12 febbraio 2013

Alla vigilia di guerre monetarie?










Il rischio che il mondo precipiti in pericolosi scenari di guerre valutarie diventa sempre più concreto. Ecco perché bisogna continuare ad insistere sulla necessità di un accordo strategico tra i governi e i più importanti attori dell’economia per riformare la finanza ed il sistema monetario internazionale. Secondo noi, una nuova Bretton Woods è sempre più urgente e necessaria.
Non siamo dei pessimisti inveterati, ma i segnali di pericolo sono ormai tanti. 
Gli Stati Uniti hanno appena deciso di procrastinare al 19 maggio prossimo ogni decisione riguardante l’ammontare del debito pubblico e dei conseguenti tagli al bilancio statale. Nel frattempo si permette all’amministrazione di funzionare sfondando in modo incontrollato il tetto del debito, che è di 14.400 miliardi di dollari. 
Ciò vuol dire che di fatto c’è una forte immissione di nuova liquidità nel sistema da parte della Federal Reserve. Tale operazione certamente ferma l’immediato default dell’economia americana,  però in seguito si dovrà far fronte alle possibili spirali inflazionistiche. 
Per il resto del mondo, invece, i nuovi dollari potranno provocare una destabilizzazione monetaria, il rischio di inflazione, maggiori flussi di capitali speculativi, acquisizioni pilotate di importanti risorse, ecc. Alla luce di questi rischi molti paesi emergenti, a partire dal Brasile, stanno cercando di porre delle barriere a questi movimenti incontrollati di valuta.
Con la creazione di ulteriore debito e di maggiore liquidità la Fed cerca anche di “pilotare” la discesa del valore del dollaro nei confronti delle altre monete e dell’euro in particolare. Lo fa con l’intento di rendere i prodotti americani più competitivi e strappare fette di mercato a beneficio dei produttori Usa. 
La storia ha già conosciuto simili politiche e le ha chiamate “svalutazione competitive” che hanno generato guerre commerciali. Il problema è che ora non le sta conducendo un piccolo paese come la Grecia, ma gli Usa che sono la prima economia del mondo!
Non è un caso perciò che anche il governo del Giappone abbia appena annunciato ufficialmente una simile strategia.  La Banca Centrale di Tokyo intende portare il tasso di inflazione previsto dall’1 al 2% attraverso l’acquisto di nuovi bond e altri titoli emessi dallo Stato. Solo per il 2013 si parla di un “quantitative easing” nipponico equivalente a circa 1.200 miliardi di dollari! Si ricordi che il debito pubblico, in verità largamente in mano ai giapponesi, è già superiore al 240% del Pil.
Anche queste misure mirano ad abbattere il valore dello yen nei confronti delle altre monete. Non solo nei confronti del dollaro e dell’euro ma anche verso lo yuan cinese. A differenza degli anni passati quando la gestione della crisi del debito era però accompagnata da consistenti surplus di esportazioni, nel 2012 il Giappone per la prima volta ha registrato un deficit commerciale globale del 5,8% e del 15,8% nei confronti della Cina. Negli ultimi mesi tale strategia monetaria ha già determinato il deprezzamento dello yen di ben oltre il 10% rispetto al dollaro e all’euro.
Simili politiche, come era prevedibile, stanno scatenando reazioni asimmetriche ovunque. Anche i recenti annunci tedeschi relativi al rimpatrio di una consistente parte delle loro riserve auree possono essere letti in quest’ottica. Recentemente il quotidiano economico Handelsblatt ha riferito che è intenzione di Berlino di passare dall’”oro cartaceo”, cioè quello tenuto nei forzieri della Fed di New York, della Bank of England e della Banque de France, all’”oro fisico” riportandolo in mani tedesche. 
Si ricordi che delle 3.400 tonnellate di oro tedesco, il 69% è fuori dai confini della Germania. Quasi la metà è negli Usa. Nei decenni passati ciò era giustificato con il timore di possibili minacce di occupazioni sovietiche. Oggi è più che legittimo volerle riportare a casa.  Tale decisione ovviamente, secondo noi, ha anche a che fare con le politiche monetarie attuate dagli Usa nei confronti dell’Europa, nonché con una crescente sfiducia sull’effettivo valore di un dollaro inflazionato.
Infine anche la Cina, che ha sempre cercato di evitare la rivalutazione della sua moneta per poter allargare i propri mercati, sta perseguendo con la classica determinazione cinese l’aumento delle proprie riserve di oro. 
La Cina è il primo produttore mondiale di oro con le sue 314 tonnellate annue. Sta comprando però oro sui mercati internazionali perché nell’anno in corso vuole aumentare di ben 500 tonnellate le sue riserve auree. Pechino attualmente ne detiene solo un migliaio di tonnellate. Poca cosa rispetto alle 8.133 degli Usa. Perciò sta lavorando per portare gran parte delle sue riserve dal dollaro all’oro. 
Lo scenario con la ricerca di soluzioni locali alle grandi sfide e alle emergenze  poste dalla crisi globale e monetaria è sconfortante. Si rischia un ritorno a vecchi egoismi e a pericolosi giochi geopolitici di stampo nazionalista e protezionista, con un arretramento rispetto agli equilibri mondiali faticosamente raggiunti nell’ultimo sessantennio.
 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

