27 aprile 2012
Le guerre democratiche
Totalitarismo inconscio
sono uno scrittore e un giornalista, recentemente ho scritto un libro che si intitola “La guerra democratica”. Da quando è crollato il contraltare sovietico le democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, hanno inanellato otto guerre in venti anni, otto guerre di cui forse solo la prima aveva una qualche giustificazione, il primo conflitto del Golfo perché Saddam Hussein aveva aggredito il Kuwait, le altre sette sono tutte guerre di aggressione.
La guerra democratica ha questa caratteristica, che si fa ma non si dichiara, la si fa con cattiva coscienza chiamandola con altri nomi, operazioni di peacekeeping, operazione umanitaria, difesa dei diritti umani, ma sono guerre. Questo equivoco porta a tutta una serie di conseguenze, la prima è che il nemico è sempre un criminale o un terrorista. E quindi di lui si può fare carne di porco, non valgono le leggi di guerra, non valgono per i prigionieri e Guantanamo ne è un esempio clamoroso. Nella guerra democratica le democrazie possono colpire ma non possono subire, sia materialmente che concettualmente. È legittimo uccidere i soldati del nemico, ma se il nemico uccide i nostri allora è una vigliaccata, una porcata, qualcosa di indecente e di intollerabile. Questa cosa fa sì che porta una sperequazione che non è solo materiale, perché effettivamente la guerra democratica si fa solo con le macchine, con gli aerei, con i droni, con i robot perché i droni sono aerei che non hanno equipaggio teleguidati da 10 chilometri di distanza, per cui uno solo può colpire e l’altro solo subire. Ma anche concettualmente questo vale nel senso che se tu, non democratico, colpisci un soldato sei un criminale e vai giudicato come tale.
Un’altra caratteristica delle guerre democratiche è che manca l’essenza della guerra e cioè il combattimento. Gli occidentali non sono più in grado di affrontare il combattimento, la vista del corpo a corpo gli fa orrore, ritengono questo immorale, ritengono invece morale colpire con un missile da 300 chilometri di distanza e uccidere duemila persone.
Le democrazie in questa loro aggressività nei confronti di tutti i mondi altri che hanno altre concezioni della vita, della morte e altre tradizioni è una sorta di totalitarismo perché noi non siamo più in grado di accettare il diverso, l’altro. La concezione è che siamo una cultura superiore, che è la moderna declinazione del razzismo essendo quella classica dopo Hitler diventata improponibile, e quindi abbiamo il diritto e il dovere di portare le buone maniere agli altri popoli. Questo è un totalitarismo tanto più pericoloso perché inconscio, il pericolo non è Bush o chi per lui, ma è Emma Bonino, chi ci crede a queste cose, che noi si sia possessori di diritti assoluti validi per tutti. Ed è particolarmente doloroso perché noi non veniamo solo come si dice dalla cultura giudaico – cristiana, ma alle nostre spalle c’è un’altra cultura messa in disparte che è la cultura greca, la prima a riconoscere il diritto di esistenza e di dignità dell’altro. Quando Erodoto parla dei persiani li descrive come crudeli, barbari, ma non si sognerebbe mai di applicare i costumi greci ai persiani, i persiani sono persiani, i greci sono i greci. Invece noi abbiamo la pretesa di omologare l’intero esistente alla nostra way of life. Ripeto, questo quando si è in buona fede, in malafede queste guerre hanno ragioni economiche. Abbiamo bisogno di conquistare, essendo i nostri mercati saturi, sempre nuovi mercati per quanto poveri.
La politica dei due pesi e delle due misure
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica le democrazie hanno avuto le mani libere e hanno fatto tutte le guerre che hanno voluto con i più vari pretesti, in Serbia c’era la questione del Kossovo, in Afghanistan c’era Bin Laden,sono passati 11 anni e Bin Laden non c’è più da tempo. In Libia c’era il dittatore, peraltro corteggiato fino al giorno prima. Hanno potuto esprimere nel modo più violento la propria aggressività e i propri interessi che sono interessi imperiali. Una volta le potenze quando volevano una cosa mandavano le cannoniere e se le prendevano. Adesso pretendiamo di fare la guerra e di farla per il bene di coloro che bombardiamo, uccidiamo, assassiniamo o devastiamo, è una specie di Santa Inquisizione planetaria ed è questo che è intollerabile, l’ipocrisia di queste guerre. Le guerre si sono sempre fatte, ma una volta avevano almeno quasi una loro etica.
La Siria non la attacchiamo perché è protetta in qualche modo dalla Russia e dalla Cina e questo dice che i nostri interventi umanitari in realtà non sono tali, noi interveniamo laddove non ci sono rischi, dividiamo il mondo in figli e figliastri. Alcuni devono essere puniti e altri che ne fanno di peggio invece la passano liscia. Chi attaccherebbe la Russia per il genocidio ceceno, 250 mila morti e cioè un quarto della popolazione? Qui viene dimostrata tutta l’ipocrisia di questa storia dei diritti umani. I diritti umani sono solo un grimaldello per intervenire nei Paesi in cui ci interessa intervenire.
Potrebbe essere che il prossimo bersaglio, ci sono tamburi di guerra da tempo, sia l’Iran, anche qui con giustificazioni che non hanno alcun senso. L’Iran ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, accetta le ispezioni dell’IAEA che sono le ispezioni O.N.U., l’agenzia che regola le produzioni atomiche, e non ha mai superato il 20 per cento di arricchimento dell’uranio, per fare la bomba ci vuole il 90 per cento. Però è sotto scacco in continuazione. Israele che ha la bomba atomica invece viene lasciato assolutamente tranquillo. E’ una politica di due pesi e due misure che incita anche paesi musulmani, anche gente che non è radicale a radicalizzarsi perché è talmente evidente la politica dei due pesi e delle due misure, la violenza che noi continuamente esercitiamo che alla fine uno diventa terrorista.
Sì se si attaccherà l’Iran sarà la Terza guerra mondiale, è molto rischioso per le democrazie attaccare l’Iran perché saltano anche tutte le alleanze più o meno forzate che hanno con i paesi cosiddetti moderati, che poi moderati spessissimo non sono. Salterebbe l’alleanza con la Giordania, l’Arabia Saudita, l’Egitto e quindi sarebbe veramente la Terza guerra mondiale ma una guerra particolare sperequata, perché dalla nostra parte c’è questo armamento straordinario e dall’altra ci sono popolazioni da questo punto di vista molto più deboli, ma anche molto più numerose. E’ abbastanza grottesco da fuori Paesi seduti su arsenali atomici incredibili facciano la voce grossa con l’Iran perché ipoteticamente può fare l’atomica.
