06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini

05 maggio 2012

Nelle banche svizzere i 50 miliardi che Monti non vuole

I soldi sono lì, a portata di mano, facili da incassare. E tutti in una volta, senza stare a racimolare un miliardo qua e uno là tra accise sulla benzina e i blitz utili, e spettacolari, come quello di ieri della Guardia di Finanza negli agriturismi in vista del ponte del Primo maggio. Nelle casse delle banche svizzere si stima ci siano almeno 150 miliardi di euro degli evasori italiani e lo Stato potrebbe prendersene fino a 50. Ma al governo non sembrano interessare. “Full compliance”, piena conformità. È questa l’espressione che toglie ogni alibi al governo Monti. Nella conferenza stampa di mezzogiorno del 17 aprile il commissario europeo alla Fiscalità, Algirdas Šemeta, spiega ai giornalisti che gli accordi di Gran Bretagna, Germania e Austria con la Svizzera sono compatibili con il diritto comunitario . E quindi nel 2013 produrranno i loro effetti. Partiamo dalla fine: il 13 aprile l’Austria firma l’accordo con la Svizzera. Funziona così: nei forzieri elvetici ci sono almeno 20 miliardi di euro Montiaustriaci frutto di evasione. I residenti austriaci titolari dei conti o i beneficiari dei trust e degli altri strumenti giuridici per nascondere le tracce, se vogliono mantenere i loro capitali in Svizzera dovranno pagare una sanzione una tantum del 30%, modulata poi a seconda della durata dei depositi, che può nella pratica oscillare tra il 15 e il 38%. È una specie di condono fiscale, è vero, ma di entità ben diversa da quel 5% applicato da Giulio Tremonti ai suoi tempi. E soprattutto gli effetti continuano: tutti i proventi dei capitali e degli altri strumenti finanziari (dai dividendi ai capital gain) saranno tassati al 25% ogni anno. La Svizzera si accolla il ruolo di esattore per conto dell’Austria e in cambio conserva il segreto bancario, l’unico vero strumento che le è rimasto per attirare i capitali nel Paese (visto che spesso derivano da evasione fiscale o altre pratiche illecite). Il governo di Berna si trova infatti sotto pressione, soprattutto dagli Stati Uniti, per rivelare i segreti dei conti bancari (celebre il caso di Ubs, che è stata costretta a farlo, in piccola parte). Preferisce quindi agire da sostituto d’imposta, ma tenere un po’ di riservatezza. Da mesi ci sono trattative tra Berna, la Germania e la Gran Bretagna che hanno raggiunto accordi simili. L’applicazione si stava complicando perché la Commissione europea temeva gli effetti distorsivi di provvedimenti che, di fatto, sanano le posizioni illecite del passato. “Ma si è trovato un escamotage, i pagamenti una tantum vengono presentati come l’acconto di quanto verrà chiesto a chi ha soldi in Svizzera dopo l’approvazione di un accordo complessivo tra i 27 Paesi Ue che il commissario Šemeta continua ad auspicare”, spiega Rita Castellani, una delle animatrici dell’iniziativa “Operazione Guardie Svizzere” per fare pressione sul governo italiano. In Germania la Spd, il partito socialdemocratico, si è opposta all’accordo negoziato dal governo di Angela Merkel e ha ottenuto condizioni ancora più punitive per gli evasori: un prelievo una tantum tra il 21 e il 41% (invece che tra il 19 e il 34) e una patrimoniale colossale del 50% per chi eredita un conto svizzero e non lo dichiara al fisco tedesco. Le associazioni dei contribuenti in Germania, Algirdas Šemetaall’inizio scettiche, ora sono entusiaste della formulazione dell’accordo e chiedono la sua immediata applicazione. I l flusso di denaro verso Berlino comincerà nel 2013. Pochi giorni fa il ministro delle Finanze elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, ha detto in un’intervista che “la Svizzera sta portando avanti con Italia e Francia il tema della tassazione degli asset detenuti in conti svizzeri da cittadini dei due Paesi, ma un negoziato formale deve ancora iniziare”. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti aveva concentrato, con un certo successo, le sue attenzioni soprattutto su San Marino. E il governo Monti ha chiarito la sua posizione all’inizio del mandato: favorevole agli accordi con la Svizzera per far pagare gli evasori ma nel quadro di un’intesa comunitaria, anche per non incorrere nel rischio di sanzioni da parte della Commissione Ue. La quale però adesso ha dato il via libera. E l’accordo fatto dall’Austria toglie ogni alibi all’Italia. A cui un po’ di gettito in più, nel 2013, farebbe comodo visto che la recessione farà diminuire le entrate attese su cui è stata impostata l’ultima manovra Salva Italia. di Mattia Feltri Il fatto quotidiano

04 maggio 2012

"Sull’orlo del baratro", la crisi dell’euro secondo Alain de Benoist

Debito pubblico, crisi greca, tassi d’interesse, creazione del denaro, sovranità economica. Nel suo ultimo libro "Sull’orlo del baratro", da pochi giorni in libreria, lo scrittore francese Alain de Benoist analizza attraverso tutte queste variabili la situazione economica europea e globale. de benoist È appena uscito l'ultimo libro del pensatore francese Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro È uscito da pochi giorni nelle librerie Sull’orlo del baratro, l’ultimo lavoro dell’autore francese Alain de Benoist. Pensatore decisamente anticonformista, da sempre vicino ai temi della decrescita, del comunitarismo e fortemente critico nei confronti del sistema socioeconomico fondato sui postulati del liberal-capitalismo, de Benoist non si è astenuto da una puntuale analisi sulla crisi dell’euro in atto, alla quale fa da sfondo un più ampio collasso del sistema-Europa. L’autore transalpino è stato recentemente in Italia per presentare il suo libro e per partecipare alla trasmissione di La7 L’infedele, dedicata alla crisi finanziaria europea. La sua disamina parte da un’inquietante previsione: la recessione iniziata nel 2008 è ben lungi dal risolversi e, alla fine, i suoi effetti saranno più devastanti del crack del 1929. La prima fase è stata caratterizzata da un deciso processo di virtualizzazione dell’economia e dalla scomparsa, di fatto, dell’economia reale. Questo è stato possibile grazie all’esplosione del debito privato. La seconda fase, che stiamo attraversando oggi, ha visto spostarsi il problema sul debito pubblico: quello dell’eurozona è aumentato del 27% negli ultimi quattro anni e oggi sono ben otto i paesi membri il cui rapporto fra debito e PIL supera l’80%. Una situazione che, conti alla mano, è più grave di quella che ha immediatamente seguito la Seconda Guerra Mondiale. De Benoist prosegue con una breve analisi del proprio paese, la Francia, impegnata fra l’altro in un delicato passaggio elettorale. Lì, il deficit è aumentato del 30% negli ultimi quattro anni e, se nel 1979 rappresentava solo il 2% del Pil, oggi è arrivato all’8,4%, a cui vanno aggiunti gli investimenti del 2011, già effettuati ma non ancora conteggiati. In questo perverso meccanismo, l’aspetto più critico è quello relativo agli interessi sul debito, che rappresentano un fardello che grava oggi e graverà in futuro sulle generazioni a venire, determinando la perdita della sovranità economica da parte dello Stato e quindi del popolo. crisi greca Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali L’analisi prosegue volgendo uno sguardo più generico alla crisi del debito: il passaggio dal pubblico a quello privato è avvenuto con i mastodontici piani di salvataggio che i Governi – inglese, americano e altri – hanno dovuto approntare per soccorrere le numerose banche private che hanno rischiato il default fra il 2008 e il 2009. A questo scopo, fra il 2008 e il 2010 le banche centrali hanno iniettato 500 miliardi di dollari nell’economia mondiale. Come un cane che si morde la coda, la situazione finanziaria degli Stati nazione ha cominciato a peggiorare: le entrate diminuivano e i prestiti aumentavano, secondo i meccanismi della politica di deregolamentazione che fu inaugurata negli anni ottanta dai governi Reagan e Thatcher e che per tre decenni è stata alimentata dalle lobby finanziarie internazionali. Così, il capitale è uscito dalla sfera produttiva sganciandosi dall’economia reale, i salari si sono abbassati, le barriere doganali sono state progressivamente eliminate, i prezzi hanno perso stabilità. Le conseguenze? Delocalizzazione, deindustrializzazione con conseguente disoccupazione, fuga di capitali, precarizzazione del lavoro. Si è così consolidato un sistema socioeconomico caratterizzato da una profonda disuguaglianza, in cui la ricchezza è destinata alla fetta più sottile, già benestante, della popolazione mondiale. Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali. Arbitri di questa contesa sono le agenzie di rating – le tre principali dominano il 90% del settore. Si tratta però di giudici tanto influenti quanto parziali: non sono indipendenti, bensì strettamente legate alle banche private, nonostante i prodotti che devono valutare siano emessi proprio da queste ultime. Inoltre, il potere che le agenzie esercitano nei confronti degli Stati è enorme, poiché esse hanno il compito di valutare la solvibilità dei prestiti. Ancora più perverso è il meccanismo di finanziamento delle operazioni di acquisto del debito pubblico, oggi in buona parte posseduto dalle banche private. Queste ultime hanno infatti prestato denaro ai governi a tassi di mercato, prendendolo però a loro volta dalle banche centrali a condizioni estremamente favorevoli. In Europa, la differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme: l’1% nel primo caso, il 7% nel secondo. In questo modo gli Stati diventano volontariamente debitori degli istituti privati, ponendosi in loro potere. I regolamenti internazionali aggravano ulteriormente la situazione: per gli Stati i prestiti a lungo termine sono gravati da tassi d’interesse insostenibili; gli unici organismi che concedono tassi più contenuti sono FMI e BCE, ma la contropartita da pagare è pesantissima e consiste nell’applicazione di rigide misure di politica economica. In questo consiste l’austerity, che provoca però la diminuzione dei redditi, quindi la deflazione e, come conseguenza finale, il blocco della crescita economica. È la “strategia dello shock”: aumentano le tasse, diminuisce la spesa pubblica, vengono tagliati i servizi. In tutti i paesi che subiscono questa imposizione si verifica quindi un passaggio di sovranità, che dal popolo si trasferisce ai creditori privati. bce La differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme Il rischio, che al contrario potrebbe essere interpretato come l’unica via d’uscita, è che la base reagisca: rivolte popolari contro l’austerità o decise prese di posizione dei governi finalizzate al ripudio del debito sono le opzioni. In questo senso, ciò che sta accadendo in questi mesi in Grecia non è che un’anticipazione di quanto potrebbe succedere in futuro in molti dei paesi europei, fra cui anche l’Italia. A trovarsi in pericolo è lo stesso euro: per la Grecia, così come per gli altri Stati, si tratta solo di una trappola che ha l’unico effetto di bloccare le esportazioni. Inoltre, gli aggiustamenti di politica economica non possono più appoggiarsi alla svalutazione della moneta nazionale e devono quindi colpire i prestiti e l’occupazione. In questa tragica situazione è il patrimonio fisico del paese a rischiare di scomparire o meglio di essere svenduto; per esempio per la Grecia la contropartita per gli aiuti ricevuti è stata una robusta campagna di privatizzazioni. Diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, tagli sociali e alla sanità, stipendi dimezzati sono le altre misure di austerità imposte. Così facendo però si rinvia solo una scadenza inevitabile, la malattia non può essere curata con le stesse cause che l’hanno generata. Nel caso della Grecia, l’unica alternativa al collasso completo è l’uscita dall’euro. In Europa, così come nel paese ellenico, le uniche vittime della politica dell’austerità saranno le classi popolari e medie. Non ci saranno effetti risolutivi, poiché, molto semplicemente, nessun paese all’oggi è in grado di rimborsare il proprio debito. Il dubbio che cominciano a porsi molti è ancora più preoccupante: cosa succederà quando Stati estremamente potenti dal punto di vista geopolitico – gli Stati Uniti tanto per non fare nomi – si troveranno insolventi? Quanto ci vorrà prima che il conflitto si sposti dal piano finanziario a quello militare? di Francesco Bevilacqua