11 febbraio 2013

Peggio di così si vota






  

Quando un Paese non è in grado di esprimere una seria leadership politica e, pertanto, proiettarsi con le sue idee e visioni peculiari in un mondo in costante evoluzione, quando è incapace di programmare il suo avvenire, prossimo e lontano, diventa facile preda degli istinti rapaci degli avvoltoi della finanza e delle bestie sociali più retrive (industriali, economiche, ideologiche), le quali assorbono tutte le energie dello Stato distruggendo le ultime speranze di ripristinare un corso degli eventi più favorevole alla collettività, mentre ci si trova nel bel mezzo di una tempesta sistemica globale.

Queste colonie di saprofiti che si chiamano partiti, sindacati (operai e padronali),  cda di banche arraffatrici e di imprese decotte ed assistite, giornali asserviti, esattori incalliti, burocrati pervertiti, predicatori inviperiti e razzolatori invertiti, si moltiplicano nel tessuto connettivo comunitario divorandolo fino all’osso.

La speculazione, nelle sue diverse forme; lo smantellamento dei circuiti produttivi; gli inutili sperperi del denaro dei contribuenti nei settori di precedenti ondate tecnologiche;  la rincorsa dei modelli astratti nella gestione dei conti pubblici; la mancanza di piani di sviluppo e di rilancio degli investimenti nei comparti trainanti; la demolizione del welfare state; l’assenza di strategie per aggredire i mercati più profittevoli; i tentativi di smembramento delle imprese di punta attraverso svendite mascherate da privatizzazioni (Eni, Finmeccanica, ecc.); la dismissione delle infrastrutture fondamentali; l’andare a rimorchio delle altre grandi potenze nelle missioni militari e nelle scelte geopolitiche; l’adesione acritica alla propaganda mondiale in materia di condivisione dei processi e armonizzazione delle decisioni, salvo ritrovarsi ad asseverare risoluzioni unilaterali preconfezionate da terzi prepotenti; la perdita di privilegi commerciali e il dissolvimento di canali diplomatici preferenziali (si pensi alla Libia, all’Iran e, financo, alla Siria, tutti scenari dove prima di embarghi e conflitti imposti dai nostri partner a primeggiare era lo Stivale); in breve, ognuna di queste deficienze in un presente di profonde trasformazioni, genera decadenza nazionale e sottomissione internazionale.

L’Italia sta morendo per inettitudine propria ed aggressione esterna, ma nel dibattito elettorale, i  partiti e il loro seguito di militanti osservanti, anziché affrontare i temi urgenti di cui sopra, assumendosi le necessarie responsabilità, si lanciano in risse furibonde, come gli ultras alle partite di calcio, riempiendosi di vituperi, che poi sono strameritati per tutti. 

Questa tragica situazione si protrae ormai da un ventennio, da quando la precedente classe dirigente, democristiana e socialista, fu spazzata via da un golpe “per procura”, impropriamente chiamato Mani Pulite, con il quale vennero esautorati tali rappresentanti del popolo, eccessivamente disinvolti nel maneggiare il potere politico e, purtuttavia, nient’affatto incompetenti, per far posto agli odierni impresentabili, ovvero alle seconde file di quegli stessi organismi mutati esclusivamente nelle sigle, venute alla ribalta per la falcidiazione del vecchio establishment. 

Successivamente all’assalto di magistrati e puritani della legalità (più spaventati dalla caccia alle streghe che sinceri nel pentimento) agli assetti della I Repubblica – gli uni e gli altri accortisi sospettamente “tardi” del presunto letamaio consociativo, al quale dovevano la carriera o nel quale erano cresciuti professionalmente, ed altrettanto abili a rifugiarsi repentinamente nello sciocchezzaio giustizialistico e moralistico corrente, soccorsi, come poi si è saputo, da imboccamenti e spifferate di servizi stranieri – venne annunciata la necessaria rifondazione dell’Italia su basi eticamente trasparenti.

Basta guardarsi in giro per constatare lo sbaglio e l’abbaglio.

Adesso, nonostante la sovrabbondanza di onestà e perbenismo, si depreda più di ieri, si depauperano i cittadini in maniera più famelica, si frega il prossimo senza ritegno, si dilapidano risorse generali per misere ragioni di bottega, si consegnano nelle mani di avidi usurai europei e mondiali le patrie ricchezze, si mettono in saldo i tesori collettivi per un posto da ministro o da inviato speciale alla corte delle cerchie globali, si avviliscono le prospettive autonomistiche del Paese per ottenere l’endorsement forestiero che cresce quanto più si deprime la nostra sovranità statale.

E ci voleva una rivoluzione a suon di monetine al Raphael e di persecuzioni inquisitorie  per arrivare a questo scempio?