In realtà noi, inseguendo un pericolo immaginario, cioè l’Afghanistan che non è mai uscito dai suoi confini, che ha una tradizione di non aggressività nei confronti dei Paesi vicini, abbiamo creato un pericolo reale che è il Pakistan perché questo radicalismo religioso si è trasferito al Pakistan, solo che il Pakistan, a differenza dell’Afghanistan che è armato in modo antidiluviano, ha la bomba atomica e non solo ma proprio per la sua posizione di potenza regionale ha una concezione politica molto meno localizzata di quanto abbia l’Afghanistan. Quindi inseguendo un pericolo immaginario, l’Afghanistan, ne abbiamo creato uno reale, il Pakistan e se gli integralisti prendessero potere in Pakistan sì allora sarebbero cazzi acidi per tutti perché questi hanno l’atomica, gli altri hanno il loro corpo e qualche granata.
Verranno spazzati via
L’aggressione al cosiddetto grillismo, all’antipolitica, a quella che viene chiamata l’antipolitica è in realtà un segnale della paura che una classe dirigente che da trenta anni ha fatto abusi, soprusi, ruberie, il sacco del Paese,la paura da cui è stata presa di essere spazzata via e quindi, mentre prima potevano anche ignorare un movimento come quello di Grillo, adesso non lo ignorano affatto, naturalmente lo demonizzano così come demonizzano chi non va a votare. Chi ha deciso di andare a votare nelle ultime amministrative è stato il 40 per cento. È un segno della paura del regime di essere spazzato via perché c’è in giro, Grillo o non Grillo, una collera notevole da parte della popolazione che alla fine si è resa conto che questa democrazia dei partiti non è affatto una democrazia, ma un sistema che ha privilegiato una classe dirigente indecente e ha impoverito il paese. E questa crisi spinge le persone a ragionare e a ribellarsi. La reazione, scomposta, degli esponenti del regime dice che ne hanno molta paura, poi non so come verranno spazzati via, però io penso che verranno spazzati via, che non basterà chiamarsi Partito nazionale della Nazione come fa Casini perché uno dimentichi le responsabilità di Casini, di tutti i casini che ci sono stati e ci sono nella classe politica italiana.
Quello che vorrei dire saltando un attimo la politica italiana è che c’è una guerra infame che si combatte, anzi non si combatte da 11 anni in Afghanistan contro un Paese. Non è la guerra in Afghanistan, è una guerra all’Afghanistan e senza che ci siano proteste alcune perché gli afgani non hanno santi in paradiso, non sono comunisti, non sono liberali, non sono arabi, non sono cristiani, non sono ebrei e quindi si può fare loro carne di porco. Sono 65 mila oggi i civili uccisi in Afghanistan direttamente o indirettamente dalla nostra occupazione, a parte i disastri che abbiamo combinato dal punto di vista sociale. La disoccupazione durante il governo talebano era l’8 per cento e adesso è al 40 per cento, in alcune regioni all’80 per cento. Abbiamo cercato di comprarlo in tutti i modi. Abbiamo corrotto moralmente un Paese che aveva una sua integrità, mi piacerebbe che su questo problema si fosse più sensibili e, siccome si bada solo alle ragioni economiche, ricorderò che noi spendiamo un miliardo di Euro all’anno per tenere inutilmente i nostri soldati lì, per ammazzare e farci ammazzare, ora con un miliardo non di risana un’economia di un Paese ma qualche buco lo si potrebbe anche turare. E’ una guerra ripeto infame di cui però non sento in genere, non vedo né in Italia né in Europa né in Occidente qualcuno che dica una parola contro questa guerra.
di Massimo Fini
26 aprile 2012
Ora i BRICS contano nel cambiamento dell'ordine mondiale
Ora i BRICS contano nel cambiamento dell’ordine mondiale
I BRICS stanno avendo un’influenza crescente sulla governance globale. Il tema del 4° Summit “Cooperazione tra i BRICS per la stabilità, la sicurezza e la crescita globale”, ha mostrato il suo intento strategico attraverso un’interpretazione alternativa dell’interdipendenza. La Dichiarazione di Delhi ha elementi che, in primo luogo, hanno una dimensione economica anche se sono, essenzialmente, politici, e propongono un nuovo sistema multilaterale. I toni strategici hanno causato una cauta risposta degli Stati Uniti, riconoscendo in questo modo che un mondo multipolare è emerso, mentre la leadership globale americana è sempre più debole.
Finora l’attenzione dei BRICS si è concentrata sul riformare le strutture di governance delle organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, pur permettendo loro di mantenere un ruolo centrale. La decisione di lavorare sulla creazione di una Banca dello Sviluppo per le infrastrutture e la crescita sostenibile risponde alle emergenti necessità mondiali meglio del “Washington consensus” col suo focus sul settore sociale e concomitanti condizionamenti. L’inclusione di aiuti d’emergenza in caso di disastri o crisi finanziarie, come anche la condivisione del rischio, di fatto ridefinisce la politica internazionale di sviluppo.
Un primo passo è stato fatto verso una nuova politica monetaria internazionale. La decisione di collegare i mercati e creare un’integrazione finanziaria delle loro economie gestendo i 230 miliardi di dollari del commercio intra-BRIC, che arriverà a 500 miliardi di dollari nel 2015, attraverso l’estensione del credito in valute locali e derivati su indici azionari di riferimento, consentirà investimenti senza rischi di cambio mentre si intrecciano le borse valori. Eliminando il passaggio intermedio della conversione in dollari, si riduce il suo ruolo nelle contrattazioni tra i BRICS, ed il commercio stesso risulta indipendente dal valore della valuta americana, il che avrà un forte impatto sulla sua importanza globale. Per la prima volta le economie avanzate sono state invitate “ad attuare politiche macroeconomiche e finanziarie responsabili, ad evitare di creare eccessiva liquidità a livello mondiale ed intraprendere riforme strutturali per aumentare la crescita e, di consequenza, creare posti di lavoro”. La Dichiarazione ha sostenuto anche “un processo di selezione basato sul merito” per i capi del FMI e della Banca Mondiale, posti riservati dal 1950, per consuetudine, rispettivamente ad un’europeo ed ad un americano.
Sta inoltre emergendo una nuova politica di sicurezza internazionale, con la richiesta di “un processo politico inclusivo” in Siria, che contempla anche una transizione democratica per quel paese. La risoluzione sostiene anche per l’Iran “il dialogo e mezzi politici e diplomatici tra le parti coinvolte” ed inoltre riconosce il diritto iraniano ad accedere all’energia nucleare per usi civili. Sull’Iran, i BRICS hanno chiarito che seguiranno le risoluzioni delle Nazioni Unite e non le leggi nazionali di nessun paese (vedi gli Stati Uniti). Si tratta di una mossa ostile ai cambiamenti selettivi di regime attraverso le azioni multilaterali, come è stato fatto in Libia, e porta le deliberazioni dei BRICS nella sfera politica.
