29 giugno 2012

Il “big bang” ha bisogno che scompaiano i due grandi partiti che hanno dominato in questi vent’anni

Finalmente non siamo più soli a invocare il “big bang” della politica italiana. Un paio d’anni fa, quando noi de “Gli Altri” abbiamo iniziare a battere su questo tasto, in molti ci hanno guardato con sospetto. “Perché mai un “big bang”? Forse volete allontanarvi dalla sinistra? Siete trasformisti, siete traditori, siete venduti”. A noi sembrava semplicemente di avere scoperto l’acqua calda. E cioè di esserci accorti – correva l’anno 2010 – che destra e sinistra italiana avevano fallito clamorosamente, che erano rimaste senza idee e senza programmi, che non riuscivano più a produrre pensiero politico e “progetti di società”, che non riuscivano neppure a costruire gruppi dirigenti, e di conseguenza non potevano più essere i pilastri di una nuova politica. Ma se la vecchia destra e la vecchia sinistra non sono più i pilastri della politica, i casi sono due: o si rinuncia alla politica o bisogna ripartire da zero. Noi dicevamo: ripartiamo da zero, cioè realizziamo, appunto, un vero e proprio “big bang”, torniamo a misurarci con le idee, con i grandi valori, con i progetti di società futura, con i principi di fondo (tolleranza, egualitarismo, individualismo, collettività, stato, mercato eccetera) e vediamo se sulla base del pensiero e non delle bandierine lise di una volta, riusciamo a ricostruire dei grandi schieramenti che si affrontino, si combattano, ripropongano il conflitto ma nella modernità e non si limitino a replicare, quasi a recitare, un conflitto che non esiste più. Eravamo però una minoranza piccolissima perché la grande maggioranza era per l’altra soluzione: rinunciare alla politica e sostituire la politica con una specie di cerimoniale del sottopotere, delegando i grandi compiti della politica (governare, produrre idee, distribuire risorse, riformare la società) a poteri esterni, e cioè al potere del mercato e dei padroni del mercato. Vi dirò la verità: a un certo punto stavamo quasi quasi per crederci che eravamo noi ad essere i pazzi. A forza di sentirci dire che “pensare” è tradire, che scrivere fuori dal pensiero dominante è solo voglia stupida di stupire, e che rinunciare alla distinzione novecentesca tra destra e sinistra vuol dire negare la sacralità della sinistra, ci era venuto il dubbio che avessero ragione gli altri. Poi è arrivato Monti, è arrivata Fornero, cioè si è realizzato il disegno tecnocratico e di abolizione della politica, e ora non siamo più soli a invocare il “big bang”. Si moltiplicano finalmente le voci e allora noi torniamo a insistere. E insistendo vorremmo chiarire un punto. Per mettere in moto un processo virtuoso di “big bang” occorre partire da una cosetta piccola piccola: sciogliere il Pd, che è un partito vuoto, privo di prospettive, nato – e dunque geneticamente marcato – da uno schema antichissimo di politica, basato solo sulla suddivisione del sottopotere, sulla cancellazione dei progetti, delle idee, e sull’offerta ai poteri reali (ai poteri forti) di un ceto politico informe e subalterno disposto ad amministrare la sotto-politica e il sottopotere, senza disturbare il manovratore. Il Pd è stato un tentativo generoso, da parte del vecchio ceto politico ex Pci ed ex democristiano, di mettersi a disposizione della borghesia italiana per provare a trovare un nuovo equilibrio che superasse il berlusconismo e restituisse all’Italia una situazione di moderatismo, di conservazione, e di placido ritorno agli anni Cinquanta. E’ andata male. Monti ha interamente fagogitato lo spazio politico del Pd. Monti è una specie di Pd più bravo. Bene, il “big bang” ha bisogno che scompaiano i due grandi partiti che hanno dominato in questi vent’anni. Il Pdl è sulla buona strada. Ora il problema è sgomberare il campo dal Pd. di Piero Sansonetti

28 giugno 2012

Tagli ai partiti, le solite “boiate”

di Wanda Marra Tre mesi (e passa) posson bastare per dimezzare i rimborsi elettorali ai partiti? L’evidenza dice che la risposta è no. Dopo il pasticcio del testo ABC, nato tra i proclami generali per garantire la trasparenza dei bilanci e per tagliare i finanziamenti ai partiti, e poi naufragato per evidenti e insormontabili incongruenze, e l’approvazione di un (altro) ddl a Montecitorio che l’unica cosa che stabiliva per certo era il dimezzamento della rata di luglio dei rimborsi, “tecnicamente ” questo evento non è ancora possibile. Approvato alla fine di maggio, il testo si è fermato in Senato, dove giace in Commissione Affari costituzionali. Si è andati a rilento, complici le riforme costituzionali (a proposito di tele di Penelope). Il passaggio all’aula dovrebbe avvenire nelle prossime settimane, visto che oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti alla legge. Peccato che sarà troppo tardi per tagliare la rata e contemporaneamente dare, come stabilito nello stesso testo, i 91 milioni di euro risparmiati ai terremotati dell’Emilia (i soldi, si legge, sono destinati agli “interventi conseguenti ai danni provocati dagli eventi sismici e dalle calamità naturali che hanno colpito il territorio nazionale a partire dal 1º gennaio 2009”). L’INGHIPPO è in una “dimenticanza” di Montecitorio: non è stata prevista l’entrata in vigore immediata della legge, e così la destinazione dei 91 milioni deve essere fatta con un decreto del governo, che aveva a sua volta 15 giorni di tempo per emanarlo. Ieri tuonavano i Radicali, capeggiati da Donatella Poretti: “Mancano soltanto 72 ore e poi i partiti riceveranno automaticamente i fondi. Infatti, a luglio scatta l’erogazione della rata”. In realtà gli uffici di Montecitorio spiegano che da sempre i rimborsi elettorali vengono destinati ai partiti con un ufficio di Presidenza verso la fine di luglio. E in effetti, la Gazzetta ufficiale dell’anno scorso – per esempio – portava la rata del 27 luglio. Ma comunque è difficile che la legge si riesca ad approvare in tempo. E qui entra in gioco il governo. Scoperto il problema, l’esecutivo si era impegnato a fare un decreto soltanto per la parte che riguardava il taglio della rata e il conseguente trasferimento all’Emilia. Com’è, come non è, però, sono due settimane che si è capito che i tempi sono più che strettissimi e che il governo promette interventi d’urgenza e poi non li fa. L’altroieri s’era detto “lo faremo domani”. Ieri mattina si parlava del Cdm di lunedì, peraltro il primo luglio. Ma poi ieri pomeriggio il sottosegretario Malaschini ha dichiarato: “Ci siamo impegnati a risolvere il problema. Lo faremo”. Senza specificare quando. Le voci che circolavano facevano intendere che, piuttosto che un decreto ad hoc, si stesse pensando ora a inserire un emendamento nel provvedimento della Spending review per arrivare a un’approvazione nella seconda settimana di luglio. Sempre più difficile. “Non si può dire che i 91 milioni vanno ai terremotati e al contempo far maturare il diritto – commentano i Radicali – perché gli stessi 91 milioni possano essere richiesti dai tesorieri dei partiti. Fino a che non interviene una legge nuova – o un decreto del governo – i 91 milioni sono nella piena disponibilità dei partiti". E persino Stefano Ceccanti, relatore per il Pd della legge, che in queste settimane ha mostrato un’incrollabile fiducia nelle decisioni prese, commenta: “Se si deve fare il decreto, che si faccia”. di Wanda Marra

26 giugno 2012

Banche e derivati. Il "botto" è vicino

Un allarme tardivo, ma realistico. E completa assenza di indicazioni su cosa fare per “impedire” il ripetersi di un film già visto. Banche e derivati sono la stessa cosa: i secondi sono “prodotti” dalle prime, non esistono per loro conto. Fin dall'inizio è apparso chiaro che tutti i discorsi sulla “riforma delle regole del sistema finanziario internazionale” non sarebbe approdata a nulla. Troppi “decisori” (sia dei maggiori stati che dell più importanti istituzioni economiche globali) sono incatenati – personalmente e strutturalmente – agli istituti di credito, ai fondi di investimento, ecc. Il governo degli Stati uniti, Obama a parte, ne è un esempio clamoroso da oltre un trentennio. Gente che esce dalla finanza o dalle grandi multinazionali per fare il ministro e poi torna a fare la finanza o l'impresa. Gli si può forse chiedersi di rinunciare a una carriera futura o di bastonare i propri recenti ex colleghi di lavoro? Ma c'è una dato ancora più chiaro che esce fuori da questo scandalizzato articolo de Il Sole 24 Ore – è tutto dire! - e che non dobiamo mai smettere di tenere presente: la sovraesposizione al rischio insito nel mercato dei derivati da parte delle banche si regge sulla ferrea convinzione che, tanto, se va male ci sarà un altro giro di aiuti pubblici riservati alle banche e al sistema finanziario. E' come se l'assicurazione obbligatoria per le automobili fosse a carico dello Stato: chi si preoccuperebbe più di evitare ammaccature e graffi da paercheggio, piccoli tamponamenti, investire pedoni sulle strisce, ecc? Alle grandi banche è riservato un privilegio di questo tipo: investire “a leva”, ovvero mettendo 10 di capitale proprio per mettere in moto operazioni da 1.000 (un numero a caso, ma proporzionato alle operazioni reali), con la certezza che se tutto va bene il guadagno viene intascato privcatamente, se va male si mette a conto del “pubblico”. Che dovrà tagliare ancora tutte le spese “non finanziarie” (scuola, sanità, trasporto pubblico, ecc). Un gioco del genere non è soltanto infame. Semplicemente, non può funzionare a lungo. Sono cinque anni che la crisi morde e non passa. Ttutto quel che è stato fatto finora è servito solo a ricreare le condizioni di partenza da cui è maturato il crack Lehmann Brothers e la “grande gelata” dei mercati tra il 2008 e il 2009. Sta per accadere di nuovo. E ovviamente con più forza di prima, su una scala più grande. Il valore nominale totale del "mercato dei derivati" (completamente fuori dei circuiti regolamentati), ha raggiunto i 650mila miliardi dollari, sette-otto volte il prodotto interno lordo di tutto il pianeta. Non esiste nessuno - né privato, né "pubblico" - che possa "garantire" da una valanga di queste dimensioni. di Claudio Conti

29 giugno 2012

Il “big bang” ha bisogno che scompaiano i due grandi partiti che hanno dominato in questi vent’anni

Finalmente non siamo più soli a invocare il “big bang” della politica italiana. Un paio d’anni fa, quando noi de “Gli Altri” abbiamo iniziare a battere su questo tasto, in molti ci hanno guardato con sospetto. “Perché mai un “big bang”? Forse volete allontanarvi dalla sinistra? Siete trasformisti, siete traditori, siete venduti”. A noi sembrava semplicemente di avere scoperto l’acqua calda. E cioè di esserci accorti – correva l’anno 2010 – che destra e sinistra italiana avevano fallito clamorosamente, che erano rimaste senza idee e senza programmi, che non riuscivano più a produrre pensiero politico e “progetti di società”, che non riuscivano neppure a costruire gruppi dirigenti, e di conseguenza non potevano più essere i pilastri di una nuova politica. Ma se la vecchia destra e la vecchia sinistra non sono più i pilastri della politica, i casi sono due: o si rinuncia alla politica o bisogna ripartire da zero. Noi dicevamo: ripartiamo da zero, cioè realizziamo, appunto, un vero e proprio “big bang”, torniamo a misurarci con le idee, con i grandi valori, con i progetti di società futura, con i principi di fondo (tolleranza, egualitarismo, individualismo, collettività, stato, mercato eccetera) e vediamo se sulla base del pensiero e non delle bandierine lise di una volta, riusciamo a ricostruire dei grandi schieramenti che si affrontino, si combattano, ripropongano il conflitto ma nella modernità e non si limitino a replicare, quasi a recitare, un conflitto che non esiste più. Eravamo però una minoranza piccolissima perché la grande maggioranza era per l’altra soluzione: rinunciare alla politica e sostituire la politica con una specie di cerimoniale del sottopotere, delegando i grandi compiti della politica (governare, produrre idee, distribuire risorse, riformare la società) a poteri esterni, e cioè al potere del mercato e dei padroni del mercato. Vi dirò la verità: a un certo punto stavamo quasi quasi per crederci che eravamo noi ad essere i pazzi. A forza di sentirci dire che “pensare” è tradire, che scrivere fuori dal pensiero dominante è solo voglia stupida di stupire, e che rinunciare alla distinzione novecentesca tra destra e sinistra vuol dire negare la sacralità della sinistra, ci era venuto il dubbio che avessero ragione gli altri. Poi è arrivato Monti, è arrivata Fornero, cioè si è realizzato il disegno tecnocratico e di abolizione della politica, e ora non siamo più soli a invocare il “big bang”. Si moltiplicano finalmente le voci e allora noi torniamo a insistere. E insistendo vorremmo chiarire un punto. Per mettere in moto un processo virtuoso di “big bang” occorre partire da una cosetta piccola piccola: sciogliere il Pd, che è un partito vuoto, privo di prospettive, nato – e dunque geneticamente marcato – da uno schema antichissimo di politica, basato solo sulla suddivisione del sottopotere, sulla cancellazione dei progetti, delle idee, e sull’offerta ai poteri reali (ai poteri forti) di un ceto politico informe e subalterno disposto ad amministrare la sotto-politica e il sottopotere, senza disturbare il manovratore. Il Pd è stato un tentativo generoso, da parte del vecchio ceto politico ex Pci ed ex democristiano, di mettersi a disposizione della borghesia italiana per provare a trovare un nuovo equilibrio che superasse il berlusconismo e restituisse all’Italia una situazione di moderatismo, di conservazione, e di placido ritorno agli anni Cinquanta. E’ andata male. Monti ha interamente fagogitato lo spazio politico del Pd. Monti è una specie di Pd più bravo. Bene, il “big bang” ha bisogno che scompaiano i due grandi partiti che hanno dominato in questi vent’anni. Il Pdl è sulla buona strada. Ora il problema è sgomberare il campo dal Pd. di Piero Sansonetti

28 giugno 2012

Tagli ai partiti, le solite “boiate”

di Wanda Marra Tre mesi (e passa) posson bastare per dimezzare i rimborsi elettorali ai partiti? L’evidenza dice che la risposta è no. Dopo il pasticcio del testo ABC, nato tra i proclami generali per garantire la trasparenza dei bilanci e per tagliare i finanziamenti ai partiti, e poi naufragato per evidenti e insormontabili incongruenze, e l’approvazione di un (altro) ddl a Montecitorio che l’unica cosa che stabiliva per certo era il dimezzamento della rata di luglio dei rimborsi, “tecnicamente ” questo evento non è ancora possibile. Approvato alla fine di maggio, il testo si è fermato in Senato, dove giace in Commissione Affari costituzionali. Si è andati a rilento, complici le riforme costituzionali (a proposito di tele di Penelope). Il passaggio all’aula dovrebbe avvenire nelle prossime settimane, visto che oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti alla legge. Peccato che sarà troppo tardi per tagliare la rata e contemporaneamente dare, come stabilito nello stesso testo, i 91 milioni di euro risparmiati ai terremotati dell’Emilia (i soldi, si legge, sono destinati agli “interventi conseguenti ai danni provocati dagli eventi sismici e dalle calamità naturali che hanno colpito il territorio nazionale a partire dal 1º gennaio 2009”). L’INGHIPPO è in una “dimenticanza” di Montecitorio: non è stata prevista l’entrata in vigore immediata della legge, e così la destinazione dei 91 milioni deve essere fatta con un decreto del governo, che aveva a sua volta 15 giorni di tempo per emanarlo. Ieri tuonavano i Radicali, capeggiati da Donatella Poretti: “Mancano soltanto 72 ore e poi i partiti riceveranno automaticamente i fondi. Infatti, a luglio scatta l’erogazione della rata”. In realtà gli uffici di Montecitorio spiegano che da sempre i rimborsi elettorali vengono destinati ai partiti con un ufficio di Presidenza verso la fine di luglio. E in effetti, la Gazzetta ufficiale dell’anno scorso – per esempio – portava la rata del 27 luglio. Ma comunque è difficile che la legge si riesca ad approvare in tempo. E qui entra in gioco il governo. Scoperto il problema, l’esecutivo si era impegnato a fare un decreto soltanto per la parte che riguardava il taglio della rata e il conseguente trasferimento all’Emilia. Com’è, come non è, però, sono due settimane che si è capito che i tempi sono più che strettissimi e che il governo promette interventi d’urgenza e poi non li fa. L’altroieri s’era detto “lo faremo domani”. Ieri mattina si parlava del Cdm di lunedì, peraltro il primo luglio. Ma poi ieri pomeriggio il sottosegretario Malaschini ha dichiarato: “Ci siamo impegnati a risolvere il problema. Lo faremo”. Senza specificare quando. Le voci che circolavano facevano intendere che, piuttosto che un decreto ad hoc, si stesse pensando ora a inserire un emendamento nel provvedimento della Spending review per arrivare a un’approvazione nella seconda settimana di luglio. Sempre più difficile. “Non si può dire che i 91 milioni vanno ai terremotati e al contempo far maturare il diritto – commentano i Radicali – perché gli stessi 91 milioni possano essere richiesti dai tesorieri dei partiti. Fino a che non interviene una legge nuova – o un decreto del governo – i 91 milioni sono nella piena disponibilità dei partiti". E persino Stefano Ceccanti, relatore per il Pd della legge, che in queste settimane ha mostrato un’incrollabile fiducia nelle decisioni prese, commenta: “Se si deve fare il decreto, che si faccia”. di Wanda Marra