La verità è altrove, distante dai luoghi comuni di questi lustri ignobili e mistificanti. Quel colpo di Palazzo che portò a scoperchiare i quarantennali  metodi tangentari, consociativi, cooptativi e lottizzatori applicati alla gestione degli affari di stato, di Dc e Psi, con l’appoggio desistente del PCI, fu il risultato di un mutamento di scenario globale all’indomani della guerra fredda.

L’Italia perdeva il suo ruolo di bastione avanzato nella lotta al comunismo al fianco dell’Occidente americanizzato che così intese sbarazzarsi dei capi e delle correnti eccessivamente compromessi con un passato superato dagli eventi. 

Occorreva rivolgersi ad individui ambiziosi e apparentemente meno coinvolti col logoro “regime” demosocialista per riportare la Penisola entro un quadro di rapporti di più largo assoggettamento, politico, economico e culturale.

L’affermazione unipolare degli Usa, l’unica iperpuissance rimasta sulla scena, modificò le relazioni tra questa e i suoi satelliti i quali, per tanto tempo, avevano goduto di una certa tranquillità grazie al fatto di rappresentare una cintura protettiva verso il blocco sovietico.

Dissoltasi l’URSS e allargatisi i confini dell’impero, in assenza di concreti nemici esterni (la minaccia islamica è stata una invenzione delle teste d’uovo Yankees, che ogni tanto sfugge di mano ma che più spesso risolve intricate questioni periferiche),  agli alleati veniva imposto di partecipare ai maggiori sforzi della Casa Bianca per mantenere tale supremazia, senza i benefici e le garanzie antecedenti.

Inoltre, questo predominio assoluto, contrariamente a molte previsioni di Washington, entrerà in crisi in appena un decennio, col riaffacciarsi sulla scacchiera planetaria di nuovi e antichi protagonisti con velleità egemoniche mondiali e regionali: dalla rediviva Russia, alla rinascente Cina, alle altre formazioni minori le quali mirano a divincolarsi territorialmente costituendo influenze più ristrette che, tuttavia, intralciano i programmi delle superpotenze. 

In questa tenaglia di fatti, l’Italia, anziché reagire e ricavarsi un posto, ha dato seguito all’apertura dei suoi forzieri, tra traversate sul Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra che nel 1992 ospitò banchieri, faccendieri, manager delle best company pubbliche e private, uomini dell’alta finanza e delle nostre istituzioni, dove vennero sancite le linee maestre delle privatizzazioni dei gioielli di famiglia), regalie a capitani coraggiosi, disposti al rischio almeno finché lo Stato copre loro le spalle, cessioni a tutto spiano delle infrastrutture strategiche a compatrioti squattrinati o falliti (teste di turco si sarebbero chiamate una volta) risorti grazie a finanziatori occulti di stanza oltre confine e nei vari paradisi fiscali, ecc. ecc. 

Questi dovrebbero essere gli argomenti dell’agenda politica ed, invece, ci ritroviamo a dibattere tra le promesse di chi vuole eliminare l’IMU (una tassa che non avrebbe mai dovuto essere introdotta da quanto è iniqua ed ingiusta) pur avendola votata in aula e le lamentele della controparte la quale, invece, la ritiene ineliminabile, soprattutto dopo che è servita a salvare una banca amica. Il livello del dibattito è l’antipasto di quello che accadrà a breve. 

Tra i due grossi schieramenti antitetico-polari s’inserisce poi un pulviscolo di  chiacchieroni moderati, di sognatori liberali e di estremisti civici che è meglio perderli che trovarli. 

Rinchiusi nelle loro chiese oltranziste fantasticano: chi di creare una perfezione tecnocratica per governare gli italiani con l’assenso di Bruxelles e degli organismi transcontinentali; chi di eliminare lo Stato per lasciar sfogare gli animal spirits imprenditoriali; chi di riportarci ad un ambiente incontaminato, sano di corpo e di principi. I primi sono appena usciti dall’Esecutivo lasciandosi dietro tante macerie ed un mare di prelievi dalle tasche dei connazionali, i secondi sono i medesimi che invocano la libera concorrenza finché ci guadagnano mentre se iniziano a non macinare profitti s’inventano formule del tipo “too big to fail” per socializzare le perdite ed, infine, i terzi, vorrebbero riportarci indietro di secoli, alle comunità auto-sussistenti legate ai cicli stagionali ma senza pagare il dazio dell’arretratezza produttiva e della dipendenza dai capricci climatici di quelle formazioni umane vetuste, blaterando di reti e di energia alternativa in un simile quadro di rapporti sociali rifeudalizzati.

Per il momento, insomma, siamo messi davvero male, e non saranno le urne a liberarci dal marcio dei nostri giorni. L’unico augurio da farsi è che non vada anche peggio di così, ma le speranze sono poche. Peggio di così, infatti, c’è solo il voto.


di Gianni Petrosillo 

09 febbraio 2013

Le vere cause della crisi








   

La campagna elettorale ruota intorno al tema  unico della crisi economica (le troppe tasse ne sono un succedaneo dal momento che se  ne sono  create di nuove e si  sono aumentate le vecchie nel tentativo -sbagliato – di contrastarla). La cosa strana è che mentre solo di crisi si parla non se ne cercano le vere cause e si preferisce scannarsi  per dimostrare  che i governi di centro-destra hanno fatto peggio di quelli di centro-sinistra o viceversa.
    Il fatto è   che alcune di queste cause sono pressoché totalmente al di fuori dal potere di controllo e d'intervento dei partiti altre sono considerate  scarsamente produttive dal punto di vista elettorale, perché comuni a tutti i contendenti o comunque difficili da spiegare in modo incisivo   agli elettori.
    La causa prima, irrimediabile finché non si ribalta tutto, è insita nello stesso sistema economico occidentale (ormai mondiale), che punta (e non può fare altrimenti per sopravvivere) sulla crescita continua dell'economia  come se in  un mondo finito fosse possibile una crescita infinita. Eppure la convinzione della possibilità-necessità della crescita continua è così radicata che nessuno si accorge dell'assurdità di valutare la crisi in base a dati considerati disastrosi solo perché riportano la situazione economica del  2012 a quella del  2001, del 1998 o anche del 1984 cioè ad anni nei quali la recessione sembrava impossibile  e caso mai si protestava contro l'eccesso del consumismo.
 Altre cause  della crisi sono meno connaturate al sistema, ma ugualmente fuori dal controllo dei singoli Stati nazionali, che ben difficilmente riuscirebbero a rimangiarsi le decisioni prese  quando si scelse la strada della globalizzazione, che apriva alla concorrenza mondiale il mondo del lavoro. E' difficile dire  se in linea assoluta la globalizzazione sia stata un bene o un male. Certamente ha migliorato la situazione dei lavoratori del terzo e del quarto mondo, ma per quelli dei paesi occidentali e il loro benessere economico  è stata, come era  facile prevedere, un autentico disastro. Il principio dei vasi comunicanti vale anche in  economia e, venuti meno confini, ostacoli e barriere, comporta l'inevitabile  livellamento dei salari e, quindi, del livello di vita con conseguente miglioramento per i paesi poveri,  peggioramento per quelli  ricchi.
   Infine ci sono gli errori della nostra classe politica, non sempre necessariamente involontari e comunque anche questi difficilmente reversibili a causa della loro integrazione nel sistema europeo  (da questi nostri errori altri paesi, ad esempio la Germania, possono avere tratto beneficio). Il più grave indubbiamente la privatizzazione delle Banche ad opera del duo Ciampi-Amato. Come scrive Riccardo Ruggeri su “Italia Oggi”, per effetto di questo malaugurato provvedimento “le Banche hanno assunto un curioso status: se guadagnano danno dividendi principeschi agli azionisti e bonus-liquidazioni imperiali ai supermanager, se perdono paga lo Stato, se falliscono lo Stato le salva”.    A titolo di premio per questo brillante risultato Azelio Ciampi è stato nominato  presidente della Repubblica e Giuliano Amato è in predicato di sostituire Napolitano al Quirinale.
    Un altro macroscopico errore tutto italico è stato  il cambio folle lira/euro accettato da Romano Prodi, che dalla sera al mattino ha pressoché dimezzato i patrimoni e  le entrate degli italiani. Basti considerare  che prima dell'euro duemilioni al mese erano  un signor stipendio, subito dopo mille euro una mercede da sopravvivenza. Romano Prodi voleva fare entrare ad ogni costo l'Italia nell'area euro e di fronte ai dubbi avanzati dalla Germania e da altri paesi particolarmente diffidenti nei nostri confronti accettò il cambio di poco meno di 2.000 lire per euro  senza rendersi conto di avere in mano una carta formidabile per ottenere condizioni molto migliori, perché la Germania mai  avrebbe accettato l'euro se l'Italia, a quel momento la seconda potenza industriale europea, avesse conservato la lira e, quindi, la possibilità di farle concorrenza sui mercati mondiali svalutandola.  “Der Spiegel” del 7 maggio 2012 ha accusato, con tanto di documentazione,   Helmut  Kohl  di avere consentito a Prodi, allora presidente del Consiglio italiano (siamo nel 1998) di truccare le carte dei nostri bilanci  per fare figurare che l'Italia fosse, contrariamente al vero, in possesso dei requisiti richiesti per fare parte della moneta unica.  Secondo  Der Spiegel, molto interessato ad accusare il vecchio cancelliere, si trattò di un indebito favore  al nostro paese. Al contrario tutto lascia  credere che Kohl si sia preso gioco di Prodi conducendo il gioco a favore della sua Germania,  che aveva tutto l'interesse ad avere l'Italia sotto controllo nell'euro.
   In ricompensa Prodi  ha avuto la presidenza della Commissione europea e adesso è a sua volta in lizza per il Quirinale.  

di Francesco Mario Agnoli 

12 febbraio 2013

Alla vigilia di guerre monetarie?