Questi risultati hanno colto di sorpresa i commentatori. Non più tardi dello scorso anno, Joseph Nye, dell’Università di Harvard, sosteneva che i BRICS avevano profonde divisioni politiche e che avrebbero contribuito veramente in misura minima alle relazioni tra le potenze nel lungo termine. Martin Wolf, del Financial Times, sosteneva anche che “non hanno niente in comune” e che non sono “alleati naturali”, perché la differenza di valori è molto forte, e quindi non c’è ragione di aspettarsi un accordo su qualche cosa di sostanziale a livello mondiale, a parte il fatto di pensare che le potenze dominanti devono cedere parte della loro influenza e potere. Un recente articolo del New York Times prevede che paesi singoli e “non blocchi artificiali” daranno forma alla governance globale, e che il Summit era solo un’opportunità per scattare qualche foto. Più arguto è l’argomento secondo cui, visto che i BRICS hanno tutti un un rapporto strategico con gli USA e, al momento, considerano il loro legame con Washington più importante di quello con qualsiasi altra capitale, non vedono nessuna utilità nel sfidare il leader del mondo occidentale. Certamente i BRICS sono stati finora reattivi piuttosto che proattivi. Ad ogni modo, la dinamica attuale è che i paesi BRICS stanno guadagnando forza e capacità di esercitare influenza attraverso, soprattutto, il potere economico, piuttosto che quello militare. I paesi BRICS hanno pesato per più del 50% sulla crescita economica globale nell’ultimo decennio e Goldman Sachs prevede che il loro potenziale economico sarà più grande di quello dei G7 nel 2035. Focalizzandosi sull’integrazione economica, stanno anche spostando gli equilibri di potenza, e superando le differenze bilaterali. Ad esempio, la Cina è già il partner commerciale più importante per l’India ed insieme hanno convenuto di mettere da parte le differenze per ciò che riguarda la disputa confinaria, e concentrarsi sulla crescita degli scambi e dei legami d’investimento. Il risultato del Summit è un’indicatore che una collettività sta emergendo, una tendenza verso una migliore coordinazione e più equa governance globale; e finchè l’ordine attuale, plasmato dagli Stati Uniti, sarà al servizio degli interessi nazionali dei paesi sviluppati, qualche tensione sarà inevitabile.
Nel mondo di oggi, dati i limiti ecologici alla crescita, la sicurezza e la prosperità non possono essere più garantite solo dalla forza militare o dalla ricchezza economica, ma dall’abilità di gestire l’azione collettiva attraverso un approccio regolamentato e associato. Per una leadership globale, i BRICS avranno bisogno di una visione strategica che risponda alle preoccupazioni del mondo povero, e che non sia limitato, solo, dal portare avanti i propri interessi nazionali. Nelle istituzioni di Bretton Woods possono, ad esempio, chiedere una revisione dei parametri di controllo, delle condizioni e un focus sullo sviluppo sostenibile invece che su considerazioni strettamente ambientali. All’interno delle Nazioni Unite possono andare oltre la divisione tra paesi in via di sviluppo e quelli già sviluppati, per istituire un nuovo obiettivo per lo sradicamento della povertà entro il 2050. L’attuale enfasi sui diritti umani definiti in termini di diritti politici e procedurali avrà bisogno di essere completata da un’enfasi analoga sui diritti sociali ed economici basati sulle eque opportunità per tutti. L’attenzione data alla redistribuzione sarà inedita, visto che è stata esclusa così a lungo dall’agenda internazionale.
Il termine BRICS fu coniato dalla Goldman Sachs nel 2001 con riferimento alle politiche economiche. Ovviamente, non hanno immaginato che in un mondo globalizzato, influenza e potere sarebbero divenuti sempre più definiti in termini economici. Il primo incontro dei BRICS avvenne nel 2009, a seguito della crisi economica globale. Vista la crescita economica ed il centro di gravità politico che continua a cambiare, i BRICS hanno già un ruolo maggiore nell’affrontare i cambiamenti transnazionali, con la spartizione d’influenza e potere nell’architettura internazionale del G20. Per la leadership globale i BRICS dovranno sposare i valori universali che riflettono le preoccupazioni dei paesi poveri.
(Traduzione di Lorenzo Giovannini)
di Mukul Sanwal
NOTE:
Mukul Sanwal è un ex funzionario civile e diplomatico.
25 aprile 2012
L'Argentina peronista nazionalizza l'industria petrolifera e butta fuori spagnoli e italiani
“Che bello vivere in un mondo dove non esiste più la guerra fredda. E sarebbe ancora più bello vivere in un mondo in cui non esiste neppure la guerra. Per il momento prendiamo atto che c’è la guerra calda e quindi ci adattiamo al territorio. Si tratta, pertanto, di interessi strategici nazionali, perché si tratta di difendere gli interessi della nazione e il futuro e il destino dei nostri figli e nipoti. Così si costruisce la base della democrazia diretta. E’ bene che chi ha orecchie senta molto bene, perché si volta pagina. Le nostre risorse, la nostra ricchezza, la nostra industria, i nostri prodotti, sono prima di tutto: nostri. Cioè degli imprenditori e dei lavoratori. Della nazione. E lo Stato ne garantisce la sovranità e li cautela”.
Sembra un bollettino di guerra, e infatti lo è.
E’ la prima parte di un discorso ufficiale della presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, nel quale, ieri mattina 16 aprile, ha annunciato l’espropriazione e la nazionalizzazione definitiva dell’azienda “Yacimientos Petroliferos Fiscales” meglio nota come YPF, la cui contrastata e discussa gestione apparteneva alla iberica Repsol, di proprietà del governo spagnolo e gestita da una holding europea finanziata dalla BCE attraverso la compartecipazione di Banco Santander, Banco de Bilbao, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Milano, Societe Generale, Credit Agricole, Eni, Deutsche Bank.
“Un gravissimo colpo per l’economia spagnola e per l’Europa, un atto incivile che noi protestiamo e che porteremo sul tavolo della prossima riunione giovedì 19 aprile del Fondo Monetario Internazionale” ha dichiarato Rubèn Soquera di Repsol a Madrid.