06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini

05 maggio 2012

Nelle banche svizzere i 50 miliardi che Monti non vuole

I soldi sono lì, a portata di mano, facili da incassare. E tutti in una volta, senza stare a racimolare un miliardo qua e uno là tra accise sulla benzina e i blitz utili, e spettacolari, come quello di ieri della Guardia di Finanza negli agriturismi in vista del ponte del Primo maggio. Nelle casse delle banche svizzere si stima ci siano almeno 150 miliardi di euro degli evasori italiani e lo Stato potrebbe prendersene fino a 50. Ma al governo non sembrano interessare. “Full compliance”, piena conformità. È questa l’espressione che toglie ogni alibi al governo Monti. Nella conferenza stampa di mezzogiorno del 17 aprile il commissario europeo alla Fiscalità, Algirdas Šemeta, spiega ai giornalisti che gli accordi di Gran Bretagna, Germania e Austria con la Svizzera sono compatibili con il diritto comunitario . E quindi nel 2013 produrranno i loro effetti. Partiamo dalla fine: il 13 aprile l’Austria firma l’accordo con la Svizzera. Funziona così: nei forzieri elvetici ci sono almeno 20 miliardi di euro Montiaustriaci frutto di evasione. I residenti austriaci titolari dei conti o i beneficiari dei trust e degli altri strumenti giuridici per nascondere le tracce, se vogliono mantenere i loro capitali in Svizzera dovranno pagare una sanzione una tantum del 30%, modulata poi a seconda della durata dei depositi, che può nella pratica oscillare tra il 15 e il 38%. È una specie di condono fiscale, è vero, ma di entità ben diversa da quel 5% applicato da Giulio Tremonti ai suoi tempi. E soprattutto gli effetti continuano: tutti i proventi dei capitali e degli altri strumenti finanziari (dai dividendi ai capital gain) saranno tassati al 25% ogni anno. La Svizzera si accolla il ruolo di esattore per conto dell’Austria e in cambio conserva il segreto bancario, l’unico vero strumento che le è rimasto per attirare i capitali nel Paese (visto che spesso derivano da evasione fiscale o altre pratiche illecite). Il governo di Berna si trova infatti sotto pressione, soprattutto dagli Stati Uniti, per rivelare i segreti dei conti bancari (celebre il caso di Ubs, che è stata costretta a farlo, in piccola parte). Preferisce quindi agire da sostituto d’imposta, ma tenere un po’ di riservatezza. Da mesi ci sono trattative tra Berna, la Germania e la Gran Bretagna che hanno raggiunto accordi simili. L’applicazione si stava complicando perché la Commissione europea temeva gli effetti distorsivi di provvedimenti che, di fatto, sanano le posizioni illecite del passato. “Ma si è trovato un escamotage, i pagamenti una tantum vengono presentati come l’acconto di quanto verrà chiesto a chi ha soldi in Svizzera dopo l’approvazione di un accordo complessivo tra i 27 Paesi Ue che il commissario Šemeta continua ad auspicare”, spiega Rita Castellani, una delle animatrici dell’iniziativa “Operazione Guardie Svizzere” per fare pressione sul governo italiano. In Germania la Spd, il partito socialdemocratico, si è opposta all’accordo negoziato dal governo di Angela Merkel e ha ottenuto condizioni ancora più punitive per gli evasori: un prelievo una tantum tra il 21 e il 41% (invece che tra il 19 e il 34) e una patrimoniale colossale del 50% per chi eredita un conto svizzero e non lo dichiara al fisco tedesco. Le associazioni dei contribuenti in Germania, Algirdas Šemetaall’inizio scettiche, ora sono entusiaste della formulazione dell’accordo e chiedono la sua immediata applicazione. I l flusso di denaro verso Berlino comincerà nel 2013. Pochi giorni fa il ministro delle Finanze elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, ha detto in un’intervista che “la Svizzera sta portando avanti con Italia e Francia il tema della tassazione degli asset detenuti in conti svizzeri da cittadini dei due Paesi, ma un negoziato formale deve ancora iniziare”. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti aveva concentrato, con un certo successo, le sue attenzioni soprattutto su San Marino. E il governo Monti ha chiarito la sua posizione all’inizio del mandato: favorevole agli accordi con la Svizzera per far pagare gli evasori ma nel quadro di un’intesa comunitaria, anche per non incorrere nel rischio di sanzioni da parte della Commissione Ue. La quale però adesso ha dato il via libera. E l’accordo fatto dall’Austria toglie ogni alibi all’Italia. A cui un po’ di gettito in più, nel 2013, farebbe comodo visto che la recessione farà diminuire le entrate attese su cui è stata impostata l’ultima manovra Salva Italia. di Mattia Feltri Il fatto quotidiano

