25 aprile 2012
L'Argentina peronista nazionalizza l'industria petrolifera e butta fuori spagnoli e italiani
“Che bello vivere in un mondo dove non esiste più la guerra fredda. E sarebbe ancora più bello vivere in un mondo in cui non esiste neppure la guerra. Per il momento prendiamo atto che c’è la guerra calda e quindi ci adattiamo al territorio. Si tratta, pertanto, di interessi strategici nazionali, perché si tratta di difendere gli interessi della nazione e il futuro e il destino dei nostri figli e nipoti. Così si costruisce la base della democrazia diretta. E’ bene che chi ha orecchie senta molto bene, perché si volta pagina. Le nostre risorse, la nostra ricchezza, la nostra industria, i nostri prodotti, sono prima di tutto: nostri. Cioè degli imprenditori e dei lavoratori. Della nazione. E lo Stato ne garantisce la sovranità e li cautela”.
Sembra un bollettino di guerra, e infatti lo è.
E’ la prima parte di un discorso ufficiale della presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, nel quale, ieri mattina 16 aprile, ha annunciato l’espropriazione e la nazionalizzazione definitiva dell’azienda “Yacimientos Petroliferos Fiscales” meglio nota come YPF, la cui contrastata e discussa gestione apparteneva alla iberica Repsol, di proprietà del governo spagnolo e gestita da una holding europea finanziata dalla BCE attraverso la compartecipazione di Banco Santander, Banco de Bilbao, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Milano, Societe Generale, Credit Agricole, Eni, Deutsche Bank.
“Un gravissimo colpo per l’economia spagnola e per l’Europa, un atto incivile che noi protestiamo e che porteremo sul tavolo della prossima riunione giovedì 19 aprile del Fondo Monetario Internazionale” ha dichiarato Rubèn Soquera di Repsol a Madrid.
Axel Kicillov, vice-ministro dell’economia è ufficialmente la persona incaricata dal punto di vista tecnico-fiscale a gestire il passaggio delle quote, di cui il 51% andrà al Banco de la Naciòn e il 49% andrà alle regioni nelle quali si trovano i pozzi petroliferi. Il prezzo stabilito dagli spagnoli si aggira sui 18 miliardi di euro, mentre il calcolo effettuato dagli argentini (va da sé) è di molto inferiore e il prezzo definitivo sarà l’unico punto sul quale si svolgerà la discussione. E’ stata presentata, infatti, una legge in parlamento che verrà approvata con una maggioranza totale, intorno all’88%: tutti i partiti eletti l’appoggiano.
Julio de Vido, ministro della Pianificazione sociale e dello sviluppo economico ha dichiarato: “per cinquecento anni gli europei, prima con i conquistadores, poi con le banche italiane, poi con l’esercito inglese e infine con la finanza speculativa gestita dalla BCE e da Wall Street, hanno rubato al popolo argentino le risorse naturali di oro, argento, petrolio, zucchero, limoni, acqua, soia, pellame, per costruire la propria ricchezza spropositata con un’ottica schiavista e miope, tant’è vero che l’Europa sta affondando schiacciata in una crisi che non ha sbocchi. E’ arrivato il momento che le nazioni si riapproprino della sovranità nazionale dando al popolo la proprietà di ciò che è loro: i prodotti del territorio nazionale. Lo Stato si fa garante e gestisce le risorse come bene comune da condividere per avere i soldi e lanciare un piano di grandi massicci investimenti per la costruzione di lavoro, occupazione e ripresa”.
E’ con questo atto (meticolosamente preparato e -con grande effetto politico- presentato pubblicamente alla vigilia dell’incontro internazionale di Washington del Fondo Monetario Internazionale) che la Kirchner si prepara al suo viaggio in Usa, dove va a scontrarsi con il suo nemico pubblico n.1: Christine Lagarde, presidente del Fondo.
L’annuncio ha gettato nello scompiglio la borsa di Madrid, perché la Repsol perde l’8,2% e la società italiana Tenaris quotata a Milano va sotto del 4,5%, essendo la Tenaris impegnata come società delegata alla tecnica di estrazione e raffinazione del greggio.
Attraverso quest’atto, l’Argentina ha calcolato che risparmierà 8 miliardi di euro nei soli sei mesi del 2012 e 22 miliardi nel 2013. I 30 miliardi così ottenuti verranno investiti per la costruzione di grandi opere di infrastruttura nelle sei regioni dove c’è petrolio. In un messaggio a sorpresa (annunciato soltanto qualche ora prima) la presidente ci ha tenuto a comunicare la scelta direttamente alla nazione in un messaggio diramato su tutte le televisioni, sia in terrestre che in satellitare digitale. Il progetto è stato definito "Soberanía hidrocarburífera de la República Argentina", (sovranità nella gestione degli idrocarburi della Repubblica Argentina) e sostiene che “l’obiettivo primario consiste nell’essere totalmente autosufficienti nel settore energetico per garantire la libertà, l’indipendenza e il diritto all’esercizio della sovranità dello Stato centrale. Ci tengo a precisare che il fine ultimo non consiste nella nazionalizzazione bensì nel recupero immediato della sovranità e controllo delle risorse prodotte dai singoli territori nazionali”.
L’impatto di tale atto ha prodotto una gigantesca scossa tellurica nel settore economico in tutto il continente, soprattutto nelle nazioni più povere del centro-america, Ecuador, Guatemala, Honduras, Costa Rica, dove le multinazionali statunitensi e italiane sono proprietarie del 95% della produzione locale di banane, mangos, ananas, per produrre i succhi di frutta che l’occidente beve e che poi distribuisce con i propri marchi nazionali.
A conclusione del discorso, la Kirchner, in conferenza stampa ci ha tenuto ad aggiungere la chicca demagogica che sta diventando il fiore all’occhiello del Sudamerica e del Mercosur (sarebbe il corrispondente sudamericano dell’Unione Europea: Argentina, Cile, Bolivia, Paraguay, Uruguay, Perù, Brasile e Venezuela) ricordando con enfasi che “l’Argentina è per il momento l’unico ma speriamo soltanto il primo di una lunga lista di paesi al mondo che non importa nulla dalla Cina perché noi produciamo in patria. Nel nostro territorio non esiste nessun manufatto sul quale è scritto made in China: noi siamo umanamente, politicamente e culturalmente contro lo schiavismo che abbiamo sempre combattuto e seguiteremo a combattere sempre. Siamo per l’autodeterminazione dei popoli e per il ripristino della sovranità nazionale”.
Due giorni fa, il ragionier ultra-liberista Mario Monti ha fatto sapere che non parteciperà alla riunione internazionale del Fondo Monetario.
In Argentina (e in tutto il Sudamerica) la notizia è stata abbondantemente commentata come una manifestazione di debolezza e vigliaccheria dell’Italia come nazione.
“Hanno paura di presentarsi a un dibattito internazionale. Sanno di essere esposti. E’ iniziata la rivolta degli schiavi. E’ la fine di un’epoca. Monti e i suoi amici possono esibire soltanto e unicamente le impietose cifre di un colossale fallimento economico, politico, culturale che sta mettendo in ginocchio il Mediterraneo uccidendone la grande civiltà. Ma soprattutto esistenziale. In Europa si suicidano. Da noi si va a ballare il tango esaltati dal senso ritrovato di una identità nazionale”. Così si legge nell’editoriale di Pagina ½, la più radicale pubblicazione argentina che per lunghi anni è stata la fiera opposizione intellettuale contro la Kirchner ma che ha cominciato ad appoggiarla da un anno a questa parte, da quando la presidente ha scelto e deciso di andare da sola all’attacco del Fondo Monetario Internazionale e della BCE: E’ proprio guerra dichiarata.
Notoriamente vezzosa, avida di scarpe e costosi abiti dei migliori sarti francesi, la Kirchner (che è femminista) intervenendo a un seminario sul lavoro femminile e sulla parità di genere dei salari, fortemente sollecitata a dare un’opinione sulla Lagarde, ha detto: “Ragazze, non pungolatemi troppo. Ciascuno fa le proprie scelte. Posso dire soltanto una cosa, ma è una mia opinione: non sa vestirsi e non ha gusto”.
Il che, detto e inviato a una aristocratica signora nata e cresciuta a Parigi, è davvero clamoroso.
Non vi è dubbio: è iniziata la rivolta degli schiavi.
Come dire. Il sud del mondo bussa alla porta del ricco settentrione..
E non è certo un caso che tutto ciò avvenga nella più meridionale nazione del pianeta Terra, più sotto c’è soltanto il polo sud.
Ma per il momento, gli iceberg sembrano aggirarsi nel Mar Mediterraneo.
di Sergio Di Cori Modigliani
24 aprile 2012
Alle radici della crisi, seguendo i derivati
Il prolungarsi della crisi economico-finanziaria fa affiorare molte informazioni su cosa è realmente successo a nostra insaputa negli ultimi venti anni di globalizzazione finanziaria. Siamo quindi molto vicini alla verità ed il fatto positivo è che ci stiamo avvicinando ad essa facendo a meno di quegli "esperti" economisti che, come di recente ha denunciato efficacemente Le Monde Diplomatique, sono molto spesso a libro paga proprio di quei centri della speculazione sui quali vengono loro richiesti pareri obiettivi (1).
Questa verità fattuale è essenziale per il futuro: infatti, chiunque pensasse di poter cambiare le cose senza conoscerle, si troverebbe immediatamente a servire gli stessi master of the universe, i padroni dell'universo, di cui abbiamo spesso parlato.
Come nel caso dei mutui subprime americani, abbiamo pensato di seguire la pista degli ormai famosi "derivati", vale a dire quei titoli finanziari il cui valore si basa e quindi "deriva" da un qualsiasi cosiddetto "sottostante", che può essere qualsiasi cosa abbia un valore: un bene materiale o una materia prima, un titolo finanziario, una valuta o persino un altro derivato.
Con quello che abbiamo trovato, possiamo porre alcune semplici ma fondamentali domande e cercare delle risposte.
Perché i politici non mettono fine alla speculazione dei "mercati" semplicemente vietando o regolamentando severamente i suoi principali strumenti?
L'agenzia di stampa specializzata americana Bloomberg lo scorso gennaio ha diffuso la notizia secondo cui la banca d'affari Morgan Stanley, uno dei "padroni dell'universo", ha deciso di ridurre la propria esposizione in derivati basati su titoli di Stato italiani da 4,9 a 1,5 miliardi di dollari: 3,4 miliardi di dollari di nostri titoli non sono stati quindi collocati, con l'assenso del Tesoro italiano, che ha lasciato scadere questo contratto, pagando intorno ai 2,5 miliardi di euro (2).
Si è poi appreso che lo swap, vale a dire un derivato fuori dal mercato regolamentato, risale al 1994 e lasciava alla banca d'affari americana la facoltà di rescinderlo unilateralmente, una clausola che ovviamente poneva lo Stato italiano in una posizione di debolezza. Altro però non ci è stato detto sulle modalità e finalità di questa operazione. Giustamente Umberto Cherubini nel suo blog, si interroga sullo scopo di questa operazione: "Coprire il rischio di tasso? Coprire il rischio derivante dai cambi? Allungare le scadenze dei pagamenti di interesse? Vendere assicurazione a Morgan Stanley per fare cassa?" (3).
Non è dato saperlo, e così scopriamo che di queste operazioni sul nostro debito pubblico, vale a dire sul debito di tutti noi cittadini di questa Repubblica, i nostri organi di governo non hanno mai dato informazione ai più diretti interessati. E non basta, perché solo dopo alcune interrogazioni parlamentari, successive alla notizia dell'agenzia americana, il Tesoro è stato costretto a comunicare che il debito pubblico italiano è per ben 160 miliardi di euro costituito da strumenti "derivati", quindi uguali o assimilabili a quello da cui Morgan Stanley ha voluto sfilarsi nelle scorse settimane.
Tutte le maggiori banche d'affari sono attive in questo tipo di operazioni sull'Italia: Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America, Citigroup e JP Morgan.
Lavorando sulle informazioni di stampa, troviamo anche che, oltre al livello centrale, ben 664 enti pubblici, tra cui 18 regioni, 42 province, 45 capoluoghi e 559 comuni avrebbero in pancia "derivati" per oltre 35 miliardi di euro, circa 1/3 del debito complessivo accumulato dagli enti locali ai dati 2009. Le perdite conseguenti all'adozione di questi strumenti finanziari per i soli enti pubblici appena ricordati potrebbero arrivare a superare i 10 miliardi di euro, su di un totale complessivo che, ad ottobre 2011, era stimato per l'Italia in 52,2 miliardi, una cifra equivalente a oltre il 60% del costo delle pesantissime manovre cui gli Italiani sono stati sottoposti nel 2011 (4).
Per la banca d'affari le cose sono andate diversamente: "Morgan Stanley - riferisce sempre Bloomberg, ha guadagnato 600 milioni di dollari nel terzo trimestre [2011] in conseguenza dello scioglimento dei contratti con l'Italia. Il guadagno è dovuto all'annullamento dei costi sostenuti in precedenza nel corso dell'anno a causa del rischio che il Paese non pagasse l'intero importo del debito, ha dichiarato il 19 gennaio in un'intervista Ruth Porat, direttore finanziario".
Si comprende a questo punto benissimo perché la cosiddetta politica non è in grado di mettere al bando questi strumenti finanziari dall'effetto devastante sull'economia reale: semplicemente perché le classi politiche europee attuali sono "garanti" delle migliaia di contratti di questo tipo che, almeno a partire dagli anni Novanta, sono stati stipulati con i "padroni dell'universo".
Le politiche di rigore nei confronti dei cittadini sono proprio ciò che, dopo avere evitato loro le perdite dovute alle speculazioni sui subprime, consente ancora lauti guadagni alle grandi banche d'affari.
Su cosa si basa il potere dei grandi centri finanziari che permette loro di condizionare le scelte politiche degli Stati?
Continuando ad organizzare le notizie di stampa sui "derivati", arriviamo a comprendere meglio il modus operandi dei "padroni dell'universo", rispetto alle origini più remote della crisi in Europa.
Ci aiuta il caso più eclatante, quello della Grecia: quando nel 2000-2002 quel Paese si preparava ad entrare nell'area euro, doveva anzitutto mettersi in riga con le regole di bilancio stabilite nel 1996 dall'Unione Europea. "Nel febbraio 2002, la Commissione Europea mise in rilievo che le previsioni relative al deficit della Grecia si basavano principalmente sul conseguimento di riduzioni del costo degli interessi", ricostruiva già nel 2003 Nick Dunbar su Risk Magazine (5).
Entra in scena a questo punto un altro dei giganti della finanza mondializzata, Goldman Sachs. Grazie alle strette relazioni con Goldman Sachs del responsabile del debito pubblico ellenico, Christopher Sardelis, ed alla dinamica numero uno dell'ufficio vendite di Goldman Sachs di Londra, Antigone Loudiadis, viene messo in piedi un importante contratto di collocazione di "derivati", del valore di 10 miliardi di dollari, che si dimostrava perfetto per gli scopi di entrambe le controparti: grazie ad uno swap opportunamente organizzato, la Grecia iscrive un nuovo debito in euro, escludendo quindi momentaneamente dal bilancio il vecchio debito in dollari e yen, dando inizio a quel mascheramento delle reali dimensione del proprio deficit di cui i più si sarebbero accorti solo nel 2010.
In tal modo, "Goldman Sachs intasca la sua sostanziosa commissione e alimenta una volta di più la sua reputazione di ottimo amministratore del debito sovrano", commenta Le Monde (6): la società americana cederà più tardi il contratto alla tedesca Deutsche Pfandbriefe Bank (Depfa).
Lo scopo dell'acquisizione degli swap dalle banche d'affari americane da parte del Tesoro italiano negli anni Novanta non era molto diverso da quello della Grecia: sulla base del meccanismo attivato in Grecia, capiamo che doveva servire a dimezzare artificiosamente il nostro disavanzo di spesa per poter rientrare nei parametri comunitari.
Si è quindi creata una fondamentale convergenza di interessi fra gli obiettivi speculativi delle banche d'affari mondializzate e le esigenze di politica economica delle classi dirigenti europee, mediate da una serie di figure tecniche: non a caso Le Monde ha riesumato l'episodio della Grecia lo scorso novembre 2011, per sferrare un attacco al vetriolo contro Monti Draghi e Papademos, uomini che hanno fatto carriera con Goldman Sachs e che, insieme a numerosi altri, rivestono ora posizioni chiave nella politica europea.
Sono in effetti proprio loro gli "onesti sensali" che il rovinoso dilagare della crisi ha richiesto assumessero dirette responsabilità di governo tecnico, vale a dire ruoli nei quali politica ed economia si unificano patologicamente, costituendo nelle democrazie occidentali un nuovo potere, non sottoposto ad alcun effettivo controllo democratico.
È davvero l'euro l'origine di tutti i mali in Europa?
Possiamo contribuire ora a fare chiarezza anche in tema di euro, sul quale le polemiche sono tanto accese quanto in genere male impostate.
Notiamo infatti, analizzando queste vicende, che l'origine del problema attuale non è certo l'euro, tanto meno l'idea di una unione monetaria. Il problema, oltreché nella concezione della moneta tipica del capitalismo finanziario (una moneta che deve creare debito), sta invece nelle regole definite per l'unificazione monetaria dalla burocrazia comunitaria, che culturalmente si abbevera alle stesse fonti degli esperti delle grandi società finanziarie internazionali.
Da lungo tempo, ad esempio, Gustavo Piga ha denunciato in modo tecnicamente assai accurato le modalità attraverso le quali la stessa Unione Europea ha lasciato aperto il varco alla speculazione finanziaria, dietro un apparente rigore: ad esempio con ESA95, il manuale di ben 243 pagine della Commissione Europea e di Eurostat sui deficit pubblici e sulla contabilizzazione dei debiti pubblici, che ha di fatto permesso, tollerando proprio l'utilizzo massiccio degli strumenti finanziari derivati, di aggirare le teoricamente ferree regole del Patto di Crescita e Stabilità del 1996 (7).
Ora ci rendiamo conto perché l'Ecofin, il gruppo dei ministri finanziari dell'Unione, non sia stato capace nemmeno qualche settimana fa, nonostante se ne parli da anni, di trovare un accordo sull'introduzione della cosiddetta Tobin Tax o, più correttamente, sulla Financial Transaction Tax (FTT), una tassa che, si noti, potrebbe fruttare dai 16 ai 43 miliardi euro annui, una cifra non disprezzabile di questi tempi.
Come funzionerebbe la FTT? "Essa si applica a tutte le transazioni finanziarie, cioè ad acquisti o vendite di obbligazioni o azioni ma anche di opzioni, futures o derivati, quando almeno una delle parti - banca, assicurazione, fondo, società-veicolo - abbia sede nella Ue o nel Paese che adotti la tassa. Non è insomma una tassa che vale solo per le operazioni di borsa; vale anche per i contratti bilaterali come i derivati".(8)
Come si vede, sono in ballo ancora i derivati, questo gigantesco mercato speculativo che a livello mondiale vale almeno 700.000 miliardi di dollari e che costituisce la massa di debito con cui i master of the universe sono in grado di condizionare, con operazioni come quelle che abbiamo visto, la sovranità e l'autonomia di Paesi delle dimensioni e delle capacità produttive dell'Italia.
Il problema non è dunque la moneta unica, ma sono gli uomini e l'ideologia che la guidano. Vogliamo una controprova?
Chi sono oggi gli uomini che più attivamente ed autorevolmente animano il fronte dei cosiddetti euroscettici? Sono ad esempio rappresentanti della City londinese, come quelli raccolti nel gruppo Open Europe, di cui merita analizzare attentamente il sito: è sufficiente dargli uno sguardo per trovare fra gli aderenti i massimi esponenti del mondo finanziario ed imprenditoriale inglese e basta ricordare il loro presidente, Rodney Leach, ora Lord Leach of Fairford, direttore di Jardine Matheson Holdings, ma soprattutto primo non-family partner del gruppo Rothschild (9).
A cosa servono le politiche di rigore che stanno soffocando l'economia reale?
Anche in questo caso, possiamo basarci su di un recentissimo esempio, quello dello Stato della California negli Usa, arrivato al fallimento nel 2009 a causa della crisi dei subprime.
Cosa è accaduto poi? Il deficit pubblico è sceso dai 25 miliardi di dollari all'inizio del 2011 ai 9 di oggi, secondo un recentissimo articolo del Sole 24 Ore, grazie al "pugno di ferro" del governatore Jerry Brown, vale a dire "mediante tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse che non hanno risparmiato la scuola". Per annullare del tutto il deficit, il governatore si propone ora "un nuovo aumento temporaneo delle tasse sul reddito e sui consumi" ovvero, nel caso che un apposito referendum non dia esito favorevole, "tagli automatici alla spesa pubblica per 5 miliardi di dollari, che non risparmierebbero alcun settore" (10). Nel frattempo, la California torna ad emettere nuovi bond, ovviamente.
Così come negli Usa "le emissioni di titoli ad alto rischio, ma anche ad alto rendimento, sono tornate a livelli pre-crisi ed ora si stanno diffondendo anche al retail, senza troppe distinzioni" (11). Vale a dire, dopo avere spremuto i contribuenti, per rifinanziare le banche e gli Stati prossimi al collasso, le scommesse possono ricominciare, grazie alla creazione di nuovo debito personale su di un'altra generazione. Tra i protagonisti di questa nuova stagione, sono sempre le soite le banche d'affari, come Morgan Stanley e Goldman Sachs.
L'esistenza ed il lavoro degli individui e delle società umane diventano in questo modo, lo strumento che perpetua i guadagni ed il potere dei "padroni dell'universo". Questo è il progetto in corso anche per il nostro Paese.
Cosa è possibile fare?
Chiunque volesse intraprendere un'effettiva rimessa in ordine dell'economia reale, potrebbe partire da alcuni semplici punti:
chiedere ai governi nazionali ed alla Commissione Europea di rendere pubbliche e controllabili tutte le transazioni finanziarie in essere che riguardino il debito pubblico
chiedere ai governi nazionali di introdurre entro 2 mesi la FTT, indipendentemente dalla sua approvazione generalizzata in Europa, trattandosi di una misura urgente per il risanamento economico
chiedere ai governi nazionali di regolamentare gli strumenti finanziari, ponendo fuori legge entro 12 mesi i prodotti finanziari derivati
chiedere ai governi nazionali di operare a livello comunitario affinché il ruolo delle agenzie di rating sia trasferito entro 12 mesi ad un'agenzia internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite
Sappiamo bene infatti che fin dai prossimi giorni assisteremo ad un nuovo attacco a fondo della speculazione ai Paesi mediterranei, Spagna ed Italia in testa. Comincia ad essere necessario farsi trovare ben preparati, i "tecnici" probabilmente non basteranno più questa volta.
di Gaetano Colonna
23 aprile 2012
Monti tassa, gioisce e l’Italia va a rotoli.
Tra le tante manchevolezze del non più santissimo premier Mario Monti, una risulta colossale, eppure quasi mai evocata: il taglio della spesa pubblica. Fatto salvo Oscar Giannino, che conduce una battaglia quotidiana su Radio 24, e poche altre firme, la grande stampa nazionale scansa accuratamente l’argomento che dovrebbe essere al centro della riflessione pubblica e che invece passa sottotraccia. Perchè è scomodo e potrebbe provocare più di un imbarazzo al non più santissimo e talvolta un po’ smarrito Mario Monti. Allora meglio parlare d’altro.
Sia chiaro: non parlo di tagli indiscriminati, ma di riforme precise volte a ridurre e possibilmente eliminare sprechi che sono stati documentati decine di volte, nei comuni morosi, in certe zone del Meridione, negli enti pubblici desueti (a sud come a nord), nelle inefficienze dell’amministrazione pubblica, nella sanità, eccetera eccetera.
Ma affrontare questi temi è impopolare, richiede doti da vero statista, quasi una vocazione al martirio. La via è scomoda e il nostro premier si guarda bene dal praticarla. Da eurodirigista quale in realtà è nell’animo, preferisce usare la scure delle tasse e le politiche punitive che in parte sono necessarie, ma che finiscono per scoraggiare, anzi avvilire, l’Italia migliore, degli industriali, dei professionisti, che produce e continua a battersi, eroicamente.
Se anzichè frequentare solo le élites, il non più santissimo ma sempre glaciale Mario Monti, parlasse con la gente normale, se frequentasse la piccola e la media borghesia, si accorgerebbe dello scoramento che attraversa il Paese, ma è chiedergli troppo.
Lui non si abbassa. Lui tassa, gioisce e l’Italia va a rotoli.
di Marcello Foa
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25 aprile 2012
L'Argentina peronista nazionalizza l'industria petrolifera e butta fuori spagnoli e italiani
“Che bello vivere in un mondo dove non esiste più la guerra fredda. E sarebbe ancora più bello vivere in un mondo in cui non esiste neppure la guerra. Per il momento prendiamo atto che c’è la guerra calda e quindi ci adattiamo al territorio. Si tratta, pertanto, di interessi strategici nazionali, perché si tratta di difendere gli interessi della nazione e il futuro e il destino dei nostri figli e nipoti. Così si costruisce la base della democrazia diretta. E’ bene che chi ha orecchie senta molto bene, perché si volta pagina. Le nostre risorse, la nostra ricchezza, la nostra industria, i nostri prodotti, sono prima di tutto: nostri. Cioè degli imprenditori e dei lavoratori. Della nazione. E lo Stato ne garantisce la sovranità e li cautela”.
Sembra un bollettino di guerra, e infatti lo è.
E’ la prima parte di un discorso ufficiale della presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, nel quale, ieri mattina 16 aprile, ha annunciato l’espropriazione e la nazionalizzazione definitiva dell’azienda “Yacimientos Petroliferos Fiscales” meglio nota come YPF, la cui contrastata e discussa gestione apparteneva alla iberica Repsol, di proprietà del governo spagnolo e gestita da una holding europea finanziata dalla BCE attraverso la compartecipazione di Banco Santander, Banco de Bilbao, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Milano, Societe Generale, Credit Agricole, Eni, Deutsche Bank.
“Un gravissimo colpo per l’economia spagnola e per l’Europa, un atto incivile che noi protestiamo e che porteremo sul tavolo della prossima riunione giovedì 19 aprile del Fondo Monetario Internazionale” ha dichiarato Rubèn Soquera di Repsol a Madrid.
Axel Kicillov, vice-ministro dell’economia è ufficialmente la persona incaricata dal punto di vista tecnico-fiscale a gestire il passaggio delle quote, di cui il 51% andrà al Banco de la Naciòn e il 49% andrà alle regioni nelle quali si trovano i pozzi petroliferi. Il prezzo stabilito dagli spagnoli si aggira sui 18 miliardi di euro, mentre il calcolo effettuato dagli argentini (va da sé) è di molto inferiore e il prezzo definitivo sarà l’unico punto sul quale si svolgerà la discussione. E’ stata presentata, infatti, una legge in parlamento che verrà approvata con una maggioranza totale, intorno all’88%: tutti i partiti eletti l’appoggiano.
Julio de Vido, ministro della Pianificazione sociale e dello sviluppo economico ha dichiarato: “per cinquecento anni gli europei, prima con i conquistadores, poi con le banche italiane, poi con l’esercito inglese e infine con la finanza speculativa gestita dalla BCE e da Wall Street, hanno rubato al popolo argentino le risorse naturali di oro, argento, petrolio, zucchero, limoni, acqua, soia, pellame, per costruire la propria ricchezza spropositata con un’ottica schiavista e miope, tant’è vero che l’Europa sta affondando schiacciata in una crisi che non ha sbocchi. E’ arrivato il momento che le nazioni si riapproprino della sovranità nazionale dando al popolo la proprietà di ciò che è loro: i prodotti del territorio nazionale. Lo Stato si fa garante e gestisce le risorse come bene comune da condividere per avere i soldi e lanciare un piano di grandi massicci investimenti per la costruzione di lavoro, occupazione e ripresa”.
E’ con questo atto (meticolosamente preparato e -con grande effetto politico- presentato pubblicamente alla vigilia dell’incontro internazionale di Washington del Fondo Monetario Internazionale) che la Kirchner si prepara al suo viaggio in Usa, dove va a scontrarsi con il suo nemico pubblico n.1: Christine Lagarde, presidente del Fondo.
L’annuncio ha gettato nello scompiglio la borsa di Madrid, perché la Repsol perde l’8,2% e la società italiana Tenaris quotata a Milano va sotto del 4,5%, essendo la Tenaris impegnata come società delegata alla tecnica di estrazione e raffinazione del greggio.
Attraverso quest’atto, l’Argentina ha calcolato che risparmierà 8 miliardi di euro nei soli sei mesi del 2012 e 22 miliardi nel 2013. I 30 miliardi così ottenuti verranno investiti per la costruzione di grandi opere di infrastruttura nelle sei regioni dove c’è petrolio. In un messaggio a sorpresa (annunciato soltanto qualche ora prima) la presidente ci ha tenuto a comunicare la scelta direttamente alla nazione in un messaggio diramato su tutte le televisioni, sia in terrestre che in satellitare digitale. Il progetto è stato definito "Soberanía hidrocarburífera de la República Argentina", (sovranità nella gestione degli idrocarburi della Repubblica Argentina) e sostiene che “l’obiettivo primario consiste nell’essere totalmente autosufficienti nel settore energetico per garantire la libertà, l’indipendenza e il diritto all’esercizio della sovranità dello Stato centrale. Ci tengo a precisare che il fine ultimo non consiste nella nazionalizzazione bensì nel recupero immediato della sovranità e controllo delle risorse prodotte dai singoli territori nazionali”.
L’impatto di tale atto ha prodotto una gigantesca scossa tellurica nel settore economico in tutto il continente, soprattutto nelle nazioni più povere del centro-america, Ecuador, Guatemala, Honduras, Costa Rica, dove le multinazionali statunitensi e italiane sono proprietarie del 95% della produzione locale di banane, mangos, ananas, per produrre i succhi di frutta che l’occidente beve e che poi distribuisce con i propri marchi nazionali.
A conclusione del discorso, la Kirchner, in conferenza stampa ci ha tenuto ad aggiungere la chicca demagogica che sta diventando il fiore all’occhiello del Sudamerica e del Mercosur (sarebbe il corrispondente sudamericano dell’Unione Europea: Argentina, Cile, Bolivia, Paraguay, Uruguay, Perù, Brasile e Venezuela) ricordando con enfasi che “l’Argentina è per il momento l’unico ma speriamo soltanto il primo di una lunga lista di paesi al mondo che non importa nulla dalla Cina perché noi produciamo in patria. Nel nostro territorio non esiste nessun manufatto sul quale è scritto made in China: noi siamo umanamente, politicamente e culturalmente contro lo schiavismo che abbiamo sempre combattuto e seguiteremo a combattere sempre. Siamo per l’autodeterminazione dei popoli e per il ripristino della sovranità nazionale”.