Il rischio che il mondo precipiti in pericolosi scenari di guerre valutarie diventa sempre più concreto. Ecco perché bisogna continuare ad insistere sulla necessità di un accordo strategico tra i governi e i più importanti attori dell’economia per riformare la finanza ed il sistema monetario internazionale. Secondo noi, una nuova Bretton Woods è sempre più urgente e necessaria.
Non siamo dei pessimisti inveterati, ma i segnali di pericolo sono ormai tanti. 
Gli Stati Uniti hanno appena deciso di procrastinare al 19 maggio prossimo ogni decisione riguardante l’ammontare del debito pubblico e dei conseguenti tagli al bilancio statale. Nel frattempo si permette all’amministrazione di funzionare sfondando in modo incontrollato il tetto del debito, che è di 14.400 miliardi di dollari. 
Ciò vuol dire che di fatto c’è una forte immissione di nuova liquidità nel sistema da parte della Federal Reserve. Tale operazione certamente ferma l’immediato default dell’economia americana,  però in seguito si dovrà far fronte alle possibili spirali inflazionistiche. 
Per il resto del mondo, invece, i nuovi dollari potranno provocare una destabilizzazione monetaria, il rischio di inflazione, maggiori flussi di capitali speculativi, acquisizioni pilotate di importanti risorse, ecc. Alla luce di questi rischi molti paesi emergenti, a partire dal Brasile, stanno cercando di porre delle barriere a questi movimenti incontrollati di valuta.
Con la creazione di ulteriore debito e di maggiore liquidità la Fed cerca anche di “pilotare” la discesa del valore del dollaro nei confronti delle altre monete e dell’euro in particolare. Lo fa con l’intento di rendere i prodotti americani più competitivi e strappare fette di mercato a beneficio dei produttori Usa. 
La storia ha già conosciuto simili politiche e le ha chiamate “svalutazione competitive” che hanno generato guerre commerciali. Il problema è che ora non le sta conducendo un piccolo paese come la Grecia, ma gli Usa che sono la prima economia del mondo!
Non è un caso perciò che anche il governo del Giappone abbia appena annunciato ufficialmente una simile strategia.  La Banca Centrale di Tokyo intende portare il tasso di inflazione previsto dall’1 al 2% attraverso l’acquisto di nuovi bond e altri titoli emessi dallo Stato. Solo per il 2013 si parla di un “quantitative easing” nipponico equivalente a circa 1.200 miliardi di dollari! Si ricordi che il debito pubblico, in verità largamente in mano ai giapponesi, è già superiore al 240% del Pil.
Anche queste misure mirano ad abbattere il valore dello yen nei confronti delle altre monete. Non solo nei confronti del dollaro e dell’euro ma anche verso lo yuan cinese. A differenza degli anni passati quando la gestione della crisi del debito era però accompagnata da consistenti surplus di esportazioni, nel 2012 il Giappone per la prima volta ha registrato un deficit commerciale globale del 5,8% e del 15,8% nei confronti della Cina. Negli ultimi mesi tale strategia monetaria ha già determinato il deprezzamento dello yen di ben oltre il 10% rispetto al dollaro e all’euro.
Simili politiche, come era prevedibile, stanno scatenando reazioni asimmetriche ovunque. Anche i recenti annunci tedeschi relativi al rimpatrio di una consistente parte delle loro riserve auree possono essere letti in quest’ottica. Recentemente il quotidiano economico Handelsblatt ha riferito che è intenzione di Berlino di passare dall’”oro cartaceo”, cioè quello tenuto nei forzieri della Fed di New York, della Bank of England e della Banque de France, all’”oro fisico” riportandolo in mani tedesche. 
Si ricordi che delle 3.400 tonnellate di oro tedesco, il 69% è fuori dai confini della Germania. Quasi la metà è negli Usa. Nei decenni passati ciò era giustificato con il timore di possibili minacce di occupazioni sovietiche. Oggi è più che legittimo volerle riportare a casa.  Tale decisione ovviamente, secondo noi, ha anche a che fare con le politiche monetarie attuate dagli Usa nei confronti dell’Europa, nonché con una crescente sfiducia sull’effettivo valore di un dollaro inflazionato.
Infine anche la Cina, che ha sempre cercato di evitare la rivalutazione della sua moneta per poter allargare i propri mercati, sta perseguendo con la classica determinazione cinese l’aumento delle proprie riserve di oro. 
La Cina è il primo produttore mondiale di oro con le sue 314 tonnellate annue. Sta comprando però oro sui mercati internazionali perché nell’anno in corso vuole aumentare di ben 500 tonnellate le sue riserve auree. Pechino attualmente ne detiene solo un migliaio di tonnellate. Poca cosa rispetto alle 8.133 degli Usa. Perciò sta lavorando per portare gran parte delle sue riserve dal dollaro all’oro. 
Lo scenario con la ricerca di soluzioni locali alle grandi sfide e alle emergenze  poste dalla crisi globale e monetaria è sconfortante. Si rischia un ritorno a vecchi egoismi e a pericolosi giochi geopolitici di stampo nazionalista e protezionista, con un arretramento rispetto agli equilibri mondiali faticosamente raggiunti nell’ultimo sessantennio.
 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

