21 marzo 2013

La sindrome dei Balcani

Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall'industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell'interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell'ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l'eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi L'Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all'inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione. Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all'esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l'Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire. La sindrome dei Balcani Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall'industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell'interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell'ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l'eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi L'Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all'inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione. Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all'esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l'Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire.
 di Sergio Romano

20 marzo 2013

O le banche o la vita. Meglio nazionalizzare



  

«Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano.» 


La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata. Come è evidente da tempo, l'unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni '90. Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio. 
Il problema delle banche americane non è solo un problema di liquidità. Anni di comportamenti sconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l'avere giocato d'azzardo con i derivati, le hanno ridotte in bancarotta. 

Se il nostro governo rispettasse le regole del gioco - che prevedono tra l'altro la chiusura delle banche il cui capitale è inadeguato - sono molte, se non moltissime, le banche che uscirebbero dal mercato. 

Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco; secondo alcune stime la cifra ammonterebbe a duemila o tremila miliardi di dollari o più. 

Dunque la domanda è: chi si farà carico della perdite? Wall Street non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei contribuenti. Ma l'esperienza di altri paesi suggerisce che quando sono i mercati finanziari a comandare, i costi possono essere enormi. Paesi come l'Argentina, il Cile, l'Indonesia, per salvare le proprie banche hanno speso il 40% e oltre del loro prodotto interno lordo. 

Il costo per il governo è di particolare importanza, dato l'indebitamento ereditato dall'amministrazione Bush, che ha visto il debito nazionale lievitare da 5.700 miliari di dollari a oltre 10.000 miliardi di dollari. 

Se non stiamo attenti, la spesa pubblica per il salvataggio determinerà l'esclusione di altri programmi essenziali del governo, dalla previdenza sociale ai futuri investimenti in campo tecnologico. 

C'è un principio fondamentale nell'economia dell'ambiente, detto «l'inquinatore paga»: gli inquinatori devono farsi carico del costo necessario a eliminare l'inquinamento da essi prodotto. Le banche americane hanno inquinato l'economia globale di rifiuti tossici; è una questione di equità ed efficienza che esse vengano costrette, prima o poi, a pagare il prezzo della bonifica. Solo facendo sì che il settore paghi i costi delle sue azioni, recupereremo efficienza. 

L'amministrazione Obama ha lanciato una serie di idee, dal comprare i bad assets (detti anche «asset tossici», ndt) e metterli in una bad bank, lasciando che sia il governo a disporne; all'assicurare le banche; all'aiutare gli investitori privati (come gli hedge funds) a comprare i bad assets, presumibilmente prestando denaro agli investitori a condizioni di favore. Causa la mancanza di dettagli, il mercato ha accolto con perplessità l'annuncio dell'amministrazione Obama del suo cosiddetto piano. Il diavolo è nei dettagli, e senza i dettagli non possiamo essere certi di come si presenteranno le cose. 

Una delle prime idee lanciate da Paulson era che il governo comprasse i bad assets dalle banche. Naturalmente, Wall Street era entusiasta di questa idea. Chi non vorrebbe scaricare la propria spazzatura sul governo a prezzi gonfiati? Le banche potrebbero liberarsi di alcuni di questi asset «cattivi» anche adesso, ma non al prezzo che vorrebbero. 

Poi ci sono altri asset con cui il settore privato non vuole avere niente a che fare. Il 15 settembre il colosso delle assicurazioni Aig ha annunciato che era sotto di 20 miliardi di dollari. Il giorno successivo, le sue perdite erano salite a circa 85 miliardi di dollari. Un po' dopo, quando nessuno ci faceva caso, c'è stata una ulteriore sovvenzione, che ha portato il totale a 150 miliardi di dollari. Poi il 1° marzo il governo ha stanziato per l'Aig altri 30 miliardi di dollari di soldi dei contribuenti: il quarto intervento in meno di sei mesi. 

Quasi tutte le varianti della proposta «cash for trash» («soldi in cambio di spazzatura») si basano sull'idea di mettere i bad assets in una bad bank (i fautori del piano preferiscono il termine più gentile «banca aggregatrice»). 

Ma le banche, anche se avessero solo gli asset «buoni», probabilmente non disporrebbero di liquidità neanche dopo che i contribuenti avessero strapagato la spazzatura. 

Io credo che la bad bank, senza nazionalizzazione, sia una cattiva idea. Dobbiamo respingere qualunque piano di tipo «soldi in cambio di spazzatura». È un altro esempio dell'economia voodoo che ha segnato il settore finanziario: il tipo di alchimia che ha consentito alle banche di sminuzzare i mutui subprime, che avevano rating F, trasferendoli in titoli presunti sicuri con rating A. 