Axel Kicillov, vice-ministro dell’economia è ufficialmente la persona incaricata dal punto di vista tecnico-fiscale a gestire il passaggio delle quote, di cui il 51% andrà al Banco de la Naciòn e il 49% andrà alle regioni nelle quali si trovano i pozzi petroliferi. Il prezzo stabilito dagli spagnoli si aggira sui 18 miliardi di euro, mentre il calcolo effettuato dagli argentini (va da sé) è di molto inferiore e il prezzo definitivo sarà l’unico punto sul quale si svolgerà la discussione. E’ stata presentata, infatti, una legge in parlamento che verrà approvata con una maggioranza totale, intorno all’88%: tutti i partiti eletti l’appoggiano.
Julio de Vido, ministro della Pianificazione sociale e dello sviluppo economico ha dichiarato: “per cinquecento anni gli europei, prima con i conquistadores, poi con le banche italiane, poi con l’esercito inglese e infine con la finanza speculativa gestita dalla BCE e da Wall Street, hanno rubato al popolo argentino le risorse naturali di oro, argento, petrolio, zucchero, limoni, acqua, soia, pellame, per costruire la propria ricchezza spropositata con un’ottica schiavista e miope, tant’è vero che l’Europa sta affondando schiacciata in una crisi che non ha sbocchi. E’ arrivato il momento che le nazioni si riapproprino della sovranità nazionale dando al popolo la proprietà di ciò che è loro: i prodotti del territorio nazionale. Lo Stato si fa garante e gestisce le risorse come bene comune da condividere per avere i soldi e lanciare un piano di grandi massicci investimenti per la costruzione di lavoro, occupazione e ripresa”.
E’ con questo atto (meticolosamente preparato e -con grande effetto politico- presentato pubblicamente alla vigilia dell’incontro internazionale di Washington del Fondo Monetario Internazionale) che la Kirchner si prepara al suo viaggio in Usa, dove va a scontrarsi con il suo nemico pubblico n.1: Christine Lagarde, presidente del Fondo.
L’annuncio ha gettato nello scompiglio la borsa di Madrid, perché la Repsol perde l’8,2% e la società italiana Tenaris quotata a Milano va sotto del 4,5%, essendo la Tenaris impegnata come società delegata alla tecnica di estrazione e raffinazione del greggio.
Attraverso quest’atto, l’Argentina ha calcolato che risparmierà 8 miliardi di euro nei soli sei mesi del 2012 e 22 miliardi nel 2013. I 30 miliardi così ottenuti verranno investiti per la costruzione di grandi opere di infrastruttura nelle sei regioni dove c’è petrolio. In un messaggio a sorpresa (annunciato soltanto qualche ora prima) la presidente ci ha tenuto a comunicare la scelta direttamente alla nazione in un messaggio diramato su tutte le televisioni, sia in terrestre che in satellitare digitale. Il progetto è stato definito "Soberanía hidrocarburífera de la República Argentina", (sovranità nella gestione degli idrocarburi della Repubblica Argentina) e sostiene che “l’obiettivo primario consiste nell’essere totalmente autosufficienti nel settore energetico per garantire la libertà, l’indipendenza e il diritto all’esercizio della sovranità dello Stato centrale. Ci tengo a precisare che il fine ultimo non consiste nella nazionalizzazione bensì nel recupero immediato della sovranità e controllo delle risorse prodotte dai singoli territori nazionali”.
L’impatto di tale atto ha prodotto una gigantesca scossa tellurica nel settore economico in tutto il continente, soprattutto nelle nazioni più povere del centro-america, Ecuador, Guatemala, Honduras, Costa Rica, dove le multinazionali statunitensi e italiane sono proprietarie del 95% della produzione locale di banane, mangos, ananas, per produrre i succhi di frutta che l’occidente beve e che poi distribuisce con i propri marchi nazionali.
A conclusione del discorso, la Kirchner, in conferenza stampa ci ha tenuto ad aggiungere la chicca demagogica che sta diventando il fiore all’occhiello del Sudamerica e del Mercosur (sarebbe il corrispondente sudamericano dell’Unione Europea: Argentina, Cile, Bolivia, Paraguay, Uruguay, Perù, Brasile e Venezuela) ricordando con enfasi che “l’Argentina è per il momento l’unico ma speriamo soltanto il primo di una lunga lista di paesi al mondo che non importa nulla dalla Cina perché noi produciamo in patria. Nel nostro territorio non esiste nessun manufatto sul quale è scritto made in China: noi siamo umanamente, politicamente e culturalmente contro lo schiavismo che abbiamo sempre combattuto e seguiteremo a combattere sempre. Siamo per l’autodeterminazione dei popoli e per il ripristino della sovranità nazionale”.
Due giorni fa, il ragionier ultra-liberista Mario Monti ha fatto sapere che non parteciperà alla riunione internazionale del Fondo Monetario.
In Argentina (e in tutto il Sudamerica) la notizia è stata abbondantemente commentata come una manifestazione di debolezza e vigliaccheria dell’Italia come nazione.
“Hanno paura di presentarsi a un dibattito internazionale. Sanno di essere esposti. E’ iniziata la rivolta degli schiavi. E’ la fine di un’epoca. Monti e i suoi amici possono esibire soltanto e unicamente le impietose cifre di un colossale fallimento economico, politico, culturale che sta mettendo in ginocchio il Mediterraneo uccidendone la grande civiltà. Ma soprattutto esistenziale. In Europa si suicidano. Da noi si va a ballare il tango esaltati dal senso ritrovato di una identità nazionale”. Così si legge nell’editoriale di Pagina ½, la più radicale pubblicazione argentina che per lunghi anni è stata la fiera opposizione intellettuale contro la Kirchner ma che ha cominciato ad appoggiarla da un anno a questa parte, da quando la presidente ha scelto e deciso di andare da sola all’attacco del Fondo Monetario Internazionale e della BCE: E’ proprio guerra dichiarata.
Notoriamente vezzosa, avida di scarpe e costosi abiti dei migliori sarti francesi, la Kirchner (che è femminista) intervenendo a un seminario sul lavoro femminile e sulla parità di genere dei salari, fortemente sollecitata a dare un’opinione sulla Lagarde, ha detto: “Ragazze, non pungolatemi troppo. Ciascuno fa le proprie scelte. Posso dire soltanto una cosa, ma è una mia opinione: non sa vestirsi e non ha gusto”.
Il che, detto e inviato a una aristocratica signora nata e cresciuta a Parigi, è davvero clamoroso.
Non vi è dubbio: è iniziata la rivolta degli schiavi.
Come dire. Il sud del mondo bussa alla porta del ricco settentrione..
E non è certo un caso che tutto ciò avvenga nella più meridionale nazione del pianeta Terra, più sotto c’è soltanto il polo sud.