11 febbraio 2013

Peggio di così si vota






  

Quando un Paese non è in grado di esprimere una seria leadership politica e, pertanto, proiettarsi con le sue idee e visioni peculiari in un mondo in costante evoluzione, quando è incapace di programmare il suo avvenire, prossimo e lontano, diventa facile preda degli istinti rapaci degli avvoltoi della finanza e delle bestie sociali più retrive (industriali, economiche, ideologiche), le quali assorbono tutte le energie dello Stato distruggendo le ultime speranze di ripristinare un corso degli eventi più favorevole alla collettività, mentre ci si trova nel bel mezzo di una tempesta sistemica globale.

Queste colonie di saprofiti che si chiamano partiti, sindacati (operai e padronali),  cda di banche arraffatrici e di imprese decotte ed assistite, giornali asserviti, esattori incalliti, burocrati pervertiti, predicatori inviperiti e razzolatori invertiti, si moltiplicano nel tessuto connettivo comunitario divorandolo fino all’osso.

La speculazione, nelle sue diverse forme; lo smantellamento dei circuiti produttivi; gli inutili sperperi del denaro dei contribuenti nei settori di precedenti ondate tecnologiche;  la rincorsa dei modelli astratti nella gestione dei conti pubblici; la mancanza di piani di sviluppo e di rilancio degli investimenti nei comparti trainanti; la demolizione del welfare state; l’assenza di strategie per aggredire i mercati più profittevoli; i tentativi di smembramento delle imprese di punta attraverso svendite mascherate da privatizzazioni (Eni, Finmeccanica, ecc.); la dismissione delle infrastrutture fondamentali; l’andare a rimorchio delle altre grandi potenze nelle missioni militari e nelle scelte geopolitiche; l’adesione acritica alla propaganda mondiale in materia di condivisione dei processi e armonizzazione delle decisioni, salvo ritrovarsi ad asseverare risoluzioni unilaterali preconfezionate da terzi prepotenti; la perdita di privilegi commerciali e il dissolvimento di canali diplomatici preferenziali (si pensi alla Libia, all’Iran e, financo, alla Siria, tutti scenari dove prima di embarghi e conflitti imposti dai nostri partner a primeggiare era lo Stivale); in breve, ognuna di queste deficienze in un presente di profonde trasformazioni, genera decadenza nazionale e sottomissione internazionale.

L’Italia sta morendo per inettitudine propria ed aggressione esterna, ma nel dibattito elettorale, i  partiti e il loro seguito di militanti osservanti, anziché affrontare i temi urgenti di cui sopra, assumendosi le necessarie responsabilità, si lanciano in risse furibonde, come gli ultras alle partite di calcio, riempiendosi di vituperi, che poi sono strameritati per tutti. 

Questa tragica situazione si protrae ormai da un ventennio, da quando la precedente classe dirigente, democristiana e socialista, fu spazzata via da un golpe “per procura”, impropriamente chiamato Mani Pulite, con il quale vennero esautorati tali rappresentanti del popolo, eccessivamente disinvolti nel maneggiare il potere politico e, purtuttavia, nient’affatto incompetenti, per far posto agli odierni impresentabili, ovvero alle seconde file di quegli stessi organismi mutati esclusivamente nelle sigle, venute alla ribalta per la falcidiazione del vecchio establishment. 

Successivamente all’assalto di magistrati e puritani della legalità (più spaventati dalla caccia alle streghe che sinceri nel pentimento) agli assetti della I Repubblica – gli uni e gli altri accortisi sospettamente “tardi” del presunto letamaio consociativo, al quale dovevano la carriera o nel quale erano cresciuti professionalmente, ed altrettanto abili a rifugiarsi repentinamente nello sciocchezzaio giustizialistico e moralistico corrente, soccorsi, come poi si è saputo, da imboccamenti e spifferate di servizi stranieri – venne annunciata la necessaria rifondazione dell’Italia su basi eticamente trasparenti.

Basta guardarsi in giro per constatare lo sbaglio e l’abbaglio.

Adesso, nonostante la sovrabbondanza di onestà e perbenismo, si depreda più di ieri, si depauperano i cittadini in maniera più famelica, si frega il prossimo senza ritegno, si dilapidano risorse generali per misere ragioni di bottega, si consegnano nelle mani di avidi usurai europei e mondiali le patrie ricchezze, si mettono in saldo i tesori collettivi per un posto da ministro o da inviato speciale alla corte delle cerchie globali, si avviliscono le prospettive autonomistiche del Paese per ottenere l’endorsement forestiero che cresce quanto più si deprime la nostra sovranità statale.

E ci voleva una rivoluzione a suon di monetine al Raphael e di persecuzioni inquisitorie  per arrivare a questo scempio?