26 giugno 2012

Banche e derivati. Il "botto" è vicino

Un allarme tardivo, ma realistico. E completa assenza di indicazioni su cosa fare per “impedire” il ripetersi di un film già visto. Banche e derivati sono la stessa cosa: i secondi sono “prodotti” dalle prime, non esistono per loro conto. Fin dall'inizio è apparso chiaro che tutti i discorsi sulla “riforma delle regole del sistema finanziario internazionale” non sarebbe approdata a nulla. Troppi “decisori” (sia dei maggiori stati che dell più importanti istituzioni economiche globali) sono incatenati – personalmente e strutturalmente – agli istituti di credito, ai fondi di investimento, ecc. Il governo degli Stati uniti, Obama a parte, ne è un esempio clamoroso da oltre un trentennio. Gente che esce dalla finanza o dalle grandi multinazionali per fare il ministro e poi torna a fare la finanza o l'impresa. Gli si può forse chiedersi di rinunciare a una carriera futura o di bastonare i propri recenti ex colleghi di lavoro? Ma c'è una dato ancora più chiaro che esce fuori da questo scandalizzato articolo de Il Sole 24 Ore – è tutto dire! - e che non dobiamo mai smettere di tenere presente: la sovraesposizione al rischio insito nel mercato dei derivati da parte delle banche si regge sulla ferrea convinzione che, tanto, se va male ci sarà un altro giro di aiuti pubblici riservati alle banche e al sistema finanziario. E' come se l'assicurazione obbligatoria per le automobili fosse a carico dello Stato: chi si preoccuperebbe più di evitare ammaccature e graffi da paercheggio, piccoli tamponamenti, investire pedoni sulle strisce, ecc? Alle grandi banche è riservato un privilegio di questo tipo: investire “a leva”, ovvero mettendo 10 di capitale proprio per mettere in moto operazioni da 1.000 (un numero a caso, ma proporzionato alle operazioni reali), con la certezza che se tutto va bene il guadagno viene intascato privcatamente, se va male si mette a conto del “pubblico”. Che dovrà tagliare ancora tutte le spese “non finanziarie” (scuola, sanità, trasporto pubblico, ecc). Un gioco del genere non è soltanto infame. Semplicemente, non può funzionare a lungo. Sono cinque anni che la crisi morde e non passa. Ttutto quel che è stato fatto finora è servito solo a ricreare le condizioni di partenza da cui è maturato il crack Lehmann Brothers e la “grande gelata” dei mercati tra il 2008 e il 2009. Sta per accadere di nuovo. E ovviamente con più forza di prima, su una scala più grande. Il valore nominale totale del "mercato dei derivati" (completamente fuori dei circuiti regolamentati), ha raggiunto i 650mila miliardi dollari, sette-otto volte il prodotto interno lordo di tutto il pianeta. Non esiste nessuno - né privato, né "pubblico" - che possa "garantire" da una valanga di queste dimensioni. di Claudio Conti