Ancora peggiori sono le proposte di cercare di spingere il settore privato a comprare la spazzatura. In questo momento i prezzi che esso è disposto a pagare sono così bassi che le banche non sono interessate - la dimensione del buco nei loro bilanci verrebbe allo scoperto. Ma se il governo assicurasse gli investitori del settore privato - e inoltre concedesse prestiti a condizioni favorevoli - il settore privato sarebbe disposto a pagare un prezzo più alto. Con una sufficiente assicurazione e termini per i prestiti favorevoli, oplà! Possiamo rendere le nostre banche solvibili. Questa proposta, come molte altre provenienti dagli ambienti bancari, si basa in parte sulla speranza che, se le banche renderanno le cose sufficientemente complesse e opache, nessuno noterà il regalo al settore bancario finché non sarà troppo tardi. 

Le imprese spesso si mettono nei guai - accumulando più debiti di quanti ne possano ripagare. Da sempre c'è un modo di risolvere il problema, chiamato «riorganizzazione finanziaria», o bancarotta. 

La bancarotta spaventa molte persone, ma non dovrebbe. Tutto quello che succede è che le pretese finanziarie nei confronti dell'impresa vengono ristrutturate. Quando l'impresa naviga in acque molto brutte, gli azionisti vengono spazzati via, e gli obbligazionisti diventano i nuovi azionisti. Quando la situazione è meno grave, una parte del debito viene convertita in capitale netto. In ogni caso, senza il fardello dei pagamenti mensili del debito, l'impresa può tornare alla redditività. 

Le banche differiscono sotto un solo aspetto. Il fallimento di una banca si traduce in un particolare stato di sofferenza per i correntisti e può portare a problemi più ampi sul piano economico. 

Ancor peggio, la lunga esperienza ci ha insegnato che quando le banche rischiano di fallire, i loro dirigenti mettono in atto comportamenti che comportano il rischio di far perdere ancora più soldi ai contribuenti. 

Ad esempio, possono fare grosse scommesse: se vincono, si tengono il ricavato; se perdono - e allora? tanto sarebbero morti comunque. 

Ecco perché abbiamo leggi che dicono che quando il capitale di una banca è poco, questa deve essere chiusa. Non aspettiamo che la cassa sia vuota. 

L'amministrazione Obama sembra proporre una via d'uscita da questo pasticcio: vi sottoporremo a uno «stress sotto sforzo». Vediamo come ve la cavate. Se superate il test, vi aiutiamo a uscire dalle vostre difficoltà temporanee. Il ricorso a test sotto sforzo comporta l'utilizzo di modelli matematici per vedere che cosa succede nei diversi scenari. Le banche dovevano sottoporsi esse stesse a questo tipo di test regolarmente. I loro modelli dicevano che tutto andava bene. Sappiamo che quei modelli hanno fallito. 

Quello che non sappiamo è se i modelli che userà l'amministrazione saranno migliori. Ci è stato detto che servirà del tempo per fare il test, e mentre aspettiamo, metteremo altri soldi in istituzioni che stanno fallendo, soldi buoni in cambio di cattivi, con un debito nazionale sempre maggiore. 

Gradualmente l'America sta capendo che dobbiamo fare qualcosa, adesso. 

Abbiamo già una cornice di riferimento per quanto riguarda il modo di trattare con le banche il cui capitale è inadeguato. Dovremmo usarla, e velocemente, forse con alcune modifiche necessarie ad affrontare la natura inusuale dei problemi odierni. Possiamo procedere in molti modi. Una proposta innovativa (varianti della quale sono state lanciate da Willem Buiter alla London School of Economics e da George Soros) prevede la creazione di una good bank (una «banca buona»). Invece di riversare gli asset tossici sul governo, dovremmo estrarre quelli buoni - quelli a cui si può facilmente assegnare un prezzo. Se il valore delle pretese dei correntisti e di altre pretese che riteniamo debbano ricevere tutela è minore del valore degli asset, allora il governo firmerà un assegno alla vecchia banca (la chiameremmo bad bank). Se accade il contrario, allora il governo potrebbe vantare una pretesa prioritaria nei confronti della vecchia banca. In tempi normali, sarebbe facile ricapitalizzare la banca «buona» privatamente. Ma questi non sono tempi normali, perciò il governo potrebbe dover gestire la banca per un po' di tempo. 

Di questi tempi, non suonano convincenti coloro che dicono che non si può confidare nel fatto che il governo allochi il capitale in modo efficiente. Dopo tutto, il settore privato non si è comportato molto bene. Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano. Gli incentivi di Wall Street erano studiati per incoraggiare un comportamento miope ed eccessivamente rischioso. 

