30 marzo 2013

Scenari spaventosi e raccapriccianti



Paolo Becchi



 L’apertura delle consultazioni ed il conferimento del pre-incarico a Bersani segnano un momento decisivo per il MoVimento 5 Stelle. Decisivo, perché è nei prossimi giorni che il MoVimento dovrà dimostrare la propria forza politica e la propria capacità di non cadere nelle “trappole” che gli altri partiti gli tenderanno (come accaduto in occasione dell’elezione del Presidente del Senato). Secondo diversi opinionisti, politici e “intellettuali”, senza la formazione del nuovo Governo il lavoro del Parlamento non potrà iniziare. Personalmente non ne sono convinto, e sono ormai settimane che tento di spiegare questa posizione: con il Governo Monti dimissionario (e quindi in prorogatio di fatto), l’Assemblea può iniziare comunque la propria attività legislativa. A cominciare ad esempio dalla riforma della legge elettorale, dai tagli ai costi della politica e dall’eliminazione delle province.

 Ma andiamo avanti. Quali insidie, dunque, si preparano per il MoVimento? La tattica del Pd pare ormai abbastanza chiara. Bersani ha voluto ed ottenuto l’affidamento di un pre-incarico pur sapendo già di non poter ottenere la fiducia in Parlamento. Egli spera, probabilmente, di ripetere il bis rispetto a quanto accaduto con Grasso, di giocare d’azzardo confidando che, all’ultimo momento, alcuni senatori delle opposizioni finiscano per votare la fiducia al suo Governo. Il gioco del Pd è questo:costringere il MoVimento ad esprimere la propria linea politica a conti già fatti, ponendolo di fronte a un’alternativa secca: “O votate la fiducia oppure dimostrate di essere degli irresponsabili, perché è soltanto per colpa vostra che questo Paese è ingovernabile, per colpa vostra che si dovrà tornare a votare, per colpa vostra che i mercati reagiranno spingendo l’Italia (ancora una volta) verso il “rischio” Grecia.”


 È un’alternativa falsa, ed infida. Sarebbe il Pd, infatti, a dimostrarsi il vero irresponsabile decidendo coscientemente di formare un Governo pur sapendo che quest’ultimo non otterrà la fiducia. Chi sarà l’irresponsabile? Chi si dimostrerà incoerente e chi coerente? Chi è che da mesi ripete che non voterà nessuna fiducia a qualsiasi Governo Pd o Pdl che sia? È forse disposto il MoVimento a scendere a compromessi con questi partiti? A fare davvero delle distinzioni, delle eccezioni, delle valutazioni sul “meno peggio”? No, non può esserlo: i partiti politici vanno tutti combattuti sullo stesso piano; sono i nostri nemici politici, e con loro non è possibile alcuna alleanza. In questo il M5S ha dimostrato, negli ultimi giorni, tutta la sua forza politica: ha ribadito la sua netta opposizione ad ogni governo formato dalla partitocrazia, ha ripetuto che nessuna fiducia verrà accordata al Pd.

 Forse è per questo che il Pd potrebbe tentare di giocare un’altra carta, quella dell’“inciucio” con il Pdl, come le ultime dichiarazioni di Berlusconi sembrano suggerire. L’idea sarebbe questa: il Pdl vota la fiducia a un Governo Pd, e il Pd, in cambio, s’impegna a eleggere un Presidente della Repubblica che garantisca a Berlusconi di rimanere in Parlamento (visto il sempre più concreto rischio “ineleggibilità” di questi giorni) e di mettere fine attraverso immunità alla cosiddetta “persecuzione” giudiziaria (magari nominandolo senatore a vita). Berlusconi è disposto a tutto, ormai, a patto che gli venga assicurata la sopravvivenza: fine dei processi ed elezione “concordata” del prossimo Capo dello Stato. Così si muovono, in questa direzione, le strane trattative tra Pd, Monti e Lega, secondo trame invisibili e strategie del ragno da Prima Repubblica. Questa sarebbe la “responsabilità” politica di cui parla Bersani? Questa sarebbe la democrazia?