Ma per il momento, gli iceberg sembrano aggirarsi nel Mar Mediterraneo.
di Sergio Di Cori Modigliani
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27 aprile 2012
Le guerre democratiche
Totalitarismo inconscio
sono uno scrittore e un giornalista, recentemente ho scritto un libro che si intitola “La guerra democratica”. Da quando è crollato il contraltare sovietico le democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, hanno inanellato otto guerre in venti anni, otto guerre di cui forse solo la prima aveva una qualche giustificazione, il primo conflitto del Golfo perché Saddam Hussein aveva aggredito il Kuwait, le altre sette sono tutte guerre di aggressione.
La guerra democratica ha questa caratteristica, che si fa ma non si dichiara, la si fa con cattiva coscienza chiamandola con altri nomi, operazioni di peacekeeping, operazione umanitaria, difesa dei diritti umani, ma sono guerre. Questo equivoco porta a tutta una serie di conseguenze, la prima è che il nemico è sempre un criminale o un terrorista. E quindi di lui si può fare carne di porco, non valgono le leggi di guerra, non valgono per i prigionieri e Guantanamo ne è un esempio clamoroso. Nella guerra democratica le democrazie possono colpire ma non possono subire, sia materialmente che concettualmente. È legittimo uccidere i soldati del nemico, ma se il nemico uccide i nostri allora è una vigliaccata, una porcata, qualcosa di indecente e di intollerabile. Questa cosa fa sì che porta una sperequazione che non è solo materiale, perché effettivamente la guerra democratica si fa solo con le macchine, con gli aerei, con i droni, con i robot perché i droni sono aerei che non hanno equipaggio teleguidati da 10 chilometri di distanza, per cui uno solo può colpire e l’altro solo subire. Ma anche concettualmente questo vale nel senso che se tu, non democratico, colpisci un soldato sei un criminale e vai giudicato come tale.
Un’altra caratteristica delle guerre democratiche è che manca l’essenza della guerra e cioè il combattimento. Gli occidentali non sono più in grado di affrontare il combattimento, la vista del corpo a corpo gli fa orrore, ritengono questo immorale, ritengono invece morale colpire con un missile da 300 chilometri di distanza e uccidere duemila persone.
Le democrazie in questa loro aggressività nei confronti di tutti i mondi altri che hanno altre concezioni della vita, della morte e altre tradizioni è una sorta di totalitarismo perché noi non siamo più in grado di accettare il diverso, l’altro. La concezione è che siamo una cultura superiore, che è la moderna declinazione del razzismo essendo quella classica dopo Hitler diventata improponibile, e quindi abbiamo il diritto e il dovere di portare le buone maniere agli altri popoli. Questo è un totalitarismo tanto più pericoloso perché inconscio, il pericolo non è Bush o chi per lui, ma è Emma Bonino, chi ci crede a queste cose, che noi si sia possessori di diritti assoluti validi per tutti. Ed è particolarmente doloroso perché noi non veniamo solo come si dice dalla cultura giudaico – cristiana, ma alle nostre spalle c’è un’altra cultura messa in disparte che è la cultura greca, la prima a riconoscere il diritto di esistenza e di dignità dell’altro. Quando Erodoto parla dei persiani li descrive come crudeli, barbari, ma non si sognerebbe mai di applicare i costumi greci ai persiani, i persiani sono persiani, i greci sono i greci. Invece noi abbiamo la pretesa di omologare l’intero esistente alla nostra way of life. Ripeto, questo quando si è in buona fede, in malafede queste guerre hanno ragioni economiche. Abbiamo bisogno di conquistare, essendo i nostri mercati saturi, sempre nuovi mercati per quanto poveri.
La politica dei due pesi e delle due misure
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica le democrazie hanno avuto le mani libere e hanno fatto tutte le guerre che hanno voluto con i più vari pretesti, in Serbia c’era la questione del Kossovo, in Afghanistan c’era Bin Laden,sono passati 11 anni e Bin Laden non c’è più da tempo. In Libia c’era il dittatore, peraltro corteggiato fino al giorno prima. Hanno potuto esprimere nel modo più violento la propria aggressività e i propri interessi che sono interessi imperiali. Una volta le potenze quando volevano una cosa mandavano le cannoniere e se le prendevano. Adesso pretendiamo di fare la guerra e di farla per il bene di coloro che bombardiamo, uccidiamo, assassiniamo o devastiamo, è una specie di Santa Inquisizione planetaria ed è questo che è intollerabile, l’ipocrisia di queste guerre. Le guerre si sono sempre fatte, ma una volta avevano almeno quasi una loro etica.
La Siria non la attacchiamo perché è protetta in qualche modo dalla Russia e dalla Cina e questo dice che i nostri interventi umanitari in realtà non sono tali, noi interveniamo laddove non ci sono rischi, dividiamo il mondo in figli e figliastri. Alcuni devono essere puniti e altri che ne fanno di peggio invece la passano liscia. Chi attaccherebbe la Russia per il genocidio ceceno, 250 mila morti e cioè un quarto della popolazione? Qui viene dimostrata tutta l’ipocrisia di questa storia dei diritti umani. I diritti umani sono solo un grimaldello per intervenire nei Paesi in cui ci interessa intervenire.
Potrebbe essere che il prossimo bersaglio, ci sono tamburi di guerra da tempo, sia l’Iran, anche qui con giustificazioni che non hanno alcun senso. L’Iran ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, accetta le ispezioni dell’IAEA che sono le ispezioni O.N.U., l’agenzia che regola le produzioni atomiche, e non ha mai superato il 20 per cento di arricchimento dell’uranio, per fare la bomba ci vuole il 90 per cento. Però è sotto scacco in continuazione. Israele che ha la bomba atomica invece viene lasciato assolutamente tranquillo. E’ una politica di due pesi e due misure che incita anche paesi musulmani, anche gente che non è radicale a radicalizzarsi perché è talmente evidente la politica dei due pesi e delle due misure, la violenza che noi continuamente esercitiamo che alla fine uno diventa terrorista.
Sì se si attaccherà l’Iran sarà la Terza guerra mondiale, è molto rischioso per le democrazie attaccare l’Iran perché saltano anche tutte le alleanze più o meno forzate che hanno con i paesi cosiddetti moderati, che poi moderati spessissimo non sono. Salterebbe l’alleanza con la Giordania, l’Arabia Saudita, l’Egitto e quindi sarebbe veramente la Terza guerra mondiale ma una guerra particolare sperequata, perché dalla nostra parte c’è questo armamento straordinario e dall’altra ci sono popolazioni da questo punto di vista molto più deboli, ma anche molto più numerose. E’ abbastanza grottesco da fuori Paesi seduti su arsenali atomici incredibili facciano la voce grossa con l’Iran perché ipoteticamente può fare l’atomica.
In realtà noi, inseguendo un pericolo immaginario, cioè l’Afghanistan che non è mai uscito dai suoi confini, che ha una tradizione di non aggressività nei confronti dei Paesi vicini, abbiamo creato un pericolo reale che è il Pakistan perché questo radicalismo religioso si è trasferito al Pakistan, solo che il Pakistan, a differenza dell’Afghanistan che è armato in modo antidiluviano, ha la bomba atomica e non solo ma proprio per la sua posizione di potenza regionale ha una concezione politica molto meno localizzata di quanto abbia l’Afghanistan. Quindi inseguendo un pericolo immaginario, l’Afghanistan, ne abbiamo creato uno reale, il Pakistan e se gli integralisti prendessero potere in Pakistan sì allora sarebbero cazzi acidi per tutti perché questi hanno l’atomica, gli altri hanno il loro corpo e qualche granata.
Verranno spazzati via
L’aggressione al cosiddetto grillismo, all’antipolitica, a quella che viene chiamata l’antipolitica è in realtà un segnale della paura che una classe dirigente che da trenta anni ha fatto abusi, soprusi, ruberie, il sacco del Paese,la paura da cui è stata presa di essere spazzata via e quindi, mentre prima potevano anche ignorare un movimento come quello di Grillo, adesso non lo ignorano affatto, naturalmente lo demonizzano così come demonizzano chi non va a votare. Chi ha deciso di andare a votare nelle ultime amministrative è stato il 40 per cento. È un segno della paura del regime di essere spazzato via perché c’è in giro, Grillo o non Grillo, una collera notevole da parte della popolazione che alla fine si è resa conto che questa democrazia dei partiti non è affatto una democrazia, ma un sistema che ha privilegiato una classe dirigente indecente e ha impoverito il paese. E questa crisi spinge le persone a ragionare e a ribellarsi. La reazione, scomposta, degli esponenti del regime dice che ne hanno molta paura, poi non so come verranno spazzati via, però io penso che verranno spazzati via, che non basterà chiamarsi Partito nazionale della Nazione come fa Casini perché uno dimentichi le responsabilità di Casini, di tutti i casini che ci sono stati e ci sono nella classe politica italiana.
Quello che vorrei dire saltando un attimo la politica italiana è che c’è una guerra infame che si combatte, anzi non si combatte da 11 anni in Afghanistan contro un Paese. Non è la guerra in Afghanistan, è una guerra all’Afghanistan e senza che ci siano proteste alcune perché gli afgani non hanno santi in paradiso, non sono comunisti, non sono liberali, non sono arabi, non sono cristiani, non sono ebrei e quindi si può fare loro carne di porco. Sono 65 mila oggi i civili uccisi in Afghanistan direttamente o indirettamente dalla nostra occupazione, a parte i disastri che abbiamo combinato dal punto di vista sociale. La disoccupazione durante il governo talebano era l’8 per cento e adesso è al 40 per cento, in alcune regioni all’80 per cento. Abbiamo cercato di comprarlo in tutti i modi. Abbiamo corrotto moralmente un Paese che aveva una sua integrità, mi piacerebbe che su questo problema si fosse più sensibili e, siccome si bada solo alle ragioni economiche, ricorderò che noi spendiamo un miliardo di Euro all’anno per tenere inutilmente i nostri soldati lì, per ammazzare e farci ammazzare, ora con un miliardo non di risana un’economia di un Paese ma qualche buco lo si potrebbe anche turare. E’ una guerra ripeto infame di cui però non sento in genere, non vedo né in Italia né in Europa né in Occidente qualcuno che dica una parola contro questa guerra.
di Massimo Fini
26 aprile 2012
Ora i BRICS contano nel cambiamento dell'ordine mondiale
Ora i BRICS contano nel cambiamento dell’ordine mondiale
I BRICS stanno avendo un’influenza crescente sulla governance globale. Il tema del 4° Summit “Cooperazione tra i BRICS per la stabilità, la sicurezza e la crescita globale”, ha mostrato il suo intento strategico attraverso un’interpretazione alternativa dell’interdipendenza. La Dichiarazione di Delhi ha elementi che, in primo luogo, hanno una dimensione economica anche se sono, essenzialmente, politici, e propongono un nuovo sistema multilaterale. I toni strategici hanno causato una cauta risposta degli Stati Uniti, riconoscendo in questo modo che un mondo multipolare è emerso, mentre la leadership globale americana è sempre più debole.
Finora l’attenzione dei BRICS si è concentrata sul riformare le strutture di governance delle organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, pur permettendo loro di mantenere un ruolo centrale. La decisione di lavorare sulla creazione di una Banca dello Sviluppo per le infrastrutture e la crescita sostenibile risponde alle emergenti necessità mondiali meglio del “Washington consensus” col suo focus sul settore sociale e concomitanti condizionamenti. L’inclusione di aiuti d’emergenza in caso di disastri o crisi finanziarie, come anche la condivisione del rischio, di fatto ridefinisce la politica internazionale di sviluppo.
Un primo passo è stato fatto verso una nuova politica monetaria internazionale. La decisione di collegare i mercati e creare un’integrazione finanziaria delle loro economie gestendo i 230 miliardi di dollari del commercio intra-BRIC, che arriverà a 500 miliardi di dollari nel 2015, attraverso l’estensione del credito in valute locali e derivati su indici azionari di riferimento, consentirà investimenti senza rischi di cambio mentre si intrecciano le borse valori. Eliminando il passaggio intermedio della conversione in dollari, si riduce il suo ruolo nelle contrattazioni tra i BRICS, ed il commercio stesso risulta indipendente dal valore della valuta americana, il che avrà un forte impatto sulla sua importanza globale. Per la prima volta le economie avanzate sono state invitate “ad attuare politiche macroeconomiche e finanziarie responsabili, ad evitare di creare eccessiva liquidità a livello mondiale ed intraprendere riforme strutturali per aumentare la crescita e, di consequenza, creare posti di lavoro”. La Dichiarazione ha sostenuto anche “un processo di selezione basato sul merito” per i capi del FMI e della Banca Mondiale, posti riservati dal 1950, per consuetudine, rispettivamente ad un’europeo ed ad un americano.
Sta inoltre emergendo una nuova politica di sicurezza internazionale, con la richiesta di “un processo politico inclusivo” in Siria, che contempla anche una transizione democratica per quel paese. La risoluzione sostiene anche per l’Iran “il dialogo e mezzi politici e diplomatici tra le parti coinvolte” ed inoltre riconosce il diritto iraniano ad accedere all’energia nucleare per usi civili. Sull’Iran, i BRICS hanno chiarito che seguiranno le risoluzioni delle Nazioni Unite e non le leggi nazionali di nessun paese (vedi gli Stati Uniti). Si tratta di una mossa ostile ai cambiamenti selettivi di regime attraverso le azioni multilaterali, come è stato fatto in Libia, e porta le deliberazioni dei BRICS nella sfera politica.