C'è ogni motivo per credere che una banca temporaneamente nazionalizzata si comporterà molto meglio - anche se la maggior parte dei dipendenti saranno comunque gli stessi - semplicemente perché avremo cambiato gli incentivi perversi. 

L'esperienza maturata in altri paesi, compresi quelli scandinavi, dimostra che l'intera operazione può essere condotta bene - e quando alla fine l'economia torna alla prosperità, le banche in grado di fornire un utile possono essere restituite al settore privato. 

Non servono soluzioni mirabolanti. Le banche, semplicemente, devono tornare a ciò a cui servono: prestare soldi, con prudenza, alle imprese e alle famiglie, sulla base di una valutazione buona - e non marginale - dell'utilizzo cui è destinato il prestito e della possibilità per chi lo ha ricevuto di restituirlo. 

Ogni fase di flessione prima o poi termina. Alla fine potremo vendere le banche ristrutturate a un buon prezzo - anche se, è sperabile, non a un prezzo basato sull'aspettativa esuberante e irrazionale di un'altra bolla finanziaria. L'idea che trarremo profitto dalle manovre di salvataggio - il settore finanziario ha cercato di spacciarcele per «investimenti» - sembra essere caduta dal discorso pubblico. Ma almeno possiamo usare i proventi della vendita finale delle banche ristrutturare per ripagare l'enorme deficit che questa debacle finanziaria avrà causato al nostro paese.

di Joseph Stiglitz 

Fonte: http://www.thenation.com/doc/20090323/stiglitz?rel=hp_currently 

Versione italiana abbreviata: il manifesto, 8 marzo 2013. Traduzione a cura di Marina Impallomeni.

18 marzo 2013

Se il nuovo quadro politico fa saltare i nervi ai giornalisti








Quello che più colpisce del discorso pubblico italiano degli ultimi giorni è l’improvviso tilt che ha fatto saltare la collaudata alleanza conformistica tra establishment partitico-parlamentare e circuito mediatico. D'altronde, basterebbe solo seguire qualche talk show per verificare la fine evidente di una lunga stagione dimostrata dal perdere le staffe e dall’innervosimento continuo dei principali opinionisti dell’ultimo ventennio, da Filippo Facci a Maria Teresa Meli, da Vittorio Sgarbi a Giuliano Ferrara. E’ come se il risultato elettorale con l’irruzione di un soggetto non controllabile come quello dei Cinquestelle avesse di colpo allontanato qualsiasi ipotesi prevedibile e controllabile ad uso dei giornalisti pontificatori. Si è infatti passati dal gioco compiaciuto delle parti nel bipolarismo muscolare a quello della visibile depressione di fronte all’imprevisto. E questo, almeno a nostro avviso, è oggettivamente un bene per chiunque non ne poteva più del teatrino, anche giornalistico, della cosiddetta Seconda Repubblica.
A questo punto, sia ben chiaro, non si tratta di avventurarsi in nessuna apologia del M5S, né di pensare – come molti pure fecero col Pci dei primi anni Settanta, poi  con i radicali, con i Verdi e anche con i leghisti del 1992 – di cercare di inserirsi strumentalmentee nel fenomeno e di cavalcare l’onda ma di valutare, serenamente e in maniera disincantata, quanto di positivo si sta affermando nel nuovo quadro politico e sociale italiano. Per chi come noi non ha mai privilegiato il mito della cosiddetta governabilità (che era, semmai, era la stella polare dei democristiani o dei repubblicani di Ugo la Malfa…) ma ha sempre guardato a prospettive di movimentismo e cambiamento è un fatto che il nuovo scenario abbia aperto dialetticamente un varco oggettivo di innovazione.
Intanto, abbiamo già visto con l’elezioni delle presidenze delle Camere che i giochi precostituiti sono destinati tutti a fallire. Un po’ come accadde nel ’92 quando l’arrivo dei leghisti impedì di fatto la realizzazione dei giochi del Caf che volevano Craxi a Palazzo Chigi e Andreotti o Forlani al Quirinale. Anche stavolta, la presenza inattesa dei 163 del Cinquestelle ha determinato l’azzeramento immediato delle velleità di chi si sentiva già al Colle. E restiamo poi convinti che anche il prosieguo – l’eventualità o meno di un governo, l’arrivo alle prossime elezioni anticipate con una nuova legge elettorale, i cambiamenti in tanti usi e costumi di privilegio castale – avverrà tutto all’insegna dell’imprevedibile…
Non si tratta, insomma, di illudersi sulle presunte virtù di Grillo o di Casaleggio né di far finta che il M5S sia un blocco rivoluzionario compatto e che non subirà una dialettica interna fatta anche di eventuali dissociazioni e rotture. Ma, per dirla marxianamente, occorre pensare che la dimensione “strutturale” del processo politico in atto andrà avanti nonostante tutto e malgrado coloro che cercheranno di condizionarla a loro vantaggio. Nonostante Grillo e nonostante gli stessi grillini, aggiungiamo.
Lo scenario è d'altronde chiaro: i politici si stanno di fatto “arrendendo” agli eventi, i giornalisti stanno perdendo il loro ruolo e a qualcuno saltano pure i nervi. Il quadro, insomma, evolverà nonostante quello che si dice e anche quanto si cercherà di fare. E’ come se fosse in atto una sorta di nuovo Sessantotto, ma questa volta con un movimentismo che ha fatto irruzione dentro le stesse istituzioni. Per curiosità abbiamo dato un’occhiata a La carica dei 163, l’instant book curato da il Fatto Quotidiano e che presenta il profilo di tutti i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Solo a scorrerlo si respira, comunque, aria di novità. Basta vedere il ventisettenne Luca Frusone, deputato ciociaro del M5S, citare esplicitamente Cat Stevens: “Now there’s a new way and I know that I have to go away” (testualmente. “C’è una nuova strada e io so che devo percorrerla”). Oppure basta vedere scorrere nel pantheon di Mirella Liuzzi, deputata sempre ventisettenne ma lucana, i nomi di Serge Latouche e Karl Polanyi e le teorie della "decrescita felice", la visione anti-utilitaristica che ricorre nel pensiero di tanti altri grillini. Nel libro si ripetono i profili di moltissimi attivisti ecologisti, ma anche di un reduce del movimento del ’77 o di alcuni di loro impegnati con Emergency. Insomma, fatta la tara delle ingenuità e anche di alcuni facili entusiasmi, emerge nel complesso una volontà movimentista precisa e innovativa. Il giornalista Alessandro Zaccuri se ne è occupato seriamente su Avvenire: “Difficile capire – ha scritto – se l’idea di libero web in libero Stato discenda dalla lettura diretta di autori come Bruce Sterling o anche dal solo Hacker’s Manifesto del lontano 1986. Di sicuro l’attivismo mediatico del MoVimento cita in maniera esplicita la versione cinematografica di V per Vendetta, il libertario fumetto degli anni Ottanta portato sul grande schermo nel 2005 dai fratelli Wachowski. E’ grazie a quel film che la maschera di Guy Fawkes (il patriota cattolico giustiziato nel 1605) diventa il simbolo di una ribellione globale, che dall’occupazione di Wall Street arriva sino agliindignados madrileni, seguendo la rotta degli Anonymous di ogni latitudine”. Beppe Grillo, prosegue Zaccuri, si presenta inoltre come interprete di un immaginario oggi maggioritario tra i giovani di tutto il mondo e che fa riferimento a personalità prestigiose come il premio Nobel Joseph Stiglitz, l’economista-filosofo Serge Latouche e il sociologo Wolfgang Sachs, esponente di spicco del Wuppertal Institut, il centro di ricerca tedesco che alla pratica della globalizzazione selvaggia contrappone la strada dello sviluppo sostenibile. Poi, per quanto riguarda l’informazione, il giornalista diAvvenire ricorda che già nel 2006 Grillo si domandava: “Quanti giornalisti liberi di nazionalità italiana rimangono in giro?”. E rincarava la dose aggiungendo che “bisogna andare nella biblioteca comunale e leggersi vecchi pezzi di Indro Montanelli per tirarsi un po’ su…”. 
Tutto questo per dire che, nonostante il verticismo eccessivo o la mancanza di esperienza di qualcuno di loro, il M5S è comunque portatore di novità, sia rispetto alle rimasticature liberiste e conservatrici del moderatismo berlusconiano sia di fronte alla formazione carrieristica e d’apparato di buona parte dei quadri del Pd. Confusione e caos? “Nessuno si meravigli – si leggeva del resto nel ’68 nella cosiddetta Carta della Sorbona – del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos, piaccia o meno, è lo stato d’emergenza delle idee nuove. Il movimento e il cambiamento si creano da se stessi, con tutti coloro che vi aderiscono, e lasciano che ciascuno porti con sé il proprio personale bagaglio d’idee”. Staremo a vedere. Disincantati ma senza alcuna chiusura pregiudiziale.

di Luciano Lanna 

21 marzo 2013

La sindrome dei Balcani

Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall'industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell'interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell'ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l'eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi L'Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all'inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione. Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all'esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l'Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire. La sindrome dei Balcani Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall'industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell'interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell'ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l'eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi L'Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all'inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione. Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all'esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l'Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire.
 di Sergio Romano

20 marzo 2013

O le banche o la vita. Meglio nazionalizzare



  

«Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano.» 


La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata. Come è evidente da tempo, l'unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni '90. Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio. 
Il problema delle banche americane non è solo un problema di liquidità. Anni di comportamenti sconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l'avere giocato d'azzardo con i derivati, le hanno ridotte in bancarotta. 

Se il nostro governo rispettasse le regole del gioco - che prevedono tra l'altro la chiusura delle banche il cui capitale è inadeguato - sono molte, se non moltissime, le banche che uscirebbero dal mercato. 

Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco; secondo alcune stime la cifra ammonterebbe a duemila o tremila miliardi di dollari o più. 

Dunque la domanda è: chi si farà carico della perdite? Wall Street non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei contribuenti. Ma l'esperienza di altri paesi suggerisce che quando sono i mercati finanziari a comandare, i costi possono essere enormi. Paesi come l'Argentina, il Cile, l'Indonesia, per salvare le proprie banche hanno speso il 40% e oltre del loro prodotto interno lordo. 

Il costo per il governo è di particolare importanza, dato l'indebitamento ereditato dall'amministrazione Bush, che ha visto il debito nazionale lievitare da 5.700 miliari di dollari a oltre 10.000 miliardi di dollari. 

Se non stiamo attenti, la spesa pubblica per il salvataggio determinerà l'esclusione di altri programmi essenziali del governo, dalla previdenza sociale ai futuri investimenti in campo tecnologico. 

C'è un principio fondamentale nell'economia dell'ambiente, detto «l'inquinatore paga»: gli inquinatori devono farsi carico del costo necessario a eliminare l'inquinamento da essi prodotto. Le banche americane hanno inquinato l'economia globale di rifiuti tossici; è una questione di equità ed efficienza che esse vengano costrette, prima o poi, a pagare il prezzo della bonifica. Solo facendo sì che il settore paghi i costi delle sue azioni, recupereremo efficienza. 

L'amministrazione Obama ha lanciato una serie di idee, dal comprare i bad assets (detti anche «asset tossici», ndt) e metterli in una bad bank, lasciando che sia il governo a disporne; all'assicurare le banche; all'aiutare gli investitori privati (come gli hedge funds) a comprare i bad assets, presumibilmente prestando denaro agli investitori a condizioni di favore. Causa la mancanza di dettagli, il mercato ha accolto con perplessità l'annuncio dell'amministrazione Obama del suo cosiddetto piano. Il diavolo è nei dettagli, e senza i dettagli non possiamo essere certi di come si presenteranno le cose. 

Una delle prime idee lanciate da Paulson era che il governo comprasse i bad assets dalle banche. Naturalmente, Wall Street era entusiasta di questa idea. Chi non vorrebbe scaricare la propria spazzatura sul governo a prezzi gonfiati? Le banche potrebbero liberarsi di alcuni di questi asset «cattivi» anche adesso, ma non al prezzo che vorrebbero. 

Poi ci sono altri asset con cui il settore privato non vuole avere niente a che fare. Il 15 settembre il colosso delle assicurazioni Aig ha annunciato che era sotto di 20 miliardi di dollari. Il giorno successivo, le sue perdite erano salite a circa 85 miliardi di dollari. Un po' dopo, quando nessuno ci faceva caso, c'è stata una ulteriore sovvenzione, che ha portato il totale a 150 miliardi di dollari. Poi il 1° marzo il governo ha stanziato per l'Aig altri 30 miliardi di dollari di soldi dei contribuenti: il quarto intervento in meno di sei mesi. 

Quasi tutte le varianti della proposta «cash for trash» («soldi in cambio di spazzatura») si basano sull'idea di mettere i bad assets in una bad bank (i fautori del piano preferiscono il termine più gentile «banca aggregatrice»). 

Ma le banche, anche se avessero solo gli asset «buoni», probabilmente non disporrebbero di liquidità neanche dopo che i contribuenti avessero strapagato la spazzatura. 

Io credo che la bad bank, senza nazionalizzazione, sia una cattiva idea. Dobbiamo respingere qualunque piano di tipo «soldi in cambio di spazzatura». È un altro esempio dell'economia voodoo che ha segnato il settore finanziario: il tipo di alchimia che ha consentito alle banche di sminuzzare i mutui subprime, che avevano rating F, trasferendoli in titoli presunti sicuri con rating A. 

Ancora peggiori sono le proposte di cercare di spingere il settore privato a comprare la spazzatura. In questo momento i prezzi che esso è disposto a pagare sono così bassi che le banche non sono interessate - la dimensione del buco nei loro bilanci verrebbe allo scoperto. Ma se il governo assicurasse gli investitori del settore privato - e inoltre concedesse prestiti a condizioni favorevoli - il settore privato sarebbe disposto a pagare un prezzo più alto. Con una sufficiente assicurazione e termini per i prestiti favorevoli, oplà! Possiamo rendere le nostre banche solvibili. Questa proposta, come molte altre provenienti dagli ambienti bancari, si basa in parte sulla speranza che, se le banche renderanno le cose sufficientemente complesse e opache, nessuno noterà il regalo al settore bancario finché non sarà troppo tardi. 

Le imprese spesso si mettono nei guai - accumulando più debiti di quanti ne possano ripagare. Da sempre c'è un modo di risolvere il problema, chiamato «riorganizzazione finanziaria», o bancarotta. 

La bancarotta spaventa molte persone, ma non dovrebbe. Tutto quello che succede è che le pretese finanziarie nei confronti dell'impresa vengono ristrutturate. Quando l'impresa naviga in acque molto brutte, gli azionisti vengono spazzati via, e gli obbligazionisti diventano i nuovi azionisti. Quando la situazione è meno grave, una parte del debito viene convertita in capitale netto. In ogni caso, senza il fardello dei pagamenti mensili del debito, l'impresa può tornare alla redditività. 

Le banche differiscono sotto un solo aspetto. Il fallimento di una banca si traduce in un particolare stato di sofferenza per i correntisti e può portare a problemi più ampi sul piano economico. 

Ancor peggio, la lunga esperienza ci ha insegnato che quando le banche rischiano di fallire, i loro dirigenti mettono in atto comportamenti che comportano il rischio di far perdere ancora più soldi ai contribuenti. 

Ad esempio, possono fare grosse scommesse: se vincono, si tengono il ricavato; se perdono - e allora? tanto sarebbero morti comunque. 

Ecco perché abbiamo leggi che dicono che quando il capitale di una banca è poco, questa deve essere chiusa. Non aspettiamo che la cassa sia vuota. 

L'amministrazione Obama sembra proporre una via d'uscita da questo pasticcio: vi sottoporremo a uno «stress sotto sforzo». Vediamo come ve la cavate. Se superate il test, vi aiutiamo a uscire dalle vostre difficoltà temporanee. Il ricorso a test sotto sforzo comporta l'utilizzo di modelli matematici per vedere che cosa succede nei diversi scenari. Le banche dovevano sottoporsi esse stesse a questo tipo di test regolarmente. I loro modelli dicevano che tutto andava bene. Sappiamo che quei modelli hanno fallito. 

Quello che non sappiamo è se i modelli che userà l'amministrazione saranno migliori. Ci è stato detto che servirà del tempo per fare il test, e mentre aspettiamo, metteremo altri soldi in istituzioni che stanno fallendo, soldi buoni in cambio di cattivi, con un debito nazionale sempre maggiore. 

Gradualmente l'America sta capendo che dobbiamo fare qualcosa, adesso. 

Abbiamo già una cornice di riferimento per quanto riguarda il modo di trattare con le banche il cui capitale è inadeguato. Dovremmo usarla, e velocemente, forse con alcune modifiche necessarie ad affrontare la natura inusuale dei problemi odierni. Possiamo procedere in molti modi. Una proposta innovativa (varianti della quale sono state lanciate da Willem Buiter alla London School of Economics e da George Soros) prevede la creazione di una good bank (una «banca buona»). Invece di riversare gli asset tossici sul governo, dovremmo estrarre quelli buoni - quelli a cui si può facilmente assegnare un prezzo. Se il valore delle pretese dei correntisti e di altre pretese che riteniamo debbano ricevere tutela è minore del valore degli asset, allora il governo firmerà un assegno alla vecchia banca (la chiameremmo bad bank). Se accade il contrario, allora il governo potrebbe vantare una pretesa prioritaria nei confronti della vecchia banca. In tempi normali, sarebbe facile ricapitalizzare la banca «buona» privatamente. Ma questi non sono tempi normali, perciò il governo potrebbe dover gestire la banca per un po' di tempo. 

Di questi tempi, non suonano convincenti coloro che dicono che non si può confidare nel fatto che il governo allochi il capitale in modo efficiente. Dopo tutto, il settore privato non si è comportato molto bene. Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha sprecate il sistema finanziario privato americano. Gli incentivi di Wall Street erano studiati per incoraggiare un comportamento miope ed eccessivamente rischioso. 

C'è ogni motivo per credere che una banca temporaneamente nazionalizzata si comporterà molto meglio - anche se la maggior parte dei dipendenti saranno comunque gli stessi - semplicemente perché avremo cambiato gli incentivi perversi. 

L'esperienza maturata in altri paesi, compresi quelli scandinavi, dimostra che l'intera operazione può essere condotta bene - e quando alla fine l'economia torna alla prosperità, le banche in grado di fornire un utile possono essere restituite al settore privato. 

Non servono soluzioni mirabolanti. Le banche, semplicemente, devono tornare a ciò a cui servono: prestare soldi, con prudenza, alle imprese e alle famiglie, sulla base di una valutazione buona - e non marginale - dell'utilizzo cui è destinato il prestito e della possibilità per chi lo ha ricevuto di restituirlo. 

Ogni fase di flessione prima o poi termina. Alla fine potremo vendere le banche ristrutturate a un buon prezzo - anche se, è sperabile, non a un prezzo basato sull'aspettativa esuberante e irrazionale di un'altra bolla finanziaria. L'idea che trarremo profitto dalle manovre di salvataggio - il settore finanziario ha cercato di spacciarcele per «investimenti» - sembra essere caduta dal discorso pubblico. Ma almeno possiamo usare i proventi della vendita finale delle banche ristrutturare per ripagare l'enorme deficit che questa debacle finanziaria avrà causato al nostro paese.

di Joseph Stiglitz 

Fonte: http://www.thenation.com/doc/20090323/stiglitz?rel=hp_currently 

Versione italiana abbreviata: il manifesto, 8 marzo 2013. Traduzione a cura di Marina Impallomeni.

