10 maggio 2012
Sta arrivando la rivoluzione
Un italiano su tre spera in una rivoluzione. Il sondaggio che qualche giorno fa mi è capitato tra le mani era stato commissionato dalle Acli, dalle associazioni cattoliche dei lavoratori, un’associazione moderata. Per questo l’ho conservato.
Inquietudine - Certo, i sondaggi rivelano tutto e rivelano nulla però fotografano comunque uno stato d’animo. E qual è lo stato d’animo degli italiani? Inquieto. Perché? Perché sono stati illusi e traditi. Illusi da chi quella rivoluzione l’aveva promessa senza arrivare a nulla che non fosse la conservazione dello stato attuale di cose. Forse per questo la domanda di rivoluzione resta immutata. Vale la pena chiarirsi sul significato di rivoluzione.
Non è certo rivoluzionario entrare in un ufficio di Agenzia delle Entrate armato fino ai denti e pretendere di essere ascoltati. Però è rivoluzionario pretendere da quello stesso Stato una lealtà che oggi non mantiene. Abbiamo scritto mille volte di questo tema, tuttavia siccome quei signori non ci sentono ribadiamo il concetto. Se un lavoratore svolge un lavoro per la Pubblica Amministrazione, la Pubblica Amministrazione non può protrarre il pagamento a date indegne: annunciare il pagamento del dovuto a qualche anno di distanza (nonostante un richiamo ufficiale che arriva da quella Europa verso la quale ci inginocchiamo ripetutamente) fa venire meno gli equilibri del mercato.
Soprusi - Il famoso mugnaio tedesco trovò soddisfazione in un giudice a Berlino contro i soprusi di un nobile; gli imprenditori edili con annessa la filiera della cantieristica e dei lavori pubblici, a Roma, non hanno trovato ancora quel giudice perché la giustizia italiana ha tempi che concorrono con la lentezza della Pubblica amministrazione nei pagamenti. Idem con patate se a non pagare è il privato: fammi causa, ti dicono certi di smontare ogni illusione di giustizia. Fisco e in-giustizia: con questo uno-due stanno finendo al tappeto molte imprese italiane, che oltre al danno di non essere pagate in tempi ragionevoli si ritrovano a doversi leccare le ferite per la beffa. Non è infatti una beffa che lo stesso Stato, arrogante nel pagare quando ha voglia, pretenda il pagamento di tasse (sempre di più) e gabelle varie altrimenti sguinzaglia Equitalia coi suoi metodi sbrigativi? Domando: è equo l’aggio del 9 per cento? Domando ancora: cosa c’è di lodevole nell’iniziativa strombazzata da Befera (doppio incarico e doppio stipendione; a questa gente evidentemente un incarico solo fa schifo) dello sportello amico? Visto che le parole sono importanti, Befera sta ammettendo implicitamente che prima lo sportello era nemico. E ha ragione, se anche ieri nel Napoletano un altro signore si è sparato per una cartella esattoriale di 15 mila euro. Ha ragione se la solidarietà a Martinelli, l’imprenditore della bergamasca che s’era asserragliato armato nella sede locale di Agenzia delle Entrate, è rivendicata con orgoglio non solo dai suoi compaesani. «Non era un folle, è un povero cristo come tutti noi».
Coraggio - Befera rivendica le proprie ragioni? Bene, però lo faccia guardando negli occhi i piccoli imprenditori, le famiglie, le persone reali. Finora quel coraggio non l’ha avuto: solo gran monologhi. Invece di guardare la punta del proprio naso, Befera provi ad alzare lo sguardo, provi a scandagliare nei fondali della crisi e dovrà ammettere che c’è una gran differenza tra morosi ed evasori. I grandi evasori non hanno paura di Befera formato sceriffo fiscale e delle sue retate show.
Rabbia - Nel Paese sta crescendo un disagio misto a rabbia. Non è rivoluzionario suicidarsi, ma lo Stato dovrebbe alzare le antenne se non vuole che prima o poi il suicidio evolva in atto kamikaze o se il colpo di pistola alla tempia di un artigiano si trasformi nella pistolettata di Sarajevo che scatena guerre. Non dico affatto che siamo vicini a scenari del genere, però sarebbe folle - questo sì - alzare le spalle sperando che la soluzione caschi dal cielo.
Rivolta - La voglia di rivoluzione che anima il Paese può ancora significare voglia di cambiamento radicale. Certo, l’arroganza di questo governo non aiuta. Né aiutano le manfrine di chi lo sostiene (o dentro o fuori!). Monti rifiuta ogni confronto che non sia coi mercati (almeno servisse a qualcosa…). La signora so-tutto-io Fornero quando incontra i lavoratori lo fa col piglio di chi non ha nulla da imparare ma solo da insegnare. E che dire delle decisioni prese per salvare le banche e quanti hanno fascicoli delle procure aperte per sospette evasioni? O delle nomine strappa-risate di Bondi («Diteci via mail quali sono gli sprechi») e di Amato...
Rispetto - Per chiudere. Se chi rappresenta lo Stato pretende il rispetto dai cittadini, è bene che lo Stato sia leale con i cittadini. Le tasse non servono per far quadrare i conti, le tasse si pagano per ricevere in cambio servizi pubblici almeno sufficienti. La qual cosa non accade. Tant’è che basta un Grillo per seminare il panico.
di Gianluigi Paragone
08 maggio 2012
Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega
Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune».
Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate.
«Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto.
Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali».
La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali».
La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo».
Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano».
di Giorgio Cattaneo
07 maggio 2012
Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!
Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità
«A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere».
Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità».
Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?».
Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!».
di Alessio Mannino
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10 maggio 2012
Sta arrivando la rivoluzione
Un italiano su tre spera in una rivoluzione. Il sondaggio che qualche giorno fa mi è capitato tra le mani era stato commissionato dalle Acli, dalle associazioni cattoliche dei lavoratori, un’associazione moderata. Per questo l’ho conservato.
Inquietudine - Certo, i sondaggi rivelano tutto e rivelano nulla però fotografano comunque uno stato d’animo. E qual è lo stato d’animo degli italiani? Inquieto. Perché? Perché sono stati illusi e traditi. Illusi da chi quella rivoluzione l’aveva promessa senza arrivare a nulla che non fosse la conservazione dello stato attuale di cose. Forse per questo la domanda di rivoluzione resta immutata. Vale la pena chiarirsi sul significato di rivoluzione.
Non è certo rivoluzionario entrare in un ufficio di Agenzia delle Entrate armato fino ai denti e pretendere di essere ascoltati. Però è rivoluzionario pretendere da quello stesso Stato una lealtà che oggi non mantiene. Abbiamo scritto mille volte di questo tema, tuttavia siccome quei signori non ci sentono ribadiamo il concetto. Se un lavoratore svolge un lavoro per la Pubblica Amministrazione, la Pubblica Amministrazione non può protrarre il pagamento a date indegne: annunciare il pagamento del dovuto a qualche anno di distanza (nonostante un richiamo ufficiale che arriva da quella Europa verso la quale ci inginocchiamo ripetutamente) fa venire meno gli equilibri del mercato.
Soprusi - Il famoso mugnaio tedesco trovò soddisfazione in un giudice a Berlino contro i soprusi di un nobile; gli imprenditori edili con annessa la filiera della cantieristica e dei lavori pubblici, a Roma, non hanno trovato ancora quel giudice perché la giustizia italiana ha tempi che concorrono con la lentezza della Pubblica amministrazione nei pagamenti. Idem con patate se a non pagare è il privato: fammi causa, ti dicono certi di smontare ogni illusione di giustizia. Fisco e in-giustizia: con questo uno-due stanno finendo al tappeto molte imprese italiane, che oltre al danno di non essere pagate in tempi ragionevoli si ritrovano a doversi leccare le ferite per la beffa. Non è infatti una beffa che lo stesso Stato, arrogante nel pagare quando ha voglia, pretenda il pagamento di tasse (sempre di più) e gabelle varie altrimenti sguinzaglia Equitalia coi suoi metodi sbrigativi? Domando: è equo l’aggio del 9 per cento? Domando ancora: cosa c’è di lodevole nell’iniziativa strombazzata da Befera (doppio incarico e doppio stipendione; a questa gente evidentemente un incarico solo fa schifo) dello sportello amico? Visto che le parole sono importanti, Befera sta ammettendo implicitamente che prima lo sportello era nemico. E ha ragione, se anche ieri nel Napoletano un altro signore si è sparato per una cartella esattoriale di 15 mila euro. Ha ragione se la solidarietà a Martinelli, l’imprenditore della bergamasca che s’era asserragliato armato nella sede locale di Agenzia delle Entrate, è rivendicata con orgoglio non solo dai suoi compaesani. «Non era un folle, è un povero cristo come tutti noi».
Coraggio - Befera rivendica le proprie ragioni? Bene, però lo faccia guardando negli occhi i piccoli imprenditori, le famiglie, le persone reali. Finora quel coraggio non l’ha avuto: solo gran monologhi. Invece di guardare la punta del proprio naso, Befera provi ad alzare lo sguardo, provi a scandagliare nei fondali della crisi e dovrà ammettere che c’è una gran differenza tra morosi ed evasori. I grandi evasori non hanno paura di Befera formato sceriffo fiscale e delle sue retate show.
Rabbia - Nel Paese sta crescendo un disagio misto a rabbia. Non è rivoluzionario suicidarsi, ma lo Stato dovrebbe alzare le antenne se non vuole che prima o poi il suicidio evolva in atto kamikaze o se il colpo di pistola alla tempia di un artigiano si trasformi nella pistolettata di Sarajevo che scatena guerre. Non dico affatto che siamo vicini a scenari del genere, però sarebbe folle - questo sì - alzare le spalle sperando che la soluzione caschi dal cielo.
Rivolta - La voglia di rivoluzione che anima il Paese può ancora significare voglia di cambiamento radicale. Certo, l’arroganza di questo governo non aiuta. Né aiutano le manfrine di chi lo sostiene (o dentro o fuori!). Monti rifiuta ogni confronto che non sia coi mercati (almeno servisse a qualcosa…). La signora so-tutto-io Fornero quando incontra i lavoratori lo fa col piglio di chi non ha nulla da imparare ma solo da insegnare. E che dire delle decisioni prese per salvare le banche e quanti hanno fascicoli delle procure aperte per sospette evasioni? O delle nomine strappa-risate di Bondi («Diteci via mail quali sono gli sprechi») e di Amato...
Rispetto - Per chiudere. Se chi rappresenta lo Stato pretende il rispetto dai cittadini, è bene che lo Stato sia leale con i cittadini. Le tasse non servono per far quadrare i conti, le tasse si pagano per ricevere in cambio servizi pubblici almeno sufficienti. La qual cosa non accade. Tant’è che basta un Grillo per seminare il panico.
di Gianluigi Paragone
08 maggio 2012
Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega
Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune».
Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate.
«Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto.
Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali».
La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali».
La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo».
Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano».
di Giorgio Cattaneo
07 maggio 2012
Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!
Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità
«A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere».
Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità».
Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?».
Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!».
di Alessio Mannino
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