ma ovviamente rappresenta un prospettiva lontana nel futuro di almeno qualche decennio se non di qualche secolo.
Nel frattempo, di fronte all'attacco spaventoso scatenato dai ceti dirigenti europei contro i popoli europei, in attesa che si formi il popolo europeo in grado di battersi per i propri diritti a livello europeo, cosa si fa? Si fanno, ovviamente, le uniche cose che si possono fare: le lotte a livello nazionale, che è l'unico livello al quale vi siano oggi soggetti popolari in grado di lottare. Ma poiché il livello nazionale è perdente all'interno dell'euro e dell'UE, per i motivi che anche D'Eramo spiega, ecco che l'unica proposta concreta ed effettiva per lottare contro l'attacco capitalista è oggi l'uscita da euro e UE e il recupero della sovranità nazionale.
La sostanza della questione è piuttosto facile da capire, e per renderla ancora più chiara basta un semplice esperimento mentale: immaginiamo che una forza politica ispirata alle tesi che qui sosteniamo si presenti alle elezioni e le vinca col 98% dei voti, e possa quindi governare per una intera legislatura. Essa cercherà naturalmente di mettere in atto l'uscita da euro e UE. Nel fare questo si scontrerà contro grosse difficoltà, dovrà lottare e potrà essere sconfitta. Questo è quello che ovviamente può succedere ad ogni proposta politica seria.
Immaginiamo invece che a vincere le elezioni col 98% dei voti sia una forza politica ispirata alle idee di D'Eramo. Cosa farà? Nulla. Anche vincendo le elezioni col 98% dei voti, se si prendono sul serio le idee di D'Eramo, e dei tanti che la pensano come lui, non si può fare nulla, perché se non si vuole uscire da euro e UE il governo nazionale non ha praticamente strumenti per una politica anticapitalistica. L'unica cosa che il partito ispirato da D'Eramo, una volta al potere col 98% dei voti, può fare, è sollecitare l'azione del popolo europeo contro i ceti dirigenti europei. E poiché tale popolo non c'è e bisogna crearlo, un governo “deramista” dovrà impostare una serie di azioni politico-culturali che favoriscano la creazione del “popolo europeo” e aspettare, diciamo, una cinquantina d'anni perché tali azioni portino frutti.
Si vede con chiarezza che le tesi di D'Eramo semplicemente non rappresentano una proposta politica. Esse appartengono piuttosto alla categoria degli esorcismi. La sinistra “critica”, “radicale”, “non conformista” ecc. ecc. che ha nel “Manifesto” uno dei suoi punti di riferimento, rifiuta con drammatica ostinazione la necessità di mettere in primo piano, nel nostro paese, la questione della sovranità nazionale. Non avendo argomenti razionali contro la tesi della necessità del recupero della sovranità nazionale, è condannata a ripetere vuoti esorcismi come quello qui esaminato. E poiché la questione della sovranità nazionale è oggi uno dei due o tre temi politici fondamentali per una politica anticapitalista, chiudendosi nell'esorcismo la sinistra “radicale” si condanna alla più totale impotenza politica.

di Marino Badiale  

07 aprile 2012

La solita follia: costruire per crescere

Consiglio a tutti di leggere con assiduità il sito Eddyburg, dell’urbanista Edoardo Salzano. Ce ne fossero di urbanisti come lui ben lontani dalla logica oggi imperante del consumo di territorio a tutti i costi. Ebbene, proprio in un suo editoriale del 25 gennaio scorso trovo questa acuta considerazione: Pensavo che fosse uno scherzo quando ho letto il primo articolo del decreto sulle liberalizzazioni, inviatomi qui a Kigali (Rwanda) da un amico dall’Italia. Poi ho capito che era vero: si trattava dei provvedimenti per consentire la ripresa della “crescita” del paese. Tra questi mi ha particolarmente colpito l’abolizione, di fatto, della “pianificazione autoritaria: il colpo che non era riuscito a Maurizio Lupi e ai suoi alleati di destra e di sinistra. Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi». Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del Pil, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”. Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana. Mi riconosco il piccolissimo merito di non essermi unito al coro di coloro che inneggiavano a Monti, come al salvatore della patria, ed anzi di aver evidenziato che dal punto di vista ambientale, con le banche al governo, la situazione in Italia non poteva che peggiorare. I fatti mi stanno dando ragione, come evidenzia Salzano in questo suo breve commento. Purtroppo, questo decreto non fa che dare un’ulteriore accelerazione ad un processo già in atto da anni, e cioè quello della abbreviazione delle procedure volte ad autorizzare le opere private (o pubbliche) sul territorio, e dell’abdicazione della mano pubblica dal controllo su di esse. In pratica, tradotto: costruire perché costruire significa crescita. Un tempo si diceva che al capitalismo non importava delle sorti dell’umanità. Direi più propriamente che oggi al capitalista non importa neppure del futuro dei propri figli. di Fabio Balocco

09 aprile 2012

Esorcismi



Ragionamento:


1. Le lotte contro le misure antipopolari, che in questo periodo stanno prendendo i vari governi europei, hanno sempre una dimensione nazionale, mai una dimensione europea.
2. Al contrario, l'azione dei rappresentanti politici dell'attuale capitalismo regressivo (volta a “riportare la lancetta della storia a prima del 1929, a cancellare lo stato sociale e abrogare il compromesso fra capitale e lavoro”) ha una dimensione sovranazionale.
3. D'altronde, è un fatto che “l'unica leva di potere cui la sinistra può (…) puntare è il controllo dell'apparato dello stato nazionale”.
4. Inoltre, “l'euro è una moneta unica che paradossalmente ha diviso invece di unire: ha esaltato le differenze e le irriducibilità fra i vari paesi rendendo più difficile concordare le iniziative fra le diverse sinistre”.

Fin qui D'Eramo. Queste analisi sono ampiamente condivisibili. Quali conclusioni trarne? Chi legge questo blog conosce le nostre posizioni: occorre riconquistare la sovranità nazionale, e quindi anche economica, e usare il potere dello Stato per ricostruire la giustizia e la coesione sociale che trent'anni di neoliberismo hanno cancellato.
Come si può intuire (dopotutto, stiamo parlando di un editoriale del “Manifesto”), non è questa la conclusione che trae D'Eramo. La sua conclusione è che “quella nazionalistica è una tentazione illusoria e vana”. Occorre invece, sembra dire D'Eramo, che le sinistre portino la battaglia sul terreno dell'intera Unione Europea, per esempio organizzando uno sciopero generale europeo e invadendo le piazze dell'intera Unione.
Ora, noi riteniamo che la proposta di D'Eramo sia, essa sì, una “tentazione illusoria e vana”. Ma poiché essa rappresenta una idea di fondo condivisa, in una forma o nell'altra, da tutta o quasi la sinistra, ci sembra valga la pena di discuterla seriamente. E l'unico modo di discutere seriamente una tesi è prenderla sul serio. Prendiamo allora sul serio la tesi di D'Eramo. Egli chiede una lotta sociale e popolare a livello europeo contro le politiche economiche neoliberiste e antipopolari. Se questa proposta è una proposta seria, essa deve far riferimento ad un soggetto sociale che sia l'attore di questa lotta europea. Come già avevamo indicato in un saggio scritto assieme a Fabrizio Tringali, questa proposta richiede in sostanza che esista qualcosa come un “popolo europeo” che sia l'attore di una lotta popolare europea. A seconda delle preferenze ideologiche, al posto di “popolo europeo” si può naturalmente parlare di “proletariato europeo”, di “classe operaia europea”, di “ceti subalterni europei”: dal punto di vista del nostro ragionamento, non cambia molto.
Ma cosa significa “popolo europeo”? Quali sono le condizioni almeno necessarie (e forse nemmeno sufficienti) perché si possa parlare di “popolo europeo”? Proviamo ad elencarne qualcuna:

1.Una lingua comune. I vari soggetti di uno stesso popolo devono avere la possibilità di comunicare fra loro, con immediatezza, in una lingua comprensibile a tutti e che tutti padroneggiano.
2.Mescolanza di popolazioni: vi devono essere dei movimenti migratori diffusi che mescolino le varie popolazioni, in maniera che ci sia la possibilità di conoscenza reciproca a livello “molecolare” e si diffondano la solidarietà e la fiducia reciproca, anche attraverso il lavoro comune e la comune lotta contro le avversità. Basti pensare a come centocinquant'anni di storia italiana hanno portato gente del sud a vivere al nord e viceversa, cementando il senso di appartenenza comune.
3.Mezzi di informazione comuni: vi deve essere una base comune di conoscenza, di informazione, di giudizio sui fatti politici, e questa è possibile solo grazie a mezzi di informazione che siano letti o ascoltati da tutti (e per questo c'è ovviamente bisogno della lingua comune di cui al primo punto).

Perché è necessario un “popolo europeo” per concretizzare la proposta di D'Eramo? Perché, in sua mancanza, succede esattamente quello che egli descrive. Succede cioè che ciascun popolo europeo si muove e lotta per proprio conto, ed è inevitabile che sia così. Vi è infatti un ostacolo fortissimo contro la prospettiva, indicata da D'Eramo, di una lotta popolare europea, ed è il fatto che le misure regressive del governo portoghese, per fare un esempio, toccano ovviamente solo i portoghesi, non i francesi o i tedeschi o gli italiani. Questi ultimi non hanno quindi uno stimolo “materiale” diretto a lottare contro le misure regressive del governo portoghese. Il discorso può ovviamente esser ripetuto per tutti i diversi paesi. In ognuno di essi la crisi ha tempi specifici, e questo facilita la diffusione dell'idea che la crisi di ciascun paese sia solo sua. Oltre a questo, vi è la contrapposizione fra i paesi “virtuosi” del nord e quelli “viziosi” del sud, che sembra essere penetrata nel senso comune e rende ancora più difficile la formazione di una coscienza popolare europea.
Tutte queste difficoltà possono essere superate solo in presenza di una profonda solidarietà fra i popoli europei, e questo può avvenire solo grazie ad una autentica conoscenza reciproca, che non deriva da slogan o da iniziative superficiali e spettacolari come feste o manifestazioni, ma può essere solo il prodotto di una storia che abbia portato appunto a una lingua comune e a una certa mescolanza di popolazioni.
Se dunque la proposta di D'Eramo deve essere presa sul serio, essa può essere interpretata come la proposta della creazione di un popolo europeo, e quindi della realizzazione delle condizioni sopra descritte (ripetiamolo: condizioni necessarie ma forse nemmeno sufficienti). Ma si capisce bene che una simile proposta non è una proposta politica attuale: la creazione di un popolo europeo sufficientemente unito può essere forse un nobile ideale culturale sul quale iniziare oggi a lavorare, ma ovviamente rappresenta un prospettiva lontana nel futuro di almeno qualche decennio se non di qualche secolo.
Nel frattempo, di fronte all'attacco spaventoso scatenato dai ceti dirigenti europei contro i popoli europei, in attesa che si formi il popolo europeo in grado di battersi per i propri diritti a livello europeo, cosa si fa? Si fanno, ovviamente, le uniche cose che si possono fare: le lotte a livello nazionale, che è l'unico livello al quale vi siano oggi soggetti popolari in grado di lottare. Ma poiché il livello nazionale è perdente all'interno dell'euro e dell'UE, per i motivi che anche D'Eramo spiega, ecco che l'unica proposta concreta ed effettiva per lottare contro l'attacco capitalista è oggi l'uscita da euro e UE e il recupero della sovranità nazionale.
La sostanza della questione è piuttosto facile da capire, e per renderla ancora più chiara basta un semplice esperimento mentale: immaginiamo che una forza politica ispirata alle tesi che qui sosteniamo si presenti alle elezioni e le vinca col 98% dei voti, e possa quindi governare per una intera legislatura. Essa cercherà naturalmente di mettere in atto l'uscita da euro e UE. Nel fare questo si scontrerà contro grosse difficoltà, dovrà lottare e potrà essere sconfitta. Questo è quello che ovviamente può succedere ad ogni proposta politica seria.
Immaginiamo invece che a vincere le elezioni col 98% dei voti sia una forza politica ispirata alle idee di D'Eramo. Cosa farà? Nulla. Anche vincendo le elezioni col 98% dei voti, se si prendono sul serio le idee di D'Eramo, e dei tanti che la pensano come lui, non si può fare nulla, perché se non si vuole uscire da euro e UE il governo nazionale non ha praticamente strumenti per una politica anticapitalistica. L'unica cosa che il partito ispirato da D'Eramo, una volta al potere col 98% dei voti, può fare, è sollecitare l'azione del popolo europeo contro i ceti dirigenti europei. E poiché tale popolo non c'è e bisogna crearlo, un governo “deramista” dovrà impostare una serie di azioni politico-culturali che favoriscano la creazione del “popolo europeo” e aspettare, diciamo, una cinquantina d'anni perché tali azioni portino frutti.
Si vede con chiarezza che le tesi di D'Eramo semplicemente non rappresentano una proposta politica. Esse appartengono piuttosto alla categoria degli esorcismi. La sinistra “critica”, “radicale”, “non conformista” ecc. ecc. che ha nel “Manifesto” uno dei suoi punti di riferimento, rifiuta con drammatica ostinazione la necessità di mettere in primo piano, nel nostro paese, la questione della sovranità nazionale. Non avendo argomenti razionali contro la tesi della necessità del recupero della sovranità nazionale, è condannata a ripetere vuoti esorcismi come quello qui esaminato. E poiché la questione della sovranità nazionale è oggi uno dei due o tre temi politici fondamentali per una politica anticapitalista, chiudendosi nell'esorcismo la sinistra “radicale” si condanna alla più totale impotenza politica.