04 maggio 2012

"Sull’orlo del baratro", la crisi dell’euro secondo Alain de Benoist

Debito pubblico, crisi greca, tassi d’interesse, creazione del denaro, sovranità economica. Nel suo ultimo libro "Sull’orlo del baratro", da pochi giorni in libreria, lo scrittore francese Alain de Benoist analizza attraverso tutte queste variabili la situazione economica europea e globale. de benoist È appena uscito l'ultimo libro del pensatore francese Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro È uscito da pochi giorni nelle librerie Sull’orlo del baratro, l’ultimo lavoro dell’autore francese Alain de Benoist. Pensatore decisamente anticonformista, da sempre vicino ai temi della decrescita, del comunitarismo e fortemente critico nei confronti del sistema socioeconomico fondato sui postulati del liberal-capitalismo, de Benoist non si è astenuto da una puntuale analisi sulla crisi dell’euro in atto, alla quale fa da sfondo un più ampio collasso del sistema-Europa. L’autore transalpino è stato recentemente in Italia per presentare il suo libro e per partecipare alla trasmissione di La7 L’infedele, dedicata alla crisi finanziaria europea. La sua disamina parte da un’inquietante previsione: la recessione iniziata nel 2008 è ben lungi dal risolversi e, alla fine, i suoi effetti saranno più devastanti del crack del 1929. La prima fase è stata caratterizzata da un deciso processo di virtualizzazione dell’economia e dalla scomparsa, di fatto, dell’economia reale. Questo è stato possibile grazie all’esplosione del debito privato. La seconda fase, che stiamo attraversando oggi, ha visto spostarsi il problema sul debito pubblico: quello dell’eurozona è aumentato del 27% negli ultimi quattro anni e oggi sono ben otto i paesi membri il cui rapporto fra debito e PIL supera l’80%. Una situazione che, conti alla mano, è più grave di quella che ha immediatamente seguito la Seconda Guerra Mondiale. De Benoist prosegue con una breve analisi del proprio paese, la Francia, impegnata fra l’altro in un delicato passaggio elettorale. Lì, il deficit è aumentato del 30% negli ultimi quattro anni e, se nel 1979 rappresentava solo il 2% del Pil, oggi è arrivato all’8,4%, a cui vanno aggiunti gli investimenti del 2011, già effettuati ma non ancora conteggiati. In questo perverso meccanismo, l’aspetto più critico è quello relativo agli interessi sul debito, che rappresentano un fardello che grava oggi e graverà in futuro sulle generazioni a venire, determinando la perdita della sovranità economica da parte dello Stato e quindi del popolo. crisi greca Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali L’analisi prosegue volgendo uno sguardo più generico alla crisi del debito: il passaggio dal pubblico a quello privato è avvenuto con i mastodontici piani di salvataggio che i Governi – inglese, americano e altri – hanno dovuto approntare per soccorrere le numerose banche private che hanno rischiato il default fra il 2008 e il 2009. A questo scopo, fra il 2008 e il 2010 le banche centrali hanno iniettato 500 miliardi di dollari nell’economia mondiale. Come un cane che si morde la coda, la situazione finanziaria degli Stati nazione ha cominciato a peggiorare: le entrate diminuivano e i prestiti aumentavano, secondo i meccanismi della politica di deregolamentazione che fu inaugurata negli anni ottanta dai governi Reagan e Thatcher e che per tre decenni è stata alimentata dalle lobby finanziarie internazionali. Così, il capitale è uscito dalla sfera produttiva sganciandosi dall’economia reale, i salari si sono abbassati, le barriere doganali sono state progressivamente eliminate, i prezzi hanno perso stabilità. Le conseguenze? Delocalizzazione, deindustrializzazione con conseguente disoccupazione, fuga di capitali, precarizzazione del lavoro. Si è così consolidato un sistema socioeconomico caratterizzato da una profonda disuguaglianza, in cui la ricchezza è destinata alla fetta più sottile, già benestante, della popolazione mondiale. Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali. Arbitri di questa contesa sono le agenzie di rating – le tre principali dominano il 90% del settore. Si tratta però di giudici tanto influenti quanto parziali: non sono indipendenti, bensì strettamente legate alle banche private, nonostante i prodotti che devono valutare siano emessi proprio da queste ultime. Inoltre, il potere che le agenzie esercitano nei confronti degli Stati è enorme, poiché esse hanno il compito di valutare la solvibilità dei prestiti. Ancora più perverso è il meccanismo di finanziamento delle operazioni di acquisto del debito pubblico, oggi in buona parte posseduto dalle banche private. Queste ultime hanno infatti prestato denaro ai governi a tassi di mercato, prendendolo però a loro volta dalle banche centrali a condizioni estremamente favorevoli. In Europa, la differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme: l’1% nel primo caso, il 7% nel secondo. In questo modo gli Stati diventano volontariamente debitori degli istituti privati, ponendosi in loro potere. I regolamenti internazionali aggravano ulteriormente la situazione: per gli Stati i prestiti a lungo termine sono gravati da tassi d’interesse insostenibili; gli unici organismi che concedono tassi più contenuti sono FMI e BCE, ma la contropartita da pagare è pesantissima e consiste nell’applicazione di rigide misure di politica economica. In questo consiste l’austerity, che provoca però la diminuzione dei redditi, quindi la deflazione e, come conseguenza finale, il blocco della crescita economica. È la “strategia dello shock”: aumentano le tasse, diminuisce la spesa pubblica, vengono tagliati i servizi. In tutti i paesi che subiscono questa imposizione si verifica quindi un passaggio di sovranità, che dal popolo si trasferisce ai creditori privati. bce La differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme Il rischio, che al contrario potrebbe essere interpretato come l’unica via d’uscita, è che la base reagisca: rivolte popolari contro l’austerità o decise prese di posizione dei governi finalizzate al ripudio del debito sono le opzioni. In questo senso, ciò che sta accadendo in questi mesi in Grecia non è che un’anticipazione di quanto potrebbe succedere in futuro in molti dei paesi europei, fra cui anche l’Italia. A trovarsi in pericolo è lo stesso euro: per la Grecia, così come per gli altri Stati, si tratta solo di una trappola che ha l’unico effetto di bloccare le esportazioni. Inoltre, gli aggiustamenti di politica economica non possono più appoggiarsi alla svalutazione della moneta nazionale e devono quindi colpire i prestiti e l’occupazione. In questa tragica situazione è il patrimonio fisico del paese a rischiare di scomparire o meglio di essere svenduto; per esempio per la Grecia la contropartita per gli aiuti ricevuti è stata una robusta campagna di privatizzazioni. Diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, tagli sociali e alla sanità, stipendi dimezzati sono le altre misure di austerità imposte. Così facendo però si rinvia solo una scadenza inevitabile, la malattia non può essere curata con le stesse cause che l’hanno generata. Nel caso della Grecia, l’unica alternativa al collasso completo è l’uscita dall’euro. In Europa, così come nel paese ellenico, le uniche vittime della politica dell’austerità saranno le classi popolari e medie. Non ci saranno effetti risolutivi, poiché, molto semplicemente, nessun paese all’oggi è in grado di rimborsare il proprio debito. Il dubbio che cominciano a porsi molti è ancora più preoccupante: cosa succederà quando Stati estremamente potenti dal punto di vista geopolitico – gli Stati Uniti tanto per non fare nomi – si troveranno insolventi? Quanto ci vorrà prima che il conflitto si sposti dal piano finanziario a quello militare? di Francesco Bevilacqua