La verità è altrove, distante dai luoghi comuni di questi lustri ignobili e mistificanti. Quel colpo di Palazzo che portò a scoperchiare i quarantennali  metodi tangentari, consociativi, cooptativi e lottizzatori applicati alla gestione degli affari di stato, di Dc e Psi, con l’appoggio desistente del PCI, fu il risultato di un mutamento di scenario globale all’indomani della guerra fredda.

L’Italia perdeva il suo ruolo di bastione avanzato nella lotta al comunismo al fianco dell’Occidente americanizzato che così intese sbarazzarsi dei capi e delle correnti eccessivamente compromessi con un passato superato dagli eventi. 

Occorreva rivolgersi ad individui ambiziosi e apparentemente meno coinvolti col logoro “regime” demosocialista per riportare la Penisola entro un quadro di rapporti di più largo assoggettamento, politico, economico e culturale.

L’affermazione unipolare degli Usa, l’unica iperpuissance rimasta sulla scena, modificò le relazioni tra questa e i suoi satelliti i quali, per tanto tempo, avevano goduto di una certa tranquillità grazie al fatto di rappresentare una cintura protettiva verso il blocco sovietico.

Dissoltasi l’URSS e allargatisi i confini dell’impero, in assenza di concreti nemici esterni (la minaccia islamica è stata una invenzione delle teste d’uovo Yankees, che ogni tanto sfugge di mano ma che più spesso risolve intricate questioni periferiche),  agli alleati veniva imposto di partecipare ai maggiori sforzi della Casa Bianca per mantenere tale supremazia, senza i benefici e le garanzie antecedenti.

Inoltre, questo predominio assoluto, contrariamente a molte previsioni di Washington, entrerà in crisi in appena un decennio, col riaffacciarsi sulla scacchiera planetaria di nuovi e antichi protagonisti con velleità egemoniche mondiali e regionali: dalla rediviva Russia, alla rinascente Cina, alle altre formazioni minori le quali mirano a divincolarsi territorialmente costituendo influenze più ristrette che, tuttavia, intralciano i programmi delle superpotenze. 

In questa tenaglia di fatti, l’Italia, anziché reagire e ricavarsi un posto, ha dato seguito all’apertura dei suoi forzieri, tra traversate sul Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra che nel 1992 ospitò banchieri, faccendieri, manager delle best company pubbliche e private, uomini dell’alta finanza e delle nostre istituzioni, dove vennero sancite le linee maestre delle privatizzazioni dei gioielli di famiglia), regalie a capitani coraggiosi, disposti al rischio almeno finché lo Stato copre loro le spalle, cessioni a tutto spiano delle infrastrutture strategiche a compatrioti squattrinati o falliti (teste di turco si sarebbero chiamate una volta) risorti grazie a finanziatori occulti di stanza oltre confine e nei vari paradisi fiscali, ecc. ecc. 

Questi dovrebbero essere gli argomenti dell’agenda politica ed, invece, ci ritroviamo a dibattere tra le promesse di chi vuole eliminare l’IMU (una tassa che non avrebbe mai dovuto essere introdotta da quanto è iniqua ed ingiusta) pur avendola votata in aula e le lamentele della controparte la quale, invece, la ritiene ineliminabile, soprattutto dopo che è servita a salvare una banca amica. Il livello del dibattito è l’antipasto di quello che accadrà a breve. 

Tra i due grossi schieramenti antitetico-polari s’inserisce poi un pulviscolo di  chiacchieroni moderati, di sognatori liberali e di estremisti civici che è meglio perderli che trovarli. 

Rinchiusi nelle loro chiese oltranziste fantasticano: chi di creare una perfezione tecnocratica per governare gli italiani con l’assenso di Bruxelles e degli organismi transcontinentali; chi di eliminare lo Stato per lasciar sfogare gli animal spirits imprenditoriali; chi di riportarci ad un ambiente incontaminato, sano di corpo e di principi. I primi sono appena usciti dall’Esecutivo lasciandosi dietro tante macerie ed un mare di prelievi dalle tasche dei connazionali, i secondi sono i medesimi che invocano la libera concorrenza finché ci guadagnano mentre se iniziano a non macinare profitti s’inventano formule del tipo “too big to fail” per socializzare le perdite ed, infine, i terzi, vorrebbero riportarci indietro di secoli, alle comunità auto-sussistenti legate ai cicli stagionali ma senza pagare il dazio dell’arretratezza produttiva e della dipendenza dai capricci climatici di quelle formazioni umane vetuste, blaterando di reti e di energia alternativa in un simile quadro di rapporti sociali rifeudalizzati.