di Marino Badiale  

08 aprile 2012

Un augurio di 

Buona Pasqua


07 aprile 2012

La solita follia: costruire per crescere

Consiglio a tutti di leggere con assiduità il sito Eddyburg, dell’urbanista Edoardo Salzano. Ce ne fossero di urbanisti come lui ben lontani dalla logica oggi imperante del consumo di territorio a tutti i costi. Ebbene, proprio in un suo editoriale del 25 gennaio scorso trovo questa acuta considerazione: Pensavo che fosse uno scherzo quando ho letto il primo articolo del decreto sulle liberalizzazioni, inviatomi qui a Kigali (Rwanda) da un amico dall’Italia. Poi ho capito che era vero: si trattava dei provvedimenti per consentire la ripresa della “crescita” del paese. Tra questi mi ha particolarmente colpito l’abolizione, di fatto, della “pianificazione autoritaria: il colpo che non era riuscito a Maurizio Lupi e ai suoi alleati di destra e di sinistra. Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi». Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del Pil, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”. Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana. Mi riconosco il piccolissimo merito di non essermi unito al coro di coloro che inneggiavano a Monti, come al salvatore della patria, ed anzi di aver evidenziato che dal punto di vista ambientale, con le banche al governo, la situazione in Italia non poteva che peggiorare. I fatti mi stanno dando ragione, come evidenzia Salzano in questo suo breve commento. Purtroppo, questo decreto non fa che dare un’ulteriore accelerazione ad un processo già in atto da anni, e cioè quello della abbreviazione delle procedure volte ad autorizzare le opere private (o pubbliche) sul territorio, e dell’abdicazione della mano pubblica dal controllo su di esse. In pratica, tradotto: costruire perché costruire significa crescita. Un tempo si diceva che al capitalismo non importava delle sorti dell’umanità. Direi più propriamente che oggi al capitalista non importa neppure del futuro dei propri figli. di Fabio Balocco