 Ancora un’ipotesi. Napolitano potrebbe tentare di proseguire nella linea della sua Terza Repubblica: imporre a Bersani di guidare un nuovo governo di “tecnici”, questa volta spostato a sinistra (Rodotà, Onida, Zagrebelsky, Marzano, forse qualche prete, qualche donna, qualche santo, qualche navigatore). Una forma di suicidio assistito, nelle mani del Presidente della Repubblica. Certo è che iniziare una nuova legislatura con un nuovo Governo del Presidente sarebbe un “colpo di Stato” ancor più grave di quello che portò, lo scorso anno, Monti alla Presidenza del Consiglio.

Tutte queste ipotesi, perché? Perché è evidente quello che sta accadendo: trovare una soluzione, una qualsiasi soluzione, anche profondamente antidemocratica, pur di non tornare alle elezioni. E’ questa la linea che condividono i partiti, Pd e Pdl in testa, il Capo dello Stato, l’attuale Governo dimissionario e tutto il sistema di interessi esistente intorno alla partitocrazia. Meglio un governo tecnico, un governo non democratico, un governo improvvisato, che le elezioni. Qualsiasi soluzione, lo ripeto: i compromessi e negoziati si stanno realizzando sia per quanto riguarda il Governo che il futuro Capo dello Stato, conscenari spaventosi e raccapriccianti, come l’appoggio di senatori leghisti al Pd o la concessione, da parte del Partito Democratico, di assicurazioni e garanzie a Berlusconi. Un connubio, un “inciucio” mai visto né pensato, con un’occupazione sistematica di tutte le cariche dello Stato – dal Quirinale al Governo – da parte dell’asse Pd – Pdl.

 Davvero è meglio tutto questo, o invece si dovrebbe arrivare, finalmente, alla constatazione che, poiché non c’è la possibilità di formare una maggioranza solida per governare, si debba ritornare alle urne? Meglio un nuovo Governo Bersani che navigherà a vista come ai tempi della Prima Repubblica? Meglio un nuovo Governo Pd-Pdl o Pd-Monti-Lega (?!!), risultato del più grande “inciucio” che la storia repubblicana abbia mai visto? Meglio un nuovo Governo Tecnico che farà la fine di quello precedente nel giro di un anno? O non sarebbe meglio ricorrere alla volontà popolare con una nuova legge elettorale?

 Si ripete che, senza un nuovo Governo, non sarebbe possibile approvare una nuova legge elettorale. È un falso colossale. Il Parlamento può già legiferare, in questo momento, anche con l’attuale Governo dimissionario (che è in prorogatio di fatto da già 3 mesi). E si dovrà iniziare la legislatura proprio a partire dalla legge elettorale. Se per anni si è ripetuto che il Porcellum deve essere abbandonato e se, nel contempo, si dice che, in questo momento, l’approvazione di una nuova legge elettorale richiederebbe trattative politiche e tempistiche troppo complicate in una fase come questa, allora basterebbe accordarsi su una soluzione molto semplice: votare con la legge elettorale precedente, il Mattarellum. Per fare questo, basterebbe approvare una legge con un solo articolo, che recitasse: “L’attuale legge elettorale è abrogata. Rivive la precedente”. Se davvero i partiti volessero cambiare la legge elettorale, in pochi giorni si farebbe con una facilità disarmante.

 Cosa volete, allora, partiti ormai morti? Volete proseguire la lunga agonia o tornare alle urne, lasciando al popolo la decisione ultima sul destino politico di questo Paese? La verità è che stanno cercando di passare tra Scilla e Cariddi, evitando di sciogliere questa alternativa, perché, in entrambi i casi, la strada scelta non potrà che dare più forza al M5S. Tutto si può dire, ma non che il M5S sia responsabile di questo “stallo”: il moVimento ha, fin dall’inizio, sostenuto una linea politica decisa e coerente, ribadita anche durante le consultazioni con il Capo dello Stato. Lo ha detto chiaramente: il MoVimento 5 Stelle è la prima forza politica alla Camera, senza i voti contestati degli italiani all'estero, e pertanto è chiamata adassumersi le proprie responsabilità, mostrando la propria disponibilità ad accettare un eventuale incarico di Governo. Se non gli si vuole affidare il Governo, allora non si potrà che rivotare. Sono i vecchi partiti ad essere irresponsabili, in realtà, perché stanno tentando di prolungare il più possibile l’attuale crisi sperando di navigare a vista per un po’ di tempo, mantenendo questo Paese in stato vegetativo permanente nell’attesa che succeda qualcosa (un miracolo?) che possa salvarli. 