Due giorni fa, il ragionier ultra-liberista Mario Monti ha fatto sapere che non parteciperà alla riunione internazionale del Fondo Monetario.
In Argentina (e in tutto il Sudamerica) la notizia è stata abbondantemente commentata come una manifestazione di debolezza e vigliaccheria dell’Italia come nazione.
“Hanno paura di presentarsi a un dibattito internazionale. Sanno di essere esposti. E’ iniziata la rivolta degli schiavi. E’ la fine di un’epoca. Monti e i suoi amici possono esibire soltanto e unicamente le impietose cifre di un colossale fallimento economico, politico, culturale che sta mettendo in ginocchio il Mediterraneo uccidendone la grande civiltà. Ma soprattutto esistenziale. In Europa si suicidano. Da noi si va a ballare il tango esaltati dal senso ritrovato di una identità nazionale”. Così si legge nell’editoriale di Pagina ½, la più radicale pubblicazione argentina che per lunghi anni è stata la fiera opposizione intellettuale contro la Kirchner ma che ha cominciato ad appoggiarla da un anno a questa parte, da quando la presidente ha scelto e deciso di andare da sola all’attacco del Fondo Monetario Internazionale e della BCE: E’ proprio guerra dichiarata.
Notoriamente vezzosa, avida di scarpe e costosi abiti dei migliori sarti francesi, la Kirchner (che è femminista) intervenendo a un seminario sul lavoro femminile e sulla parità di genere dei salari, fortemente sollecitata a dare un’opinione sulla Lagarde, ha detto: “Ragazze, non pungolatemi troppo. Ciascuno fa le proprie scelte. Posso dire soltanto una cosa, ma è una mia opinione: non sa vestirsi e non ha gusto”.
Il che, detto e inviato a una aristocratica signora nata e cresciuta a Parigi, è davvero clamoroso.
Non vi è dubbio: è iniziata la rivolta degli schiavi.
Come dire. Il sud del mondo bussa alla porta del ricco settentrione..
E non è certo un caso che tutto ciò avvenga nella più meridionale nazione del pianeta Terra, più sotto c’è soltanto il polo sud.
Ma per il momento, gli iceberg sembrano aggirarsi nel Mar Mediterraneo.
di Sergio Di Cori Modigliani
24 aprile 2012
Alle radici della crisi, seguendo i derivati
Il prolungarsi della crisi economico-finanziaria fa affiorare molte informazioni su cosa è realmente successo a nostra insaputa negli ultimi venti anni di globalizzazione finanziaria. Siamo quindi molto vicini alla verità ed il fatto positivo è che ci stiamo avvicinando ad essa facendo a meno di quegli "esperti" economisti che, come di recente ha denunciato efficacemente Le Monde Diplomatique, sono molto spesso a libro paga proprio di quei centri della speculazione sui quali vengono loro richiesti pareri obiettivi (1).
Questa verità fattuale è essenziale per il futuro: infatti, chiunque pensasse di poter cambiare le cose senza conoscerle, si troverebbe immediatamente a servire gli stessi master of the universe, i padroni dell'universo, di cui abbiamo spesso parlato.
Come nel caso dei mutui subprime americani, abbiamo pensato di seguire la pista degli ormai famosi "derivati", vale a dire quei titoli finanziari il cui valore si basa e quindi "deriva" da un qualsiasi cosiddetto "sottostante", che può essere qualsiasi cosa abbia un valore: un bene materiale o una materia prima, un titolo finanziario, una valuta o persino un altro derivato.
Con quello che abbiamo trovato, possiamo porre alcune semplici ma fondamentali domande e cercare delle risposte.
Perché i politici non mettono fine alla speculazione dei "mercati" semplicemente vietando o regolamentando severamente i suoi principali strumenti?
L'agenzia di stampa specializzata americana Bloomberg lo scorso gennaio ha diffuso la notizia secondo cui la banca d'affari Morgan Stanley, uno dei "padroni dell'universo", ha deciso di ridurre la propria esposizione in derivati basati su titoli di Stato italiani da 4,9 a 1,5 miliardi di dollari: 3,4 miliardi di dollari di nostri titoli non sono stati quindi collocati, con l'assenso del Tesoro italiano, che ha lasciato scadere questo contratto, pagando intorno ai 2,5 miliardi di euro (2).
Si è poi appreso che lo swap, vale a dire un derivato fuori dal mercato regolamentato, risale al 1994 e lasciava alla banca d'affari americana la facoltà di rescinderlo unilateralmente, una clausola che ovviamente poneva lo Stato italiano in una posizione di debolezza. Altro però non ci è stato detto sulle modalità e finalità di questa operazione. Giustamente Umberto Cherubini nel suo blog, si interroga sullo scopo di questa operazione: "Coprire il rischio di tasso? Coprire il rischio derivante dai cambi? Allungare le scadenze dei pagamenti di interesse? Vendere assicurazione a Morgan Stanley per fare cassa?" (3).
Non è dato saperlo, e così scopriamo che di queste operazioni sul nostro debito pubblico, vale a dire sul debito di tutti noi cittadini di questa Repubblica, i nostri organi di governo non hanno mai dato informazione ai più diretti interessati. E non basta, perché solo dopo alcune interrogazioni parlamentari, successive alla notizia dell'agenzia americana, il Tesoro è stato costretto a comunicare che il debito pubblico italiano è per ben 160 miliardi di euro costituito da strumenti "derivati", quindi uguali o assimilabili a quello da cui Morgan Stanley ha voluto sfilarsi nelle scorse settimane.
Tutte le maggiori banche d'affari sono attive in questo tipo di operazioni sull'Italia: Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America, Citigroup e JP Morgan.
Lavorando sulle informazioni di stampa, troviamo anche che, oltre al livello centrale, ben 664 enti pubblici, tra cui 18 regioni, 42 province, 45 capoluoghi e 559 comuni avrebbero in pancia "derivati" per oltre 35 miliardi di euro, circa 1/3 del debito complessivo accumulato dagli enti locali ai dati 2009. Le perdite conseguenti all'adozione di questi strumenti finanziari per i soli enti pubblici appena ricordati potrebbero arrivare a superare i 10 miliardi di euro, su di un totale complessivo che, ad ottobre 2011, era stimato per l'Italia in 52,2 miliardi, una cifra equivalente a oltre il 60% del costo delle pesantissime manovre cui gli Italiani sono stati sottoposti nel 2011 (4).