18 marzo 2013

Se il nuovo quadro politico fa saltare i nervi ai giornalisti








Quello che più colpisce del discorso pubblico italiano degli ultimi giorni è l’improvviso tilt che ha fatto saltare la collaudata alleanza conformistica tra establishment partitico-parlamentare e circuito mediatico. D'altronde, basterebbe solo seguire qualche talk show per verificare la fine evidente di una lunga stagione dimostrata dal perdere le staffe e dall’innervosimento continuo dei principali opinionisti dell’ultimo ventennio, da Filippo Facci a Maria Teresa Meli, da Vittorio Sgarbi a Giuliano Ferrara. E’ come se il risultato elettorale con l’irruzione di un soggetto non controllabile come quello dei Cinquestelle avesse di colpo allontanato qualsiasi ipotesi prevedibile e controllabile ad uso dei giornalisti pontificatori. Si è infatti passati dal gioco compiaciuto delle parti nel bipolarismo muscolare a quello della visibile depressione di fronte all’imprevisto. E questo, almeno a nostro avviso, è oggettivamente un bene per chiunque non ne poteva più del teatrino, anche giornalistico, della cosiddetta Seconda Repubblica.
A questo punto, sia ben chiaro, non si tratta di avventurarsi in nessuna apologia del M5S, né di pensare – come molti pure fecero col Pci dei primi anni Settanta, poi  con i radicali, con i Verdi e anche con i leghisti del 1992 – di cercare di inserirsi strumentalmentee nel fenomeno e di cavalcare l’onda ma di valutare, serenamente e in maniera disincantata, quanto di positivo si sta affermando nel nuovo quadro politico e sociale italiano. Per chi come noi non ha mai privilegiato il mito della cosiddetta governabilità (che era, semmai, era la stella polare dei democristiani o dei repubblicani di Ugo la Malfa…) ma ha sempre guardato a prospettive di movimentismo e cambiamento è un fatto che il nuovo scenario abbia aperto dialetticamente un varco oggettivo di innovazione.
Intanto, abbiamo già visto con l’elezioni delle presidenze delle Camere che i giochi precostituiti sono destinati tutti a fallire. Un po’ come accadde nel ’92 quando l’arrivo dei leghisti impedì di fatto la realizzazione dei giochi del Caf che volevano Craxi a Palazzo Chigi e Andreotti o Forlani al Quirinale. Anche stavolta, la presenza inattesa dei 163 del Cinquestelle ha determinato l’azzeramento immediato delle velleità di chi si sentiva già al Colle. E restiamo poi convinti che anche il prosieguo – l’eventualità o meno di un governo, l’arrivo alle prossime elezioni anticipate con una nuova legge elettorale, i cambiamenti in tanti usi e costumi di privilegio castale – avverrà tutto all’insegna dell’imprevedibile…
Non si tratta, insomma, di illudersi sulle presunte virtù di Grillo o di Casaleggio né di far finta che il M5S sia un blocco rivoluzionario compatto e che non subirà una dialettica interna fatta anche di eventuali dissociazioni e rotture. Ma, per dirla marxianamente, occorre pensare che la dimensione “strutturale” del processo politico in atto andrà avanti nonostante tutto e malgrado coloro che cercheranno di condizionarla a loro vantaggio. Nonostante Grillo e nonostante gli stessi grillini, aggiungiamo.
Lo scenario è d'altronde chiaro: i politici si stanno di fatto “arrendendo” agli eventi, i giornalisti stanno perdendo il loro ruolo e a qualcuno saltano pure i nervi. Il quadro, insomma, evolverà nonostante quello che si dice e anche quanto si cercherà di fare. E’ come se fosse in atto una sorta di nuovo Sessantotto, ma questa volta con un movimentismo che ha fatto irruzione dentro le stesse istituzioni. Per curiosità abbiamo dato un’occhiata a La carica dei 163, l’instant book curato da il Fatto Quotidiano e che presenta il profilo di tutti i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Solo a scorrerlo si respira, comunque, aria di novità. Basta vedere il ventisettenne Luca Frusone, deputato ciociaro del M5S, citare esplicitamente Cat Stevens: “Now there’s a new way and I know that I have to go away” (testualmente. “C’è una nuova strada e io so che devo percorrerla”). Oppure basta vedere scorrere nel pantheon di Mirella Liuzzi, deputata sempre ventisettenne ma lucana, i nomi di Serge Latouche e Karl Polanyi e le teorie della "decrescita felice", la visione anti-utilitaristica che ricorre nel pensiero di tanti altri grillini. Nel libro si ripetono i profili di moltissimi attivisti ecologisti, ma anche di un reduce del movimento del ’77 o di alcuni di loro impegnati con Emergency. Insomma, fatta la tara delle ingenuità e anche di alcuni facili entusiasmi, emerge nel complesso una volontà movimentista precisa e innovativa. Il giornalista Alessandro Zaccuri se ne è occupato seriamente su Avvenire: “Difficile capire – ha scritto – se l’idea di libero web in libero Stato discenda dalla lettura diretta di autori come Bruce Sterling o anche dal solo Hacker’s Manifesto del lontano 1986. Di sicuro l’attivismo mediatico del MoVimento cita in maniera esplicita la versione cinematografica di V per Vendetta, il libertario fumetto degli anni Ottanta portato sul grande schermo nel 2005 dai fratelli Wachowski. E’ grazie a quel film che la maschera di Guy Fawkes (il patriota cattolico giustiziato nel 1605) diventa il simbolo di una ribellione globale, che dall’occupazione di Wall Street arriva sino agliindignados madrileni, seguendo la rotta degli Anonymous di ogni latitudine”. Beppe Grillo, prosegue Zaccuri, si presenta inoltre come interprete di un immaginario oggi maggioritario tra i giovani di tutto il mondo e che fa riferimento a personalità prestigiose come il premio Nobel Joseph Stiglitz, l’economista-filosofo Serge Latouche e il sociologo Wolfgang Sachs, esponente di spicco del Wuppertal Institut, il centro di ricerca tedesco che alla pratica della globalizzazione selvaggia contrappone la strada dello sviluppo sostenibile. Poi, per quanto riguarda l’informazione, il giornalista diAvvenire ricorda che già nel 2006 Grillo si domandava: “Quanti giornalisti liberi di nazionalità italiana rimangono in giro?”. E rincarava la dose aggiungendo che “bisogna andare nella biblioteca comunale e leggersi vecchi pezzi di Indro Montanelli per tirarsi un po’ su…”. 
Tutto questo per dire che, nonostante il verticismo eccessivo o la mancanza di esperienza di qualcuno di loro, il M5S è comunque portatore di novità, sia rispetto alle rimasticature liberiste e conservatrici del moderatismo berlusconiano sia di fronte alla formazione carrieristica e d’apparato di buona parte dei quadri del Pd. Confusione e caos? “Nessuno si meravigli – si leggeva del resto nel ’68 nella cosiddetta Carta della Sorbona – del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos, piaccia o meno, è lo stato d’emergenza delle idee nuove. Il movimento e il cambiamento si creano da se stessi, con tutti coloro che vi aderiscono, e lasciano che ciascuno porti con sé il proprio personale bagaglio d’idee”. Staremo a vedere. Disincantati ma senza alcuna chiusura pregiudiziale.

di Luciano Lanna