 di Paolo Becchi

29 marzo 2013

Il Bilderberg nomina il presidente della repubblica italiana



  
   
In un recente passato, che appare però lontanissimo, era stata promessa agli Italiani l’elezione diretta del capo dello Stato. Naturalmente non se n’è fatto nulla. In una cosa sola i nostri governi, quali che siano le loro ideologie e i loro orientamenti politici, sono tutti “montiani”: decisi e rapidissimi soltanto nell’aumentare le tasse. Per tutto il resto tempi biblici in attesa che svanisca anche il ricordo delle promesse fatte. Dunque niente elezione diretta del Presidente. Ma c’è invece chi lo sceglie per noi e senza chiedere il permesso a nessuno: quel Potere che in silenzio ha progettato e imposto l’unificazione europea, che ha progettato e imposto la moneta unica e che continua a presiedere a tutte le vicende più importanti dei singoli Stati i quali obbediscono anch’essi nel più assoluto silenzio.

Sono uomini di cui non conosciamo altro che le facce e i nomi dei loro messi, di quelli mandati a mettere in atto la loro volontà, ma che possiamo riconoscere a colpo sicuro da un solo comune connotato: l’andamento disastroso di tutte le loro imprese, il fallimento di ciò che realizzano. 

Di fronte ai nomi ventilati in questi giorni dai giornali come possibili Presidenti: Amato, Prodi, D’Alema, ci potremmo domandare quanti voti avrebbero preso se gli Italiani fossero stati chiamati a votare. Sicuramente nessuno, o quasi. Sono stati già abbondantemente bocciati in precedenza e di conseguenza i loro nomi vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia e che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale. Non abbiamo sentito fino ad ora reazioni di nessun genere da parte dei politici: davanti al Potere nascosto dietro all’Europa nessuno parla. Abbiamo però già assistito a suo tempo all’esaltazione come Capo dello Stato di Ciampi, entusiasta fautore dell’euro in coppia con l’astutissimo Prodi con il quale ha provveduto a svendere e a spogliare di quasi tutti i suoi beni l’Italia pur di riuscire a farla entrare nello spazio paradisiaco dell’euro. Ne deduciamo che il compenso stabilito sia sempre lo stesso: prima dimostri di essere un servo fedelissimo del Potere finanziario europeo e mondiale, adempiendo al compito che ti è stato assegnato quali che siano le sofferenze e i danni che apporti alla tua patria e ai tuoi concittadini, poi diventi presidente della Repubblica. Lo stesso ragionamento, mutati i compiti e le situazioni, vale per gli altri nomi. La presidenza della repubblica italiana è appaltata al Bilderberg.

Adesso, però, che abbiamo fatto una lunga e dura esperienza della quasi assoluta mancanza d’intelligenza che caratterizza i soci del Bilderberg e i loro emissari, montiani o meno, testimoniata chiaramente dai disastri che seguono alle loro imprese, sarà bene che i politici guardino in faccia la realtà. Anche a voler prescindere dai fatti che abbiamo sotto gli occhi (è di questi giorni il macroscopico pasticcio combinato a Cipro) non sono pochi gli analisti finanziari  che prevedono un possibile crac dell’euro per il secondo trimestre e, se non un crac, delle difficoltà sempre più gravi nella gestione dell’economia in Europa. Sarebbe davvero poco “divertente” trovarsi fresco di nomina a capo della Repubblica e mandare in giro per il mondo a rappresentare gli Italiani proprio uno dei responsabili del crac.

di Ida Magli 

28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
Wall & Street

30 marzo 2013

Scenari spaventosi e raccapriccianti



Paolo Becchi



 L’apertura delle consultazioni ed il conferimento del pre-incarico a Bersani segnano un momento decisivo per il MoVimento 5 Stelle. Decisivo, perché è nei prossimi giorni che il MoVimento dovrà dimostrare la propria forza politica e la propria capacità di non cadere nelle “trappole” che gli altri partiti gli tenderanno (come accaduto in occasione dell’elezione del Presidente del Senato). Secondo diversi opinionisti, politici e “intellettuali”, senza la formazione del nuovo Governo il lavoro del Parlamento non potrà iniziare. Personalmente non ne sono convinto, e sono ormai settimane che tento di spiegare questa posizione: con il Governo Monti dimissionario (e quindi in prorogatio di fatto), l’Assemblea può iniziare comunque la propria attività legislativa. A cominciare ad esempio dalla riforma della legge elettorale, dai tagli ai costi della politica e dall’eliminazione delle province.

 Ma andiamo avanti. Quali insidie, dunque, si preparano per il MoVimento? La tattica del Pd pare ormai abbastanza chiara. Bersani ha voluto ed ottenuto l’affidamento di un pre-incarico pur sapendo già di non poter ottenere la fiducia in Parlamento. Egli spera, probabilmente, di ripetere il bis rispetto a quanto accaduto con Grasso, di giocare d’azzardo confidando che, all’ultimo momento, alcuni senatori delle opposizioni finiscano per votare la fiducia al suo Governo. Il gioco del Pd è questo:costringere il MoVimento ad esprimere la propria linea politica a conti già fatti, ponendolo di fronte a un’alternativa secca: “O votate la fiducia oppure dimostrate di essere degli irresponsabili, perché è soltanto per colpa vostra che questo Paese è ingovernabile, per colpa vostra che si dovrà tornare a votare, per colpa vostra che i mercati reagiranno spingendo l’Italia (ancora una volta) verso il “rischio” Grecia.”


 È un’alternativa falsa, ed infida. Sarebbe il Pd, infatti, a dimostrarsi il vero irresponsabile decidendo coscientemente di formare un Governo pur sapendo che quest’ultimo non otterrà la fiducia. Chi sarà l’irresponsabile? Chi si dimostrerà incoerente e chi coerente? Chi è che da mesi ripete che non voterà nessuna fiducia a qualsiasi Governo Pd o Pdl che sia? È forse disposto il MoVimento a scendere a compromessi con questi partiti? A fare davvero delle distinzioni, delle eccezioni, delle valutazioni sul “meno peggio”? No, non può esserlo: i partiti politici vanno tutti combattuti sullo stesso piano; sono i nostri nemici politici, e con loro non è possibile alcuna alleanza. In questo il M5S ha dimostrato, negli ultimi giorni, tutta la sua forza politica: ha ribadito la sua netta opposizione ad ogni governo formato dalla partitocrazia, ha ripetuto che nessuna fiducia verrà accordata al Pd.

 Forse è per questo che il Pd potrebbe tentare di giocare un’altra carta, quella dell’“inciucio” con il Pdl, come le ultime dichiarazioni di Berlusconi sembrano suggerire. L’idea sarebbe questa: il Pdl vota la fiducia a un Governo Pd, e il Pd, in cambio, s’impegna a eleggere un Presidente della Repubblica che garantisca a Berlusconi di rimanere in Parlamento (visto il sempre più concreto rischio “ineleggibilità” di questi giorni) e di mettere fine attraverso immunità alla cosiddetta “persecuzione” giudiziaria (magari nominandolo senatore a vita). Berlusconi è disposto a tutto, ormai, a patto che gli venga assicurata la sopravvivenza: fine dei processi ed elezione “concordata” del prossimo Capo dello Stato. Così si muovono, in questa direzione, le strane trattative tra Pd, Monti e Lega, secondo trame invisibili e strategie del ragno da Prima Repubblica. Questa sarebbe la “responsabilità” politica di cui parla Bersani? Questa sarebbe la democrazia?

 Ancora un’ipotesi. Napolitano potrebbe tentare di proseguire nella linea della sua Terza Repubblica: imporre a Bersani di guidare un nuovo governo di “tecnici”, questa volta spostato a sinistra (Rodotà, Onida, Zagrebelsky, Marzano, forse qualche prete, qualche donna, qualche santo, qualche navigatore). Una forma di suicidio assistito, nelle mani del Presidente della Repubblica. Certo è che iniziare una nuova legislatura con un nuovo Governo del Presidente sarebbe un “colpo di Stato” ancor più grave di quello che portò, lo scorso anno, Monti alla Presidenza del Consiglio.

Tutte queste ipotesi, perché? Perché è evidente quello che sta accadendo: trovare una soluzione, una qualsiasi soluzione, anche profondamente antidemocratica, pur di non tornare alle elezioni. E’ questa la linea che condividono i partiti, Pd e Pdl in testa, il Capo dello Stato, l’attuale Governo dimissionario e tutto il sistema di interessi esistente intorno alla partitocrazia. Meglio un governo tecnico, un governo non democratico, un governo improvvisato, che le elezioni. Qualsiasi soluzione, lo ripeto: i compromessi e negoziati si stanno realizzando sia per quanto riguarda il Governo che il futuro Capo dello Stato, conscenari spaventosi e raccapriccianti, come l’appoggio di senatori leghisti al Pd o la concessione, da parte del Partito Democratico, di assicurazioni e garanzie a Berlusconi. Un connubio, un “inciucio” mai visto né pensato, con un’occupazione sistematica di tutte le cariche dello Stato – dal Quirinale al Governo – da parte dell’asse Pd – Pdl.

 Davvero è meglio tutto questo, o invece si dovrebbe arrivare, finalmente, alla constatazione che, poiché non c’è la possibilità di formare una maggioranza solida per governare, si debba ritornare alle urne? Meglio un nuovo Governo Bersani che navigherà a vista come ai tempi della Prima Repubblica? Meglio un nuovo Governo Pd-Pdl o Pd-Monti-Lega (?!!), risultato del più grande “inciucio” che la storia repubblicana abbia mai visto? Meglio un nuovo Governo Tecnico che farà la fine di quello precedente nel giro di un anno? O non sarebbe meglio ricorrere alla volontà popolare con una nuova legge elettorale?

 Si ripete che, senza un nuovo Governo, non sarebbe possibile approvare una nuova legge elettorale. È un falso colossale. Il Parlamento può già legiferare, in questo momento, anche con l’attuale Governo dimissionario (che è in prorogatio di fatto da già 3 mesi). E si dovrà iniziare la legislatura proprio a partire dalla legge elettorale. Se per anni si è ripetuto che il Porcellum deve essere abbandonato e se, nel contempo, si dice che, in questo momento, l’approvazione di una nuova legge elettorale richiederebbe trattative politiche e tempistiche troppo complicate in una fase come questa, allora basterebbe accordarsi su una soluzione molto semplice: votare con la legge elettorale precedente, il Mattarellum. Per fare questo, basterebbe approvare una legge con un solo articolo, che recitasse: “L’attuale legge elettorale è abrogata. Rivive la precedente”. Se davvero i partiti volessero cambiare la legge elettorale, in pochi giorni si farebbe con una facilità disarmante.

 Cosa volete, allora, partiti ormai morti? Volete proseguire la lunga agonia o tornare alle urne, lasciando al popolo la decisione ultima sul destino politico di questo Paese? La verità è che stanno cercando di passare tra Scilla e Cariddi, evitando di sciogliere questa alternativa, perché, in entrambi i casi, la strada scelta non potrà che dare più forza al M5S. Tutto si può dire, ma non che il M5S sia responsabile di questo “stallo”: il moVimento ha, fin dall’inizio, sostenuto una linea politica decisa e coerente, ribadita anche durante le consultazioni con il Capo dello Stato. Lo ha detto chiaramente: il MoVimento 5 Stelle è la prima forza politica alla Camera, senza i voti contestati degli italiani all'estero, e pertanto è chiamata adassumersi le proprie responsabilità, mostrando la propria disponibilità ad accettare un eventuale incarico di Governo. Se non gli si vuole affidare il Governo, allora non si potrà che rivotare. Sono i vecchi partiti ad essere irresponsabili, in realtà, perché stanno tentando di prolungare il più possibile l’attuale crisi sperando di navigare a vista per un po’ di tempo, mantenendo questo Paese in stato vegetativo permanente nell’attesa che succeda qualcosa (un miracolo?) che possa salvarli. 

 di Paolo Becchi

29 marzo 2013

Il Bilderberg nomina il presidente della repubblica italiana



  
   
In un recente passato, che appare però lontanissimo, era stata promessa agli Italiani l’elezione diretta del capo dello Stato. Naturalmente non se n’è fatto nulla. In una cosa sola i nostri governi, quali che siano le loro ideologie e i loro orientamenti politici, sono tutti “montiani”: decisi e rapidissimi soltanto nell’aumentare le tasse. Per tutto il resto tempi biblici in attesa che svanisca anche il ricordo delle promesse fatte. Dunque niente elezione diretta del Presidente. Ma c’è invece chi lo sceglie per noi e senza chiedere il permesso a nessuno: quel Potere che in silenzio ha progettato e imposto l’unificazione europea, che ha progettato e imposto la moneta unica e che continua a presiedere a tutte le vicende più importanti dei singoli Stati i quali obbediscono anch’essi nel più assoluto silenzio.

Sono uomini di cui non conosciamo altro che le facce e i nomi dei loro messi, di quelli mandati a mettere in atto la loro volontà, ma che possiamo riconoscere a colpo sicuro da un solo comune connotato: l’andamento disastroso di tutte le loro imprese, il fallimento di ciò che realizzano. 

Di fronte ai nomi ventilati in questi giorni dai giornali come possibili Presidenti: Amato, Prodi, D’Alema, ci potremmo domandare quanti voti avrebbero preso se gli Italiani fossero stati chiamati a votare. Sicuramente nessuno, o quasi. Sono stati già abbondantemente bocciati in precedenza e di conseguenza i loro nomi vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia e che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale. Non abbiamo sentito fino ad ora reazioni di nessun genere da parte dei politici: davanti al Potere nascosto dietro all’Europa nessuno parla. Abbiamo però già assistito a suo tempo all’esaltazione come Capo dello Stato di Ciampi, entusiasta fautore dell’euro in coppia con l’astutissimo Prodi con il quale ha provveduto a svendere e a spogliare di quasi tutti i suoi beni l’Italia pur di riuscire a farla entrare nello spazio paradisiaco dell’euro. Ne deduciamo che il compenso stabilito sia sempre lo stesso: prima dimostri di essere un servo fedelissimo del Potere finanziario europeo e mondiale, adempiendo al compito che ti è stato assegnato quali che siano le sofferenze e i danni che apporti alla tua patria e ai tuoi concittadini, poi diventi presidente della Repubblica. Lo stesso ragionamento, mutati i compiti e le situazioni, vale per gli altri nomi. La presidenza della repubblica italiana è appaltata al Bilderberg.

Adesso, però, che abbiamo fatto una lunga e dura esperienza della quasi assoluta mancanza d’intelligenza che caratterizza i soci del Bilderberg e i loro emissari, montiani o meno, testimoniata chiaramente dai disastri che seguono alle loro imprese, sarà bene che i politici guardino in faccia la realtà. Anche a voler prescindere dai fatti che abbiamo sotto gli occhi (è di questi giorni il macroscopico pasticcio combinato a Cipro) non sono pochi gli analisti finanziari  che prevedono un possibile crac dell’euro per il secondo trimestre e, se non un crac, delle difficoltà sempre più gravi nella gestione dell’economia in Europa. Sarebbe davvero poco “divertente” trovarsi fresco di nomina a capo della Repubblica e mandare in giro per il mondo a rappresentare gli Italiani proprio uno dei responsabili del crac.

di Ida Magli 

28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
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