Questi risultati hanno colto di sorpresa i commentatori. Non più tardi dello scorso anno, Joseph Nye, dell’Università di Harvard, sosteneva che i BRICS avevano profonde divisioni politiche e che avrebbero contribuito veramente in misura minima alle relazioni tra le potenze nel lungo termine. Martin Wolf, del Financial Times, sosteneva anche che “non hanno niente in comune” e che non sono “alleati naturali”, perché la differenza di valori è molto forte, e quindi non c’è ragione di aspettarsi un accordo su qualche cosa di sostanziale a livello mondiale, a parte il fatto di pensare che le potenze dominanti devono cedere parte della loro influenza e potere. Un recente articolo del New York Times prevede che paesi singoli e “non blocchi artificiali” daranno forma alla governance globale, e che il Summit era solo un’opportunità per scattare qualche foto. Più arguto è l’argomento secondo cui, visto che i BRICS hanno tutti un un rapporto strategico con gli USA e, al momento, considerano il loro legame con Washington più importante di quello con qualsiasi altra capitale, non vedono nessuna utilità nel sfidare il leader del mondo occidentale. Certamente i BRICS sono stati finora reattivi piuttosto che proattivi. Ad ogni modo, la dinamica attuale è che i paesi BRICS stanno guadagnando forza e capacità di esercitare influenza attraverso, soprattutto, il potere economico, piuttosto che quello militare. I paesi BRICS hanno pesato per più del 50% sulla crescita economica globale nell’ultimo decennio e Goldman Sachs prevede che il loro potenziale economico sarà più grande di quello dei G7 nel 2035. Focalizzandosi sull’integrazione economica, stanno anche spostando gli equilibri di potenza, e superando le differenze bilaterali. Ad esempio, la Cina è già il partner commerciale più importante per l’India ed insieme hanno convenuto di mettere da parte le differenze per ciò che riguarda la disputa confinaria, e concentrarsi sulla crescita degli scambi e dei legami d’investimento. Il risultato del Summit è un’indicatore che una collettività sta emergendo, una tendenza verso una migliore coordinazione e più equa governance globale; e finchè l’ordine attuale, plasmato dagli Stati Uniti, sarà al servizio degli interessi nazionali dei paesi sviluppati, qualche tensione sarà inevitabile.
Nel mondo di oggi, dati i limiti ecologici alla crescita, la sicurezza e la prosperità non possono essere più garantite solo dalla forza militare o dalla ricchezza economica, ma dall’abilità di gestire l’azione collettiva attraverso un approccio regolamentato e associato. Per una leadership globale, i BRICS avranno bisogno di una visione strategica che risponda alle preoccupazioni del mondo povero, e che non sia limitato, solo, dal portare avanti i propri interessi nazionali. Nelle istituzioni di Bretton Woods possono, ad esempio, chiedere una revisione dei parametri di controllo, delle condizioni e un focus sullo sviluppo sostenibile invece che su considerazioni strettamente ambientali. All’interno delle Nazioni Unite possono andare oltre la divisione tra paesi in via di sviluppo e quelli già sviluppati, per istituire un nuovo obiettivo per lo sradicamento della povertà entro il 2050. L’attuale enfasi sui diritti umani definiti in termini di diritti politici e procedurali avrà bisogno di essere completata da un’enfasi analoga sui diritti sociali ed economici basati sulle eque opportunità per tutti. L’attenzione data alla redistribuzione sarà inedita, visto che è stata esclusa così a lungo dall’agenda internazionale.
Il termine BRICS fu coniato dalla Goldman Sachs nel 2001 con riferimento alle politiche economiche. Ovviamente, non hanno immaginato che in un mondo globalizzato, influenza e potere sarebbero divenuti sempre più definiti in termini economici. Il primo incontro dei BRICS avvenne nel 2009, a seguito della crisi economica globale. Vista la crescita economica ed il centro di gravità politico che continua a cambiare, i BRICS hanno già un ruolo maggiore nell’affrontare i cambiamenti transnazionali, con la spartizione d’influenza e potere nell’architettura internazionale del G20. Per la leadership globale i BRICS dovranno sposare i valori universali che riflettono le preoccupazioni dei paesi poveri.
(Traduzione di Lorenzo Giovannini)
di Mukul Sanwal
NOTE:
Mukul Sanwal è un ex funzionario civile e diplomatico.
25 aprile 2012
L'Argentina peronista nazionalizza l'industria petrolifera e butta fuori spagnoli e italiani
“Che bello vivere in un mondo dove non esiste più la guerra fredda. E sarebbe ancora più bello vivere in un mondo in cui non esiste neppure la guerra. Per il momento prendiamo atto che c’è la guerra calda e quindi ci adattiamo al territorio. Si tratta, pertanto, di interessi strategici nazionali, perché si tratta di difendere gli interessi della nazione e il futuro e il destino dei nostri figli e nipoti. Così si costruisce la base della democrazia diretta. E’ bene che chi ha orecchie senta molto bene, perché si volta pagina. Le nostre risorse, la nostra ricchezza, la nostra industria, i nostri prodotti, sono prima di tutto: nostri. Cioè degli imprenditori e dei lavoratori. Della nazione. E lo Stato ne garantisce la sovranità e li cautela”.
Sembra un bollettino di guerra, e infatti lo è.
E’ la prima parte di un discorso ufficiale della presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, nel quale, ieri mattina 16 aprile, ha annunciato l’espropriazione e la nazionalizzazione definitiva dell’azienda “Yacimientos Petroliferos Fiscales” meglio nota come YPF, la cui contrastata e discussa gestione apparteneva alla iberica Repsol, di proprietà del governo spagnolo e gestita da una holding europea finanziata dalla BCE attraverso la compartecipazione di Banco Santander, Banco de Bilbao, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Milano, Societe Generale, Credit Agricole, Eni, Deutsche Bank.
“Un gravissimo colpo per l’economia spagnola e per l’Europa, un atto incivile che noi protestiamo e che porteremo sul tavolo della prossima riunione giovedì 19 aprile del Fondo Monetario Internazionale” ha dichiarato Rubèn Soquera di Repsol a Madrid.