Per il momento, insomma, siamo messi davvero male, e non saranno le urne a liberarci dal marcio dei nostri giorni. L’unico augurio da farsi è che non vada anche peggio di così, ma le speranze sono poche. Peggio di così, infatti, c’è solo il voto.


di Gianni Petrosillo 

09 febbraio 2013

Le vere cause della crisi








   

La campagna elettorale ruota intorno al tema  unico della crisi economica (le troppe tasse ne sono un succedaneo dal momento che se  ne sono  create di nuove e si  sono aumentate le vecchie nel tentativo -sbagliato – di contrastarla). La cosa strana è che mentre solo di crisi si parla non se ne cercano le vere cause e si preferisce scannarsi  per dimostrare  che i governi di centro-destra hanno fatto peggio di quelli di centro-sinistra o viceversa.
    Il fatto è   che alcune di queste cause sono pressoché totalmente al di fuori dal potere di controllo e d'intervento dei partiti altre sono considerate  scarsamente produttive dal punto di vista elettorale, perché comuni a tutti i contendenti o comunque difficili da spiegare in modo incisivo   agli elettori.
    La causa prima, irrimediabile finché non si ribalta tutto, è insita nello stesso sistema economico occidentale (ormai mondiale), che punta (e non può fare altrimenti per sopravvivere) sulla crescita continua dell'economia  come se in  un mondo finito fosse possibile una crescita infinita. Eppure la convinzione della possibilità-necessità della crescita continua è così radicata che nessuno si accorge dell'assurdità di valutare la crisi in base a dati considerati disastrosi solo perché riportano la situazione economica del  2012 a quella del  2001, del 1998 o anche del 1984 cioè ad anni nei quali la recessione sembrava impossibile  e caso mai si protestava contro l'eccesso del consumismo.
 Altre cause  della crisi sono meno connaturate al sistema, ma ugualmente fuori dal controllo dei singoli Stati nazionali, che ben difficilmente riuscirebbero a rimangiarsi le decisioni prese  quando si scelse la strada della globalizzazione, che apriva alla concorrenza mondiale il mondo del lavoro. E' difficile dire  se in linea assoluta la globalizzazione sia stata un bene o un male. Certamente ha migliorato la situazione dei lavoratori del terzo e del quarto mondo, ma per quelli dei paesi occidentali e il loro benessere economico  è stata, come era  facile prevedere, un autentico disastro. Il principio dei vasi comunicanti vale anche in  economia e, venuti meno confini, ostacoli e barriere, comporta l'inevitabile  livellamento dei salari e, quindi, del livello di vita con conseguente miglioramento per i paesi poveri,  peggioramento per quelli  ricchi.
   Infine ci sono gli errori della nostra classe politica, non sempre necessariamente involontari e comunque anche questi difficilmente reversibili a causa della loro integrazione nel sistema europeo  (da questi nostri errori altri paesi, ad esempio la Germania, possono avere tratto beneficio). Il più grave indubbiamente la privatizzazione delle Banche ad opera del duo Ciampi-Amato. Come scrive Riccardo Ruggeri su “Italia Oggi”, per effetto di questo malaugurato provvedimento “le Banche hanno assunto un curioso status: se guadagnano danno dividendi principeschi agli azionisti e bonus-liquidazioni imperiali ai supermanager, se perdono paga lo Stato, se falliscono lo Stato le salva”.    A titolo di premio per questo brillante risultato Azelio Ciampi è stato nominato  presidente della Repubblica e Giuliano Amato è in predicato di sostituire Napolitano al Quirinale.
    Un altro macroscopico errore tutto italico è stato  il cambio folle lira/euro accettato da Romano Prodi, che dalla sera al mattino ha pressoché dimezzato i patrimoni e  le entrate degli italiani. Basti considerare  che prima dell'euro duemilioni al mese erano  un signor stipendio, subito dopo mille euro una mercede da sopravvivenza. Romano Prodi voleva fare entrare ad ogni costo l'Italia nell'area euro e di fronte ai dubbi avanzati dalla Germania e da altri paesi particolarmente diffidenti nei nostri confronti accettò il cambio di poco meno di 2.000 lire per euro  senza rendersi conto di avere in mano una carta formidabile per ottenere condizioni molto migliori, perché la Germania mai  avrebbe accettato l'euro se l'Italia, a quel momento la seconda potenza industriale europea, avesse conservato la lira e, quindi, la possibilità di farle concorrenza sui mercati mondiali svalutandola.  “Der Spiegel” del 7 maggio 2012 ha accusato, con tanto di documentazione,   Helmut  Kohl  di avere consentito a Prodi, allora presidente del Consiglio italiano (siamo nel 1998) di truccare le carte dei nostri bilanci  per fare figurare che l'Italia fosse, contrariamente al vero, in possesso dei requisiti richiesti per fare parte della moneta unica.  Secondo  Der Spiegel, molto interessato ad accusare il vecchio cancelliere, si trattò di un indebito favore  al nostro paese. Al contrario tutto lascia  credere che Kohl si sia preso gioco di Prodi conducendo il gioco a favore della sua Germania,  che aveva tutto l'interesse ad avere l'Italia sotto controllo nell'euro.
   In ricompensa Prodi  ha avuto la presidenza della Commissione europea e adesso è a sua volta in lizza per il Quirinale.  

di Francesco Mario Agnoli