Per la banca d'affari le cose sono andate diversamente: "Morgan Stanley - riferisce sempre Bloomberg, ha guadagnato 600 milioni di dollari nel terzo trimestre [2011] in conseguenza dello scioglimento dei contratti con l'Italia. Il guadagno è dovuto all'annullamento dei costi sostenuti in precedenza nel corso dell'anno a causa del rischio che il Paese non pagasse l'intero importo del debito, ha dichiarato il 19 gennaio in un'intervista Ruth Porat, direttore finanziario".
Si comprende a questo punto benissimo perché la cosiddetta politica non è in grado di mettere al bando questi strumenti finanziari dall'effetto devastante sull'economia reale: semplicemente perché le classi politiche europee attuali sono "garanti" delle migliaia di contratti di questo tipo che, almeno a partire dagli anni Novanta, sono stati stipulati con i "padroni dell'universo".
Le politiche di rigore nei confronti dei cittadini sono proprio ciò che, dopo avere evitato loro le perdite dovute alle speculazioni sui subprime, consente ancora lauti guadagni alle grandi banche d'affari.
Su cosa si basa il potere dei grandi centri finanziari che permette loro di condizionare le scelte politiche degli Stati?
Continuando ad organizzare le notizie di stampa sui "derivati", arriviamo a comprendere meglio il modus operandi dei "padroni dell'universo", rispetto alle origini più remote della crisi in Europa.
Ci aiuta il caso più eclatante, quello della Grecia: quando nel 2000-2002 quel Paese si preparava ad entrare nell'area euro, doveva anzitutto mettersi in riga con le regole di bilancio stabilite nel 1996 dall'Unione Europea. "Nel febbraio 2002, la Commissione Europea mise in rilievo che le previsioni relative al deficit della Grecia si basavano principalmente sul conseguimento di riduzioni del costo degli interessi", ricostruiva già nel 2003 Nick Dunbar su Risk Magazine (5).
Entra in scena a questo punto un altro dei giganti della finanza mondializzata, Goldman Sachs. Grazie alle strette relazioni con Goldman Sachs del responsabile del debito pubblico ellenico, Christopher Sardelis, ed alla dinamica numero uno dell'ufficio vendite di Goldman Sachs di Londra, Antigone Loudiadis, viene messo in piedi un importante contratto di collocazione di "derivati", del valore di 10 miliardi di dollari, che si dimostrava perfetto per gli scopi di entrambe le controparti: grazie ad uno swap opportunamente organizzato, la Grecia iscrive un nuovo debito in euro, escludendo quindi momentaneamente dal bilancio il vecchio debito in dollari e yen, dando inizio a quel mascheramento delle reali dimensione del proprio deficit di cui i più si sarebbero accorti solo nel 2010.
In tal modo, "Goldman Sachs intasca la sua sostanziosa commissione e alimenta una volta di più la sua reputazione di ottimo amministratore del debito sovrano", commenta Le Monde (6): la società americana cederà più tardi il contratto alla tedesca Deutsche Pfandbriefe Bank (Depfa).
Lo scopo dell'acquisizione degli swap dalle banche d'affari americane da parte del Tesoro italiano negli anni Novanta non era molto diverso da quello della Grecia: sulla base del meccanismo attivato in Grecia, capiamo che doveva servire a dimezzare artificiosamente il nostro disavanzo di spesa per poter rientrare nei parametri comunitari.
Si è quindi creata una fondamentale convergenza di interessi fra gli obiettivi speculativi delle banche d'affari mondializzate e le esigenze di politica economica delle classi dirigenti europee, mediate da una serie di figure tecniche: non a caso Le Monde ha riesumato l'episodio della Grecia lo scorso novembre 2011, per sferrare un attacco al vetriolo contro Monti Draghi e Papademos, uomini che hanno fatto carriera con Goldman Sachs e che, insieme a numerosi altri, rivestono ora posizioni chiave nella politica europea.
Sono in effetti proprio loro gli "onesti sensali" che il rovinoso dilagare della crisi ha richiesto assumessero dirette responsabilità di governo tecnico, vale a dire ruoli nei quali politica ed economia si unificano patologicamente, costituendo nelle democrazie occidentali un nuovo potere, non sottoposto ad alcun effettivo controllo democratico.
È davvero l'euro l'origine di tutti i mali in Europa?
Possiamo contribuire ora a fare chiarezza anche in tema di euro, sul quale le polemiche sono tanto accese quanto in genere male impostate.
Notiamo infatti, analizzando queste vicende, che l'origine del problema attuale non è certo l'euro, tanto meno l'idea di una unione monetaria. Il problema, oltreché nella concezione della moneta tipica del capitalismo finanziario (una moneta che deve creare debito), sta invece nelle regole definite per l'unificazione monetaria dalla burocrazia comunitaria, che culturalmente si abbevera alle stesse fonti degli esperti delle grandi società finanziarie internazionali.
Da lungo tempo, ad esempio, Gustavo Piga ha denunciato in modo tecnicamente assai accurato le modalità attraverso le quali la stessa Unione Europea ha lasciato aperto il varco alla speculazione finanziaria, dietro un apparente rigore: ad esempio con ESA95, il manuale di ben 243 pagine della Commissione Europea e di Eurostat sui deficit pubblici e sulla contabilizzazione dei debiti pubblici, che ha di fatto permesso, tollerando proprio l'utilizzo massiccio degli strumenti finanziari derivati, di aggirare le teoricamente ferree regole del Patto di Crescita e Stabilità del 1996 (7).
Ora ci rendiamo conto perché l'Ecofin, il gruppo dei ministri finanziari dell'Unione, non sia stato capace nemmeno qualche settimana fa, nonostante se ne parli da anni, di trovare un accordo sull'introduzione della cosiddetta Tobin Tax o, più correttamente, sulla Financial Transaction Tax (FTT), una tassa che, si noti, potrebbe fruttare dai 16 ai 43 miliardi euro annui, una cifra non disprezzabile di questi tempi.
Come funzionerebbe la FTT? "Essa si applica a tutte le transazioni finanziarie, cioè ad acquisti o vendite di obbligazioni o azioni ma anche di opzioni, futures o derivati, quando almeno una delle parti - banca, assicurazione, fondo, società-veicolo - abbia sede nella Ue o nel Paese che adotti la tassa. Non è insomma una tassa che vale solo per le operazioni di borsa; vale anche per i contratti bilaterali come i derivati".(8)
Come si vede, sono in ballo ancora i derivati, questo gigantesco mercato speculativo che a livello mondiale vale almeno 700.000 miliardi di dollari e che costituisce la massa di debito con cui i master of the universe sono in grado di condizionare, con operazioni come quelle che abbiamo visto, la sovranità e l'autonomia di Paesi delle dimensioni e delle capacità produttive dell'Italia.
Il problema non è dunque la moneta unica, ma sono gli uomini e l'ideologia che la guidano. Vogliamo una controprova?
Chi sono oggi gli uomini che più attivamente ed autorevolmente animano il fronte dei cosiddetti euroscettici? Sono ad esempio rappresentanti della City londinese, come quelli raccolti nel gruppo Open Europe, di cui merita analizzare attentamente il sito: è sufficiente dargli uno sguardo per trovare fra gli aderenti i massimi esponenti del mondo finanziario ed imprenditoriale inglese e basta ricordare il loro presidente, Rodney Leach, ora Lord Leach of Fairford, direttore di Jardine Matheson Holdings, ma soprattutto primo non-family partner del gruppo Rothschild (9).
A cosa servono le politiche di rigore che stanno soffocando l'economia reale?
Anche in questo caso, possiamo basarci su di un recentissimo esempio, quello dello Stato della California negli Usa, arrivato al fallimento nel 2009 a causa della crisi dei subprime.
Cosa è accaduto poi? Il deficit pubblico è sceso dai 25 miliardi di dollari all'inizio del 2011 ai 9 di oggi, secondo un recentissimo articolo del Sole 24 Ore, grazie al "pugno di ferro" del governatore Jerry Brown, vale a dire "mediante tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse che non hanno risparmiato la scuola". Per annullare del tutto il deficit, il governatore si propone ora "un nuovo aumento temporaneo delle tasse sul reddito e sui consumi" ovvero, nel caso che un apposito referendum non dia esito favorevole, "tagli automatici alla spesa pubblica per 5 miliardi di dollari, che non risparmierebbero alcun settore" (10). Nel frattempo, la California torna ad emettere nuovi bond, ovviamente.
Così come negli Usa "le emissioni di titoli ad alto rischio, ma anche ad alto rendimento, sono tornate a livelli pre-crisi ed ora si stanno diffondendo anche al retail, senza troppe distinzioni" (11). Vale a dire, dopo avere spremuto i contribuenti, per rifinanziare le banche e gli Stati prossimi al collasso, le scommesse possono ricominciare, grazie alla creazione di nuovo debito personale su di un'altra generazione. Tra i protagonisti di questa nuova stagione, sono sempre le soite le banche d'affari, come Morgan Stanley e Goldman Sachs.
L'esistenza ed il lavoro degli individui e delle società umane diventano in questo modo, lo strumento che perpetua i guadagni ed il potere dei "padroni dell'universo". Questo è il progetto in corso anche per il nostro Paese.
Cosa è possibile fare?
Chiunque volesse intraprendere un'effettiva rimessa in ordine dell'economia reale, potrebbe partire da alcuni semplici punti:
chiedere ai governi nazionali ed alla Commissione Europea di rendere pubbliche e controllabili tutte le transazioni finanziarie in essere che riguardino il debito pubblico
chiedere ai governi nazionali di introdurre entro 2 mesi la FTT, indipendentemente dalla sua approvazione generalizzata in Europa, trattandosi di una misura urgente per il risanamento economico
chiedere ai governi nazionali di regolamentare gli strumenti finanziari, ponendo fuori legge entro 12 mesi i prodotti finanziari derivati
chiedere ai governi nazionali di operare a livello comunitario affinché il ruolo delle agenzie di rating sia trasferito entro 12 mesi ad un'agenzia internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite
Sappiamo bene infatti che fin dai prossimi giorni assisteremo ad un nuovo attacco a fondo della speculazione ai Paesi mediterranei, Spagna ed Italia in testa. Comincia ad essere necessario farsi trovare ben preparati, i "tecnici" probabilmente non basteranno più questa volta.
di Gaetano Colonna
23 aprile 2012
Monti tassa, gioisce e l’Italia va a rotoli.
Tra le tante manchevolezze del non più santissimo premier Mario Monti, una risulta colossale, eppure quasi mai evocata: il taglio della spesa pubblica. Fatto salvo Oscar Giannino, che conduce una battaglia quotidiana su Radio 24, e poche altre firme, la grande stampa nazionale scansa accuratamente l’argomento che dovrebbe essere al centro della riflessione pubblica e che invece passa sottotraccia. Perchè è scomodo e potrebbe provocare più di un imbarazzo al non più santissimo e talvolta un po’ smarrito Mario Monti. Allora meglio parlare d’altro.
Sia chiaro: non parlo di tagli indiscriminati, ma di riforme precise volte a ridurre e possibilmente eliminare sprechi che sono stati documentati decine di volte, nei comuni morosi, in certe zone del Meridione, negli enti pubblici desueti (a sud come a nord), nelle inefficienze dell’amministrazione pubblica, nella sanità, eccetera eccetera.
Ma affrontare questi temi è impopolare, richiede doti da vero statista, quasi una vocazione al martirio. La via è scomoda e il nostro premier si guarda bene dal praticarla. Da eurodirigista quale in realtà è nell’animo, preferisce usare la scure delle tasse e le politiche punitive che in parte sono necessarie, ma che finiscono per scoraggiare, anzi avvilire, l’Italia migliore, degli industriali, dei professionisti, che produce e continua a battersi, eroicamente.
Se anzichè frequentare solo le élites, il non più santissimo ma sempre glaciale Mario Monti, parlasse con la gente normale, se frequentasse la piccola e la media borghesia, si accorgerebbe dello scoramento che attraversa il Paese, ma è chiedergli troppo.
Lui non si abbassa. Lui tassa, gioisce e l’Italia va a rotoli.
di Marcello Foa
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