08 maggio 2012

Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega

Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune». Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate. «Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto. Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali». La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali». La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo». Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano». di Giorgio Cattaneo

07 maggio 2012

Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!

Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità «A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere». Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità». Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?». Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!». di Alessio Mannino

06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini

08 maggio 2012

Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega

Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune». Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate. «Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto. Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali». La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali». La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo». Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano». di Giorgio Cattaneo

07 maggio 2012

Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!

Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità «A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere». Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità». Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?». Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!». di Alessio Mannino

06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini