15 febbraio 2013

Il boom degli altri


Perché i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) crescono (in termini di Pil) più dei paesi occidentali e dell'Italia in particolare?
Per lo stesso motivo per cui l'Italia, negli anni 60, era in pieno boom: c'era da costruire una nuova economia (passando dall'Agricoltura all'Industria), si pagavano poche tasse (intorno al 30% del Pil) e c'era molta libertà di intraprendere...
Leggete quella "ricetta" al contrario: tasse elevatissime (intorno al 50% del Pil), completa rigidità di un sistema economico soffocato dalla burocrazia e da un numero sterminato di leggi e regolamenti ed un economia matura, esposta alla concorrenza dei paesi emergenti... ed avrete i motivi per cui da quindici anni noi non cresciamo più.
Aggiungeteci l'ulteriore zavorra dell'euro (che ci rende molto vulnerabili alla concorrenza dei paesi nostri concorrenti, soprattutto la Germania) ed avrete il quadro quasi completo della nostra situazione di grande difficoltà.
Negli anni 60, dopo 20 anni di fascismo ed una guerra persa, gli italiani avevano voglia di intraprendere... arricchirsi... e farlo rapidamente...
Al Nord le aziende nascevano come funghi (oggi chiudono in rapida sequenza) e dal Sud, i treni speciali trasportavano milioni di lavoratori che fornivano la manodopera necessaria.
Al governo del paese, una classe dirigente "intelligente e competente" (De Gasperi, La Malfa, Malagodi, etc...) sapeva perfettamente che non doveva interferire con quella corsa forsennata del paese verso la modernità...
L'evasione fiscale era la regola (... ed era tollerata...) e gli utili aziendali, piuttosto che andare allo Stato in tasse, venivano generosamente reinvestiti nelle aziende stesse, che crescevano a ritmi impressionanti e richiedevano sempre più lavoratori.
L'Italia di allora era (quasi) come la Cina di oggi: tassi di crescita intorno al 6% e milioni di persone che lasciavano la campagna e la provincia per trasferirsi nelle fabbriche di Milano, Torino e Genova... il famoso triangolo industriale.
Ma quest'analisi non sarebbe completa senza citare gli imprenditori di quei tempi: Olivetti, Pirelli, Falck, Valletta, Mattei... gente determinata che aveva il coraggio necessario per lanciarsi alla conquista dei mercati mondiali, sfidando, se necessario, lo strapotere degli americani (mi riferisco, in particolare, ad Enrico Mattei).
La scuola era ancora quella fascista ("costruita" con la riforma di Giovanni Gentile) che "produceva" uomini e donne di cultura... professionisti di prima classe...
... E poi, ad un certo punto, si affermò la "democrazia"... e i politici diventarono "professionisti del consenso" il cui unico obiettivo era farsi rieleggere... e , rapidamente, tutto cambiò.
Per farsi rieleggere i "nuovi professionisti della politica" (Craxi, De Mita, Spadolini... etc..) dovevano esaudire tutti i desideri dei loro elettori... il che significava spendere denaro pubblico per acquistare (e mantenere) il consenso...
Ma per spenderlo bisognava prima ottenerlo... con tasse sempre maggiori che, però, non bastavano mai...
Fu così che il debito pubblico, dopo il divorzio della Banca d'Italia dal Tesoro (voluto da Andreatta nel 1981), spiccò il volo verso il 100% del Pil e poi ancora oltre... e le tasse si misero a rincorrere spese sempre più elevate... fino a soffocare l'economia.
Al Sud furono "somministrati" continui "ammortizzatori sociali" (sotto forma di impieghi statali spesso improduttivi, pensioni generosissime, incentivi fiscali e finanziamenti a fondo perduto senza alcun controllo) i quali generarono la convinzione che il governo aveva l'obbligo di mantenerti... a patto che tu lo votassi...
E così da Napoli a Palermo si creò un'intera area di assistenza che, in larga parte, viveva di "sussidi statali" i quali venivano estratti dalle tasse pagate al Nord. Finché l'euro non ha messo in ginocchio l'intera Industria del Nord che, per sopravvivere, ha cominciato ad emigrare (Romania, Slovenia, Albania...)... oppure, semplicemente, ha smesso di produrre (negli ultimi 12 anni l'Italia ha perso il 30% del suo apparato industriale) e, dunque, le maggiori spese statali dovevano "prelevare tasse" da una base imponibile sempre minore, col risultato di dover incrementare la pressione fiscale fino a livelli insostenibili.
Osservate in tabellina sotto l'evolversi negli anni, delle spese dello Stato italiano in percentuale del Pil...
Anni
1870
1913
1920
1937
1960
1980
1990
2000
2005
2009
2012
Spese/Pil %
13.7
17.1
30.1
31.1
30.1
42.1
53.4
46.2
48.2
51.9
56.2
Dal 1920 al 1960 le spese (e quindi le tasse) si sono mantenute basse e costanti (circa il 30.5% del Pil) e poi, con l'arrivo dei "professionisti della politica" che si sono pagato il consenso elettorale (e quindi la loro rielezione) con la spesa pubblica, quel rapporto Spesa/Pil si è impennato prima al 42.1% nel 1980, e poi al 53.4% nel 1990...
Nel 1992, difatti, l'Italia ha avuto una prima crisi finanziaria da euro (che al tempo si chiamava Ecu) e debito... da cui è uscita con una massiccia svalutazione rispetto alle principali valute dei paesi concorrenti.
Nel 2000 le spese dello Stato sono calate al 46.2 del Pil, per poi riprendere la via del solito vizio negli anni immediatamente successivi... fino al 51.9% di Berlusconi ed il 56.2% di Monti.
E non è tutto: nel 2007 le leggi in vigore in Italia assommavano a 150000... record mondiale di tutti i tempi.
Le aziende italiane, dunque, sono state soffocate da tasse che hanno inseguito spese le cui entità si commentano da sole nella tabella precedente... e da una burocrazia che ha poggiato il suo potere su un numero sterminato di leggi.
Quando Berlusconi scese in campo (1994) aveva promesso di ridurre tasse (quindi, spese) e burocrazia... esattamente ciò che, allora come adesso, serviva a questo paese... Difatti stravinse al primo colpo...
Poi, una volta al potere, ha fatto come tutti quelli prima di lui: più spese (per comprare consenso) e, quindi, più tasse... E nel frattempo, la burocrazia, inutile dirlo, ha continuato a proliferare su leggi sempre più numerose...
E nonostante ciò, il barlafüs di Arcore, oggi si ri-presenta 20 anni dopo con le stesse promesse elettorali (meno tasse, meno burocrazia) mai mantenute e, incredibilmente, guadagna vistosamente nei sondaggi...
La ricetta per tornare a crescere è, dunque, semplicissima, basta ritornare allo spirito degli anni 60: basse tasse e poca burocrazia (esattamente come oggi avviene in Cina, India, Brasile e Russia dove, inutile dirlo, c'è anche una diffusissima evasione fiscale che, come da noi negli anni 60, è reinvestita nelle aziende e genera ulteriore crescita).
Ma com'è possibile abbassare le tasse se non si riducono le spese?
... E com'è possibile ridurre le spese se questi politici, per farsi rieleggere, devono "comprare" il consenso dei loro elettori con spese sempre crescenti?
E com'è possibile ridurre la burocrazia se, nonostante i recenti (2008) parziali "ripulisti" di Calderoli, deteniamo ancora il record mondiale del numero di leggi in vigore e, inoltre, burocrazia significa posti di lavoro per gli amici, poltrone per i "trombati" e generose mazzette extra (tutte cose che, diciamoci la verità, per i politici sono "irrinunciabili")?
Per questo occorre cambiare completamente registro... bisogna mandare a casa i professionisti della politica (Berlusconi, Bersani, Fini, Casini... etc..) che, per loro assoluta necessità, devono spendere denaro pubblico ed alimentare la burocrazia...
20 anni di alternanza centrosinistra - centrodestra hanno dimostrato chiaramente che, indipendentemente dal colore, il problema è esattamente "loro" (i professionisti della politica)... e, quindi, continuando ad affidarci a loro, non ne usciremo mai...
... Per questo io voto Movimento 5 stelle... è l'unica maniera che vedo di liberarci di tutti questi parassiti...
... Oppure voi avete un altra soluzione da suggerirmi?

di Giuseppe Migliorino

14 febbraio 2013

Chi perde è comunque l'elettore


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http://www.modenatoday.it/~media/base/15960919689645/la-solitudine-dell-elettore-alla-pol-gino-nasi.jpg
Che agonia. Non si puo' aprire la Tv senza vedere le solite facce di palta che pontificano. Non si puo' accendere la radio senza sentire le loro voci odiose. Non si puo' sfogliare un giornale senza essere sommersi da un profluvio di dichiarazioni, contradditorie, immotivate, irrealistiche, iperboliche. E sono tutti nati ieri. Sono tutti vergini. Non c'è nessuno, che pur essendo in politica da vent'anni e magari anche da trenta, abbia l'onestà intellettuale di assumersi, almeno pro quota, qualche responsabilità del disastro, economico e morale, in cui è caduto il nostro Paese. La rigetta sull'avversario o presunto tale. Dovrebbe bastare questo spettacolino indecente per convincere il cittadino che abbia un minimo di discernimento a dire: sapete qual'è la novità ? Io non voto, non vengo a legittimarvi, per l'ennesima volta, a comandarmi per altri cinque anni dovendovi anche pagare profumatamente.
La democrazia rappresentativa è una finzione il cui rito culminante sono le elezioni. Lo è tanto più oggi che, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno accettato quel libero mercato che, insieme al modello industriale, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistanza, i nostri stili e ritmi di vita e di cui le democrazia è solo l'involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che avvolge la polpetta avvelenata. Le antiche categorie di destra e sinistra non hanno più senso (ammesso che lo abbiano mai avuto perchè il marxismo non è che l'altra faccia della stessa medaglia: l'industrialismo). Non esistono più le classi, ma un enorme ceto medio indifferenziato che ha, più o meno, gli stessi interessi. Tuttavia questo ceto medio, per abitudine, per il martellante lavaggio del cervello da parte dei media legati alla classe politica (l'unica rimasta su piazza) si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter. E quando il cosiddetto 'popolo della sinistra' (o della destra) scende in piazza per celebrare qualche vittoria elettorale, ballando, cantando, saltando, agitandosi, è particolarmente patetico perchè i vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a questi spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere (la 'casta' per dirla con Gian Antonio Stella). Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che non è la fazione che l'ha perduta (che verrà ripagata nel sottogoverno in attesa, al prossimo giro, di restituire il favore) ma proprio quel popolo festante insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui l'altro è sceso in piazza. Vincano i giocatori dell'Inter o del Milan è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo.
di Massimo Fini 

13 febbraio 2013

Euro: un disastro annunciato






Scrivevamo un anno fa che le politiche impostate per salvare l'euro avrebbero lentamente avviato l'Italia a diventare un paese del Terzo Mondo (M.Badiale, F. Tringali, “L'euro non è un dogma”, Alfabeta2, dicembre 2011). Gli eventi di quest'ultimo periodo confermano quel giudizio: la crisi economica prosegue, così come la distruzione dei diritti dei lavoratori e l'attacco ai redditi dei ceti subalterni, mentre l'adozione di misure come il Fiscal Compact determina, in sostanza, la cessione della sovranità degli Stati nazionali a lontane strutture oligarchiche e la conseguente cancellazione di quel poco di democrazia ancora rimasta in questo Paese. Non intendiamo qui dilungarci su questi temi, né su quelli relativi alla irriformabilità dell'Unione Europea in senso democratico e alla necessità di uscire da essa e dalla moneta unica, perché li abbiamo trattati dettagliatamente in un libro uscito da poco (M.Badiale, F. Tringali, “La trappola dell'euro”, Asterios editore), al quale rimandiamo per approfondimenti.

Ci sembra utile, invece, ripercorrere in questa sede alcune delle discussioni che hanno accompagnato il passaggio dell'Italia a un sistema monetario europeo a cambi fissi e poi all'euro. È importante infatti sapere che l'esistenza di un rapporto consequenziale fra la rinuncia alla flessibilità del cambio valutario e la realizzazione di una vera e propria macelleria sociale in termini di aggressione ai diritti e ai redditi dei ceti medi e popolari, era stata chiaramente prevista già tre decenni fa.

Agganciare la valuta della Germania a quella di Paesi economicamente più deboli e con inflazione più alta, senza prevedere meccanismi certi ed automatici di riequilibrio fra i Paesi in surplus e quelli in deficit, non poteva non determinare la costruzione di un rapporto asimmetrico: da una parte la Germania e i Paesi forti nel ruolo di leaders, dall'altra i Paesi più deboli nel ruolo di followers, impossibilitati a recuperare competitività e sostanzialmente costretti a riprodurre le politiche economiche e sociali tedesche, con le conseguenze che vediamo oggi, dopo dieci anni di moneta unica (la quale rappresenta il caso “estremo” di sistema valutario a cambi fissi): deflazione, spinta al ribasso dei diritti e dei salari dei ceti medi e popolari, innalzamento della disoccupazione, politiche di rigore destinate a portare il Paese ad avvitarsi in spirali recessive.

Ma vediamo allora alcune delle discussioni svoltesi negli anni Settanta. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods, i Paesi forti dell'Europa, come la Francia e soprattutto la Germania Ovest, iniziano a spingere per la creazione di un sistema a cambi fissi tra i Paesi del vecchio continente. Il primo esperimento, il cosiddetto “serpente monetario” non ottiene grande successo. Agli inizi del 1978 inizia ad essere progettato il Sistema Monetario Europeo. A gestire i confronti fra i Paesi europei, e l'eventuale ingresso dell'Italia nel nuovo sistema, è il governo Andreotti IV, un monocolore DC tenuto in vita dall'appoggio esterno del PCI.  In quella fase, il partito di Berlinguer è quindi un interlocutore importante per i ministri che partecipano alle fasi di preparazione dei vertici europei che porteranno alla nascita dello SME.
All'interno del PCI vi sono posizioni diverse, ma in sostanza il partito esprime ben presto la propria netta adesione ad un sistema europeo che porti a cambi fissi tra le valute. Lo stesso fa la CGIL di Lama, nonostante siano chiare le conseguenze per i lavoratori che tale scelta comporta.
Il PCI tenta di mitigare i prevedibilissimi effetti nefasti del “vincolo esterno” costituito dall'appartenenza allo SME, ponendo alcune condizioni, che inizialmente lo stesso governo democristiano assume come proprie. Esse sono riassunte nel discorso tenuto alla Camera dal ministro Pandolfi il 10 ottobre 1978. In sintesi la richiesta è quella di far precedere l'instaurazione della fissità dei cambi da un periodo di transizione meno rigido, e poi accompagnare il regime a cambi bloccati con misure a favore delle economie meno prospere e, soprattutto, con regole capaci di “stabilire, nel caso di deviazione degli andamenti di cambio, una equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo” [virgolettato tratto dal discorso del ministro Pandolfi alla Camera, 10/10/1978]. 

La ragione di queste richieste è semplice: se un gruppo di Stati rinuncia alla flessibilità del cambio valutario, e quindi alla possibilità di operare svalutazioni/rivalutazioni, senza introdurre  meccanismi di riequilibrio fra le economie in surplus e quelle in deficit strutturale, gli oneri dei necessari “aggiustamenti” ricadono tutti sui lavoratori degli Stati più deboli, chiamati ad accettare minori diritti, maggiore fatica e diminuzione del salario, al fine di tentare il recupero della competitività perduta in favore degli Stati più forti (si noti che la “virtù” degli Stati forti consiste molto spesso nella loro maggior capacità, rispetto ai partner più deboli, di mantenere bassa l'inflazione contenendo i salari e comprimendo la domanda interna, esattamente come fa ora la Germania).
Tutto ciò era già perfettamente chiaro a tutti i principali attori politici che discutevano l'eventuale adesione dell'Italia allo SME.
Ma il vertice di Bruxelles del dicembre 1978 vede la sconfitta della posizione italiana. Francia e Germania spingono per dar vita immediatamente al sistema a cambi fissi, e non accettano le proposte della delegazione italiana, limitandosi ad accordare al nostro Paese una banda di oscillazione maggiore rispetto a quella prevista per gli altri (6% invece che 2,5%).
Poco dopo il suddetto vertice, nell'aula della Camera dei deputati si svolge la discussione sulla proposta di adesione immediata dell'Italia allo SME. 
La linea che il PCI aveva tenuto era stata completamente sconfitta, le condizioni poste non erano state accolte, e il partito non può non trarne delle conseguenze. Infatti, nella discussione parlamentare gli esponenti del PCI espongono in modo chiaro i rischi che l'Italia stava correndo.  L'intervento più autorevole, quello del membro della segreteria nazionale, si spinge a sostenere che dal vertice di Bruxelles arrivava la “conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità”, aggiungendo che “è così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendo un paese come l’Italia alla deflazione”.

È facile notare come i problemi indicati in quel lontano dibattito parlamentare siano esattamente gli stessi con cui ci confrontiamo oggi: infatti il punto è che in regime di cambi fissi, la politica non espansiva della Germania costringe le economie più deboli alla deflazione, cioè all'attacco ai salari. Ed è interessante sottolineare che l'esponente della segreteria nazionale del PCI che dimostrò di aver così chiari i problemi legati all'adozione di un sistema di cambi fissi, rispondeva al nome di Giorgio Napolitano. Non si tratta di un caso di omonimia: è proprio la stessa persona che oggi, dall'alto del Colle, difende a spada tratta l'euro. 
La diversità di questi comportamenti, seppur a distanza di oltre trent'anni l'uno dall'altro, potrebbe stupire. Tuttavia uno sguardo più attento alle vicende del 1978 può farci comprendere che la diversità non è poi così ampia. Infatti, va detto che è sbagliato sostenere, come fanno in molti, che il PCI votò contro lo SME. Il comportamento del partito fu molto meno netto, e ciò rappresentò un chiaro messaggio ai ceti dominanti.
Il gruppo comunista, infatti, chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l'impegno per l'adesione immediata dell'Italia allo SME). Sulla prima e sulla terza parte il PCI si astenne. Non solo: il PCI non aprì immediatamente una crisi di governo (anche se l'esecutivo cadde comunque il mese successivo).
Era chiaro che né il PCI, né la CGIL intendevano fare le barricate contro lo SME, così come iniziava ad apparire evidente che tentare di “mitigarne” gli effetti era impossibile: i Paesi più forti non avevano nessuna intenzione di concedere meccanismi di riequilibrio fra gli Stati in surplus e quelli in disavanzo (esattamente come oggi), ed i ceti dirigenti dei Paesi più deboli non avevano nessuna intenzione di insistere, perché sapevano che la rigidità del sistema avrebbe aperto loro la possibilità di distruggere i diritti del lavoro, abbassare i salari, privatizzare ogni cosa (appunto quello che succede oggi).

Tutto divenne ancora più nitido nel periodo successivo: in primo luogo, il PCI fu allontanato dall'area di governo. In secondo luogo nel 1981 avvenne il “divorzio” fra Tesoro e Banca d'Italia, che privò il nostro Paese dell'effetto calmierante sui tassi di interesse sul debito costituito dall'acquisto dei titoli stessi da parte della Banca Centrale, con l'ovvio effetto di imbrigliare ancora di più la nostra economia e di obbligare il nostro Paese ad affidarsi totalmente al mercato per finanziarsi,  costringendolo a seguire le scelte dei Paesi più forti dell'area SME, cosa che porterà alla crisi del 1992. In terzo luogo venne attaccata con successo la “scala mobile” al fine di abbattere le barriere alla moderazione salariale.
Il risultato del referendum sulla “scala mobile” del 1985 sancì la totale sconfitta della linea del PCI e della maggiore confederazione sindacale: non era più possibile realizzare forme di opposizione “collaborativa” con i ceti dominanti, come quelle realizzate nel “trentennio dorato”, che temperassero le scelte del governo in modo da ottenere risultati positivi per i ceti subalterni.
I ceti dirigenti italiani ed europei si avviavano sulla strada dell'attacco totale ai lavoratori, ai diritti conquistati, allo stato sociale, al settore pubblico dell'economia.
Il PCI e la CGIL si trovarono quindi di fronte ad un bivio storico: difendere gli interessi dei ceti medi e popolari assumendo posizioni nettamente contrarie al processo di unificazione europeo (che vedeva proprio nello SME il suo fulcro), e avviare così uno scontro molto duro (e dagli esiti imprevedibili) con i ceti dominanti, oppure accettare supinamente le scelte dei ceti dominanti stessi, accantonando le condizioni poste al tempo della discussione sull'ingresso dell'Italia nello SME e proponendosi come forze di governo “responsabili” ed “europeiste”. Sappiamo bene quale strada hanno scelto.


di Marino Badiale, Fabrizio Tringali 

15 febbraio 2013

Il boom degli altri


Perché i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) crescono (in termini di Pil) più dei paesi occidentali e dell'Italia in particolare?
Per lo stesso motivo per cui l'Italia, negli anni 60, era in pieno boom: c'era da costruire una nuova economia (passando dall'Agricoltura all'Industria), si pagavano poche tasse (intorno al 30% del Pil) e c'era molta libertà di intraprendere...
Leggete quella "ricetta" al contrario: tasse elevatissime (intorno al 50% del Pil), completa rigidità di un sistema economico soffocato dalla burocrazia e da un numero sterminato di leggi e regolamenti ed un economia matura, esposta alla concorrenza dei paesi emergenti... ed avrete i motivi per cui da quindici anni noi non cresciamo più.
Aggiungeteci l'ulteriore zavorra dell'euro (che ci rende molto vulnerabili alla concorrenza dei paesi nostri concorrenti, soprattutto la Germania) ed avrete il quadro quasi completo della nostra situazione di grande difficoltà.
Negli anni 60, dopo 20 anni di fascismo ed una guerra persa, gli italiani avevano voglia di intraprendere... arricchirsi... e farlo rapidamente...
Al Nord le aziende nascevano come funghi (oggi chiudono in rapida sequenza) e dal Sud, i treni speciali trasportavano milioni di lavoratori che fornivano la manodopera necessaria.
Al governo del paese, una classe dirigente "intelligente e competente" (De Gasperi, La Malfa, Malagodi, etc...) sapeva perfettamente che non doveva interferire con quella corsa forsennata del paese verso la modernità...
L'evasione fiscale era la regola (... ed era tollerata...) e gli utili aziendali, piuttosto che andare allo Stato in tasse, venivano generosamente reinvestiti nelle aziende stesse, che crescevano a ritmi impressionanti e richiedevano sempre più lavoratori.
L'Italia di allora era (quasi) come la Cina di oggi: tassi di crescita intorno al 6% e milioni di persone che lasciavano la campagna e la provincia per trasferirsi nelle fabbriche di Milano, Torino e Genova... il famoso triangolo industriale.
Ma quest'analisi non sarebbe completa senza citare gli imprenditori di quei tempi: Olivetti, Pirelli, Falck, Valletta, Mattei... gente determinata che aveva il coraggio necessario per lanciarsi alla conquista dei mercati mondiali, sfidando, se necessario, lo strapotere degli americani (mi riferisco, in particolare, ad Enrico Mattei).
La scuola era ancora quella fascista ("costruita" con la riforma di Giovanni Gentile) che "produceva" uomini e donne di cultura... professionisti di prima classe...
... E poi, ad un certo punto, si affermò la "democrazia"... e i politici diventarono "professionisti del consenso" il cui unico obiettivo era farsi rieleggere... e , rapidamente, tutto cambiò.
Per farsi rieleggere i "nuovi professionisti della politica" (Craxi, De Mita, Spadolini... etc..) dovevano esaudire tutti i desideri dei loro elettori... il che significava spendere denaro pubblico per acquistare (e mantenere) il consenso...
Ma per spenderlo bisognava prima ottenerlo... con tasse sempre maggiori che, però, non bastavano mai...
Fu così che il debito pubblico, dopo il divorzio della Banca d'Italia dal Tesoro (voluto da Andreatta nel 1981), spiccò il volo verso il 100% del Pil e poi ancora oltre... e le tasse si misero a rincorrere spese sempre più elevate... fino a soffocare l'economia.
Al Sud furono "somministrati" continui "ammortizzatori sociali" (sotto forma di impieghi statali spesso improduttivi, pensioni generosissime, incentivi fiscali e finanziamenti a fondo perduto senza alcun controllo) i quali generarono la convinzione che il governo aveva l'obbligo di mantenerti... a patto che tu lo votassi...
E così da Napoli a Palermo si creò un'intera area di assistenza che, in larga parte, viveva di "sussidi statali" i quali venivano estratti dalle tasse pagate al Nord. Finché l'euro non ha messo in ginocchio l'intera Industria del Nord che, per sopravvivere, ha cominciato ad emigrare (Romania, Slovenia, Albania...)... oppure, semplicemente, ha smesso di produrre (negli ultimi 12 anni l'Italia ha perso il 30% del suo apparato industriale) e, dunque, le maggiori spese statali dovevano "prelevare tasse" da una base imponibile sempre minore, col risultato di dover incrementare la pressione fiscale fino a livelli insostenibili.
Osservate in tabellina sotto l'evolversi negli anni, delle spese dello Stato italiano in percentuale del Pil...
Anni
1870
1913
1920
1937
1960
1980
1990
2000
2005
2009
2012
Spese/Pil %
13.7
17.1
30.1
31.1
30.1
42.1
53.4
46.2
48.2
51.9
56.2
Dal 1920 al 1960 le spese (e quindi le tasse) si sono mantenute basse e costanti (circa il 30.5% del Pil) e poi, con l'arrivo dei "professionisti della politica" che si sono pagato il consenso elettorale (e quindi la loro rielezione) con la spesa pubblica, quel rapporto Spesa/Pil si è impennato prima al 42.1% nel 1980, e poi al 53.4% nel 1990...
Nel 1992, difatti, l'Italia ha avuto una prima crisi finanziaria da euro (che al tempo si chiamava Ecu) e debito... da cui è uscita con una massiccia svalutazione rispetto alle principali valute dei paesi concorrenti.
Nel 2000 le spese dello Stato sono calate al 46.2 del Pil, per poi riprendere la via del solito vizio negli anni immediatamente successivi... fino al 51.9% di Berlusconi ed il 56.2% di Monti.
E non è tutto: nel 2007 le leggi in vigore in Italia assommavano a 150000... record mondiale di tutti i tempi.
Le aziende italiane, dunque, sono state soffocate da tasse che hanno inseguito spese le cui entità si commentano da sole nella tabella precedente... e da una burocrazia che ha poggiato il suo potere su un numero sterminato di leggi.
Quando Berlusconi scese in campo (1994) aveva promesso di ridurre tasse (quindi, spese) e burocrazia... esattamente ciò che, allora come adesso, serviva a questo paese... Difatti stravinse al primo colpo...
Poi, una volta al potere, ha fatto come tutti quelli prima di lui: più spese (per comprare consenso) e, quindi, più tasse... E nel frattempo, la burocrazia, inutile dirlo, ha continuato a proliferare su leggi sempre più numerose...
E nonostante ciò, il barlafüs di Arcore, oggi si ri-presenta 20 anni dopo con le stesse promesse elettorali (meno tasse, meno burocrazia) mai mantenute e, incredibilmente, guadagna vistosamente nei sondaggi...
La ricetta per tornare a crescere è, dunque, semplicissima, basta ritornare allo spirito degli anni 60: basse tasse e poca burocrazia (esattamente come oggi avviene in Cina, India, Brasile e Russia dove, inutile dirlo, c'è anche una diffusissima evasione fiscale che, come da noi negli anni 60, è reinvestita nelle aziende e genera ulteriore crescita).
Ma com'è possibile abbassare le tasse se non si riducono le spese?
... E com'è possibile ridurre le spese se questi politici, per farsi rieleggere, devono "comprare" il consenso dei loro elettori con spese sempre crescenti?
E com'è possibile ridurre la burocrazia se, nonostante i recenti (2008) parziali "ripulisti" di Calderoli, deteniamo ancora il record mondiale del numero di leggi in vigore e, inoltre, burocrazia significa posti di lavoro per gli amici, poltrone per i "trombati" e generose mazzette extra (tutte cose che, diciamoci la verità, per i politici sono "irrinunciabili")?
Per questo occorre cambiare completamente registro... bisogna mandare a casa i professionisti della politica (Berlusconi, Bersani, Fini, Casini... etc..) che, per loro assoluta necessità, devono spendere denaro pubblico ed alimentare la burocrazia...
20 anni di alternanza centrosinistra - centrodestra hanno dimostrato chiaramente che, indipendentemente dal colore, il problema è esattamente "loro" (i professionisti della politica)... e, quindi, continuando ad affidarci a loro, non ne usciremo mai...
... Per questo io voto Movimento 5 stelle... è l'unica maniera che vedo di liberarci di tutti questi parassiti...
... Oppure voi avete un altra soluzione da suggerirmi?

di Giuseppe Migliorino

14 febbraio 2013

Chi perde è comunque l'elettore


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http://www.modenatoday.it/~media/base/15960919689645/la-solitudine-dell-elettore-alla-pol-gino-nasi.jpg
Che agonia. Non si puo' aprire la Tv senza vedere le solite facce di palta che pontificano. Non si puo' accendere la radio senza sentire le loro voci odiose. Non si puo' sfogliare un giornale senza essere sommersi da un profluvio di dichiarazioni, contradditorie, immotivate, irrealistiche, iperboliche. E sono tutti nati ieri. Sono tutti vergini. Non c'è nessuno, che pur essendo in politica da vent'anni e magari anche da trenta, abbia l'onestà intellettuale di assumersi, almeno pro quota, qualche responsabilità del disastro, economico e morale, in cui è caduto il nostro Paese. La rigetta sull'avversario o presunto tale. Dovrebbe bastare questo spettacolino indecente per convincere il cittadino che abbia un minimo di discernimento a dire: sapete qual'è la novità ? Io non voto, non vengo a legittimarvi, per l'ennesima volta, a comandarmi per altri cinque anni dovendovi anche pagare profumatamente.
La democrazia rappresentativa è una finzione il cui rito culminante sono le elezioni. Lo è tanto più oggi che, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno accettato quel libero mercato che, insieme al modello industriale, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistanza, i nostri stili e ritmi di vita e di cui le democrazia è solo l'involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che avvolge la polpetta avvelenata. Le antiche categorie di destra e sinistra non hanno più senso (ammesso che lo abbiano mai avuto perchè il marxismo non è che l'altra faccia della stessa medaglia: l'industrialismo). Non esistono più le classi, ma un enorme ceto medio indifferenziato che ha, più o meno, gli stessi interessi. Tuttavia questo ceto medio, per abitudine, per il martellante lavaggio del cervello da parte dei media legati alla classe politica (l'unica rimasta su piazza) si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter. E quando il cosiddetto 'popolo della sinistra' (o della destra) scende in piazza per celebrare qualche vittoria elettorale, ballando, cantando, saltando, agitandosi, è particolarmente patetico perchè i vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a questi spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere (la 'casta' per dirla con Gian Antonio Stella). Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che non è la fazione che l'ha perduta (che verrà ripagata nel sottogoverno in attesa, al prossimo giro, di restituire il favore) ma proprio quel popolo festante insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui l'altro è sceso in piazza. Vincano i giocatori dell'Inter o del Milan è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo.
di Massimo Fini 

13 febbraio 2013

Euro: un disastro annunciato






Scrivevamo un anno fa che le politiche impostate per salvare l'euro avrebbero lentamente avviato l'Italia a diventare un paese del Terzo Mondo (M.Badiale, F. Tringali, “L'euro non è un dogma”, Alfabeta2, dicembre 2011). Gli eventi di quest'ultimo periodo confermano quel giudizio: la crisi economica prosegue, così come la distruzione dei diritti dei lavoratori e l'attacco ai redditi dei ceti subalterni, mentre l'adozione di misure come il Fiscal Compact determina, in sostanza, la cessione della sovranità degli Stati nazionali a lontane strutture oligarchiche e la conseguente cancellazione di quel poco di democrazia ancora rimasta in questo Paese. Non intendiamo qui dilungarci su questi temi, né su quelli relativi alla irriformabilità dell'Unione Europea in senso democratico e alla necessità di uscire da essa e dalla moneta unica, perché li abbiamo trattati dettagliatamente in un libro uscito da poco (M.Badiale, F. Tringali, “La trappola dell'euro”, Asterios editore), al quale rimandiamo per approfondimenti.

Ci sembra utile, invece, ripercorrere in questa sede alcune delle discussioni che hanno accompagnato il passaggio dell'Italia a un sistema monetario europeo a cambi fissi e poi all'euro. È importante infatti sapere che l'esistenza di un rapporto consequenziale fra la rinuncia alla flessibilità del cambio valutario e la realizzazione di una vera e propria macelleria sociale in termini di aggressione ai diritti e ai redditi dei ceti medi e popolari, era stata chiaramente prevista già tre decenni fa.

Agganciare la valuta della Germania a quella di Paesi economicamente più deboli e con inflazione più alta, senza prevedere meccanismi certi ed automatici di riequilibrio fra i Paesi in surplus e quelli in deficit, non poteva non determinare la costruzione di un rapporto asimmetrico: da una parte la Germania e i Paesi forti nel ruolo di leaders, dall'altra i Paesi più deboli nel ruolo di followers, impossibilitati a recuperare competitività e sostanzialmente costretti a riprodurre le politiche economiche e sociali tedesche, con le conseguenze che vediamo oggi, dopo dieci anni di moneta unica (la quale rappresenta il caso “estremo” di sistema valutario a cambi fissi): deflazione, spinta al ribasso dei diritti e dei salari dei ceti medi e popolari, innalzamento della disoccupazione, politiche di rigore destinate a portare il Paese ad avvitarsi in spirali recessive.

Ma vediamo allora alcune delle discussioni svoltesi negli anni Settanta. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods, i Paesi forti dell'Europa, come la Francia e soprattutto la Germania Ovest, iniziano a spingere per la creazione di un sistema a cambi fissi tra i Paesi del vecchio continente. Il primo esperimento, il cosiddetto “serpente monetario” non ottiene grande successo. Agli inizi del 1978 inizia ad essere progettato il Sistema Monetario Europeo. A gestire i confronti fra i Paesi europei, e l'eventuale ingresso dell'Italia nel nuovo sistema, è il governo Andreotti IV, un monocolore DC tenuto in vita dall'appoggio esterno del PCI.  In quella fase, il partito di Berlinguer è quindi un interlocutore importante per i ministri che partecipano alle fasi di preparazione dei vertici europei che porteranno alla nascita dello SME.
All'interno del PCI vi sono posizioni diverse, ma in sostanza il partito esprime ben presto la propria netta adesione ad un sistema europeo che porti a cambi fissi tra le valute. Lo stesso fa la CGIL di Lama, nonostante siano chiare le conseguenze per i lavoratori che tale scelta comporta.
Il PCI tenta di mitigare i prevedibilissimi effetti nefasti del “vincolo esterno” costituito dall'appartenenza allo SME, ponendo alcune condizioni, che inizialmente lo stesso governo democristiano assume come proprie. Esse sono riassunte nel discorso tenuto alla Camera dal ministro Pandolfi il 10 ottobre 1978. In sintesi la richiesta è quella di far precedere l'instaurazione della fissità dei cambi da un periodo di transizione meno rigido, e poi accompagnare il regime a cambi bloccati con misure a favore delle economie meno prospere e, soprattutto, con regole capaci di “stabilire, nel caso di deviazione degli andamenti di cambio, una equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo” [virgolettato tratto dal discorso del ministro Pandolfi alla Camera, 10/10/1978]. 

La ragione di queste richieste è semplice: se un gruppo di Stati rinuncia alla flessibilità del cambio valutario, e quindi alla possibilità di operare svalutazioni/rivalutazioni, senza introdurre  meccanismi di riequilibrio fra le economie in surplus e quelle in deficit strutturale, gli oneri dei necessari “aggiustamenti” ricadono tutti sui lavoratori degli Stati più deboli, chiamati ad accettare minori diritti, maggiore fatica e diminuzione del salario, al fine di tentare il recupero della competitività perduta in favore degli Stati più forti (si noti che la “virtù” degli Stati forti consiste molto spesso nella loro maggior capacità, rispetto ai partner più deboli, di mantenere bassa l'inflazione contenendo i salari e comprimendo la domanda interna, esattamente come fa ora la Germania).
Tutto ciò era già perfettamente chiaro a tutti i principali attori politici che discutevano l'eventuale adesione dell'Italia allo SME.
Ma il vertice di Bruxelles del dicembre 1978 vede la sconfitta della posizione italiana. Francia e Germania spingono per dar vita immediatamente al sistema a cambi fissi, e non accettano le proposte della delegazione italiana, limitandosi ad accordare al nostro Paese una banda di oscillazione maggiore rispetto a quella prevista per gli altri (6% invece che 2,5%).
Poco dopo il suddetto vertice, nell'aula della Camera dei deputati si svolge la discussione sulla proposta di adesione immediata dell'Italia allo SME. 
La linea che il PCI aveva tenuto era stata completamente sconfitta, le condizioni poste non erano state accolte, e il partito non può non trarne delle conseguenze. Infatti, nella discussione parlamentare gli esponenti del PCI espongono in modo chiaro i rischi che l'Italia stava correndo.  L'intervento più autorevole, quello del membro della segreteria nazionale, si spinge a sostenere che dal vertice di Bruxelles arrivava la “conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità”, aggiungendo che “è così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendo un paese come l’Italia alla deflazione”.

È facile notare come i problemi indicati in quel lontano dibattito parlamentare siano esattamente gli stessi con cui ci confrontiamo oggi: infatti il punto è che in regime di cambi fissi, la politica non espansiva della Germania costringe le economie più deboli alla deflazione, cioè all'attacco ai salari. Ed è interessante sottolineare che l'esponente della segreteria nazionale del PCI che dimostrò di aver così chiari i problemi legati all'adozione di un sistema di cambi fissi, rispondeva al nome di Giorgio Napolitano. Non si tratta di un caso di omonimia: è proprio la stessa persona che oggi, dall'alto del Colle, difende a spada tratta l'euro. 
La diversità di questi comportamenti, seppur a distanza di oltre trent'anni l'uno dall'altro, potrebbe stupire. Tuttavia uno sguardo più attento alle vicende del 1978 può farci comprendere che la diversità non è poi così ampia. Infatti, va detto che è sbagliato sostenere, come fanno in molti, che il PCI votò contro lo SME. Il comportamento del partito fu molto meno netto, e ciò rappresentò un chiaro messaggio ai ceti dominanti.
Il gruppo comunista, infatti, chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l'impegno per l'adesione immediata dell'Italia allo SME). Sulla prima e sulla terza parte il PCI si astenne. Non solo: il PCI non aprì immediatamente una crisi di governo (anche se l'esecutivo cadde comunque il mese successivo).
Era chiaro che né il PCI, né la CGIL intendevano fare le barricate contro lo SME, così come iniziava ad apparire evidente che tentare di “mitigarne” gli effetti era impossibile: i Paesi più forti non avevano nessuna intenzione di concedere meccanismi di riequilibrio fra gli Stati in surplus e quelli in disavanzo (esattamente come oggi), ed i ceti dirigenti dei Paesi più deboli non avevano nessuna intenzione di insistere, perché sapevano che la rigidità del sistema avrebbe aperto loro la possibilità di distruggere i diritti del lavoro, abbassare i salari, privatizzare ogni cosa (appunto quello che succede oggi).

Tutto divenne ancora più nitido nel periodo successivo: in primo luogo, il PCI fu allontanato dall'area di governo. In secondo luogo nel 1981 avvenne il “divorzio” fra Tesoro e Banca d'Italia, che privò il nostro Paese dell'effetto calmierante sui tassi di interesse sul debito costituito dall'acquisto dei titoli stessi da parte della Banca Centrale, con l'ovvio effetto di imbrigliare ancora di più la nostra economia e di obbligare il nostro Paese ad affidarsi totalmente al mercato per finanziarsi,  costringendolo a seguire le scelte dei Paesi più forti dell'area SME, cosa che porterà alla crisi del 1992. In terzo luogo venne attaccata con successo la “scala mobile” al fine di abbattere le barriere alla moderazione salariale.
Il risultato del referendum sulla “scala mobile” del 1985 sancì la totale sconfitta della linea del PCI e della maggiore confederazione sindacale: non era più possibile realizzare forme di opposizione “collaborativa” con i ceti dominanti, come quelle realizzate nel “trentennio dorato”, che temperassero le scelte del governo in modo da ottenere risultati positivi per i ceti subalterni.
I ceti dirigenti italiani ed europei si avviavano sulla strada dell'attacco totale ai lavoratori, ai diritti conquistati, allo stato sociale, al settore pubblico dell'economia.
Il PCI e la CGIL si trovarono quindi di fronte ad un bivio storico: difendere gli interessi dei ceti medi e popolari assumendo posizioni nettamente contrarie al processo di unificazione europeo (che vedeva proprio nello SME il suo fulcro), e avviare così uno scontro molto duro (e dagli esiti imprevedibili) con i ceti dominanti, oppure accettare supinamente le scelte dei ceti dominanti stessi, accantonando le condizioni poste al tempo della discussione sull'ingresso dell'Italia nello SME e proponendosi come forze di governo “responsabili” ed “europeiste”. Sappiamo bene quale strada hanno scelto.


di Marino Badiale, Fabrizio Tringali