Axel Kicillov, vice-ministro dell’economia è ufficialmente la persona incaricata dal punto di vista tecnico-fiscale a gestire il passaggio delle quote, di cui il 51% andrà al Banco de la Naciòn e il 49% andrà alle regioni nelle quali si trovano i pozzi petroliferi. Il prezzo stabilito dagli spagnoli si aggira sui 18 miliardi di euro, mentre il calcolo effettuato dagli argentini (va da sé) è di molto inferiore e il prezzo definitivo sarà l’unico punto sul quale si svolgerà la discussione. E’ stata presentata, infatti, una legge in parlamento che verrà approvata con una maggioranza totale, intorno all’88%: tutti i partiti eletti l’appoggiano.
Julio de Vido, ministro della Pianificazione sociale e dello sviluppo economico ha dichiarato: “per cinquecento anni gli europei, prima con i conquistadores, poi con le banche italiane, poi con l’esercito inglese e infine con la finanza speculativa gestita dalla BCE e da Wall Street, hanno rubato al popolo argentino le risorse naturali di oro, argento, petrolio, zucchero, limoni, acqua, soia, pellame, per costruire la propria ricchezza spropositata con un’ottica schiavista e miope, tant’è vero che l’Europa sta affondando schiacciata in una crisi che non ha sbocchi. E’ arrivato il momento che le nazioni si riapproprino della sovranità nazionale dando al popolo la proprietà di ciò che è loro: i prodotti del territorio nazionale. Lo Stato si fa garante e gestisce le risorse come bene comune da condividere per avere i soldi e lanciare un piano di grandi massicci investimenti per la costruzione di lavoro, occupazione e ripresa”.
E’ con questo atto (meticolosamente preparato e -con grande effetto politico- presentato pubblicamente alla vigilia dell’incontro internazionale di Washington del Fondo Monetario Internazionale) che la Kirchner si prepara al suo viaggio in Usa, dove va a scontrarsi con il suo nemico pubblico n.1: Christine Lagarde, presidente del Fondo.
L’annuncio ha gettato nello scompiglio la borsa di Madrid, perché la Repsol perde l’8,2% e la società italiana Tenaris quotata a Milano va sotto del 4,5%, essendo la Tenaris impegnata come società delegata alla tecnica di estrazione e raffinazione del greggio.
Attraverso quest’atto, l’Argentina ha calcolato che risparmierà 8 miliardi di euro nei soli sei mesi del 2012 e 22 miliardi nel 2013. I 30 miliardi così ottenuti verranno investiti per la costruzione di grandi opere di infrastruttura nelle sei regioni dove c’è petrolio. In un messaggio a sorpresa (annunciato soltanto qualche ora prima) la presidente ci ha tenuto a comunicare la scelta direttamente alla nazione in un messaggio diramato su tutte le televisioni, sia in terrestre che in satellitare digitale. Il progetto è stato definito "Soberanía hidrocarburífera de la República Argentina", (sovranità nella gestione degli idrocarburi della Repubblica Argentina) e sostiene che “l’obiettivo primario consiste nell’essere totalmente autosufficienti nel settore energetico per garantire la libertà, l’indipendenza e il diritto all’esercizio della sovranità dello Stato centrale. Ci tengo a precisare che il fine ultimo non consiste nella nazionalizzazione bensì nel recupero immediato della sovranità e controllo delle risorse prodotte dai singoli territori nazionali”.
L’impatto di tale atto ha prodotto una gigantesca scossa tellurica nel settore economico in tutto il continente, soprattutto nelle nazioni più povere del centro-america, Ecuador, Guatemala, Honduras, Costa Rica, dove le multinazionali statunitensi e italiane sono proprietarie del 95% della produzione locale di banane, mangos, ananas, per produrre i succhi di frutta che l’occidente beve e che poi distribuisce con i propri marchi nazionali.
A conclusione del discorso, la Kirchner, in conferenza stampa ci ha tenuto ad aggiungere la chicca demagogica che sta diventando il fiore all’occhiello del Sudamerica e del Mercosur (sarebbe il corrispondente sudamericano dell’Unione Europea: Argentina, Cile, Bolivia, Paraguay, Uruguay, Perù, Brasile e Venezuela) ricordando con enfasi che “l’Argentina è per il momento l’unico ma speriamo soltanto il primo di una lunga lista di paesi al mondo che non importa nulla dalla Cina perché noi produciamo in patria. Nel nostro territorio non esiste nessun manufatto sul quale è scritto made in China: noi siamo umanamente, politicamente e culturalmente contro lo schiavismo che abbiamo sempre combattuto e seguiteremo a combattere sempre. Siamo per l’autodeterminazione dei popoli e per il ripristino della sovranità nazionale”.
Due giorni fa, il ragionier ultra-liberista Mario Monti ha fatto sapere che non parteciperà alla riunione internazionale del Fondo Monetario.
In Argentina (e in tutto il Sudamerica) la notizia è stata abbondantemente commentata come una manifestazione di debolezza e vigliaccheria dell’Italia come nazione.
“Hanno paura di presentarsi a un dibattito internazionale. Sanno di essere esposti. E’ iniziata la rivolta degli schiavi. E’ la fine di un’epoca. Monti e i suoi amici possono esibire soltanto e unicamente le impietose cifre di un colossale fallimento economico, politico, culturale che sta mettendo in ginocchio il Mediterraneo uccidendone la grande civiltà. Ma soprattutto esistenziale. In Europa si suicidano. Da noi si va a ballare il tango esaltati dal senso ritrovato di una identità nazionale”. Così si legge nell’editoriale di Pagina ½, la più radicale pubblicazione argentina che per lunghi anni è stata la fiera opposizione intellettuale contro la Kirchner ma che ha cominciato ad appoggiarla da un anno a questa parte, da quando la presidente ha scelto e deciso di andare da sola all’attacco del Fondo Monetario Internazionale e della BCE: E’ proprio guerra dichiarata.
Notoriamente vezzosa, avida di scarpe e costosi abiti dei migliori sarti francesi, la Kirchner (che è femminista) intervenendo a un seminario sul lavoro femminile e sulla parità di genere dei salari, fortemente sollecitata a dare un’opinione sulla Lagarde, ha detto: “Ragazze, non pungolatemi troppo. Ciascuno fa le proprie scelte. Posso dire soltanto una cosa, ma è una mia opinione: non sa vestirsi e non ha gusto”.
Il che, detto e inviato a una aristocratica signora nata e cresciuta a Parigi, è davvero clamoroso.
Non vi è dubbio: è iniziata la rivolta degli schiavi.
Come dire. Il sud del mondo bussa alla porta del ricco settentrione..
E non è certo un caso che tutto ciò avvenga nella più meridionale nazione del pianeta Terra, più sotto c’è soltanto il polo sud.
Ma per il momento, gli iceberg sembrano aggirarsi nel Mar Mediterraneo.
di Sergio Di Cori Modigliani
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