05 aprile 2013

La crisi dell’euro è ormai un’affezione endemica



Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Cipro sono i cinque Stati che hanno chiesto il “sostegno” dell’usura internazionale e tra poco anche la Slovenia e altri Paesi Ue potrebbero chiedere un prestito ad usura ai tecnocrati della troika (Commissione Ue-Bce-Fmi) per non finire in bancarotta. Ma le indiscrezioni si susseguono e oltre alla Slovenia potrebbero rischiare anche Croazia, Ungheria, Lussemburgo e Malta. La crisi dell’euro quindi peggiora e rischia di coinvolgere anche Stati fuori dalla moneta unica. Con il trascorrere delle settimane diventa sempre più endemica e si aggrava la situazione nell’Eurozona e nell’Unione europea. Intanto si accentua la preoccupazione non solo per Cipro, ma soprattutto per la Slovenia, dove potrebbero ripetersi, in parte, i problemi già visti nei giorni scorsi per l’isola mediterranea. Anche se in molti tentano di gettare acqua sul fuoco nella speranza che la situazione cambi in realtà Lubiana mostra anche lei un quadro generale piuttosto preoccupante. Il nuovo primo ministro di Lubiana Alenka Bratušek (nella foto) ha cercato di calmare gli animi affermando che la Slovenia non è Cipro. Per Nicosia è stato deciso dalla troika dell’usura un piano di salvataggio particolarmente gravoso che ha costretto alla chiusura una banca nazionale e al ridimensionamento il suo più grande creditore. Ma la sua rassicurazione ha fatto poco per calmare gli investitori più interessati con le osservazioni fatte da Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle Finanze olandese voce dell’Eurogruppo, che ha suggerito paesi con un settore bancario di grandi dimensioni – come la Slovenia – dovrebbe “affrontare prima di finire nei guai”. La Slovenia non è Cipro. Questo è stato il messaggio di Bratušek, nuovo ministro della Slovenia primo, inviato nel mondo giorno dopo Cipro investitori hanno deciso un piano di salvataggio oneroso che ha costretto a chiudere una banca nazionale, trasformata in “bad company”, e l’altra è stata salvata ma ora dovrà essere ricapitalizzata. Tuttavia le  rassicurazioni del premier sloveno hanno fatto poco per calmare gli investitori più interessati a seguire le osservazioni fatte da Dijsselbloem, ministro delle Finanze olandese e capo dell’Eurogruppo, che ha suggerito come i Paesi con un settore bancario di grandi dimensioni – come la Slovenia – dovrebbero eliminare i loro problemi strutturali prima di doverli affrontare quando si trovano seriamente nei guai. A seguito del salvataggio i costi di indebitamento della Slovenia sono saliti portando i rendimenti sui 10 anni al 6,25 per cento, fino a salire nel giro di poco tempo verso il livello 7 per cento, considerato praticamente insostenibile. Il picco del costo del denaro ha sottolineato le preoccupazioni degli investitori che del settore bancario in difficoltà Slovenia e fragili finanze pubbliche potrebbe costringerla ad essere il membro della zona euro il prossimo a chiedere aiuto a Bruxelles per ottenere gli aiuti finanziari.
Ma un panico di questo tipo può essere giustificato? La maggior parte degli economisti tendono a concordare con la premier Bratušek. “La situazione della Slovenia non è neanche lontanamente grave come Cipro o in altri Paesi costretti nelle mani della troika”, ha dichiarato Gavan Nolan, direttore della ricerca di credito a Markit. Tuttavia, ha aggiunto: “La cattiva gestione della situazione di Cipro e la successiva comunicazione caotica da parte dei vari funzionari europei ha alimentato il contagio e la Slovenia è sotto controllo di conseguenza” per valutare la situazione che sta attraversando dal Paese.
Citigroup Inc. – la più grande azienda statunitense di servizi finanziari del mondo – da parte sua ha dichiarato che un confronto tra la Slovenia e Cipro è ingiustificato, data la differenza di dimensioni dei settori bancari dei due Paesi – causa prima della crisi della piccola isola del Mediterraneo. Il sistema finanziario di Cipro è circa otto volte le dimensioni del Prodotto interno lordo del Paese, mentre quello sloveno è 1,4 volte più grande del proprio Pil. “Un ‘modello cipriota’ è improbabile che possa essere applicato alla Slovenia, poiché il suo settore bancario rispetto al Pil rimane tra i più piccoli nella zona euro”, ha precisato un portavoce Citigroup. Tuttavia, le preoccupazioni degli investitori non sono del tutto fuori luogo. Il primo Paese post-comunista ad aderire alla zona euro si è trasformata nel corso degli ultimi quattro anni da una delle economie più vivaci d’Europa ad una delle peggiori. E ora rischia seriamente la bancarotta. In pericolo anche alcuni Stati dell’area dei Balcani (Croazia) e del Danubio (Ungheria) non ancora inseriti nell’area della moneta unica, fino a coinvolgere però altri Paesi dell’Eurozona come Lussemburgo e Malta contagiati dalla crisi creata dai Signori del danaro.
Il Pil della Slovenia è diminuito al 2,3 per cento nel 2012 e si prevede un ulteriore calo del 2 per cento nel 2013, secondo le previsioni del Fondo monetario. “Un ciclo negativo tra difficoltà finanziarie, consolidamento fiscale e deboli bilanci societari prolunghi la recessione”, ha ricordato il gruppo di tecnocrati del Fmi dopo una visita in Slovenia a marzo. Di una certa gravità è lo stato di degrado del settore bancario della Slovenia, che è stato profondamente colpito durante la crisi finanziaria globale. Le sue sofferenze sono costantemente aumentate, secondo i creditori internazionali. Le tre maggiori banche del Paese hanno urgente bisogno di essere ricapitalizzate per un importo di circa 1 miliardo di euro, secondo il Fondo monetario. Nel frattempo è emerso anche un buco per le banche slovene nel loro bilancio complessivo di circa 4 miliardi di euro, ha dichiarato Petra Lesjak, responsabile della gestione patrimoniale per investitori istituzionali a Lubiana. La cattiva gestione delle banche del Paese – molti dei quali sono di proprietà dello Stato – e il rallentamento subito dal settore delle costruzioni sono stati accusati di alimentare la crisi interna. L’instabilità politica della Slovenia ha ulteriormente aggravato la situazione. La premier Bratušek si è messa al lavoro da un mese dopo il fallimento del precedente governo conservatore. Ma le promesse di crescita e lavoro pronunziate dalla giovane premier restano soltanto parole.
E così nonostante l’incertezza economica e politica che affligge l’Unione europea, gli eurocrati si dicono convinti che la Slovenia potrebbe risollevarsi dalla crisi senza alcun “aiuto” esterno, semplicemente applicando le necessarie riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno secondo i tecnocrati della troika: risanamento dei conti pubblici, ordine e trasparenza nei bilanci delle banche, privatizzazioni e riforma delle pensioni.
Ma la situazione è più complessa di quel che sembra, visto che è stato lanciato l’allarme anche per la situazione bancaria di Croazia per i debiti e la bancarotta già annunciata di alcune sue banche e ancora l’Ungheria che da tempo sfida i poteri forti mentre la sua economia è a rischio a causa della speculazione sulla sua moneta il fiorino magiaro. E poi abbiamo anche Lussemburgo e Malta. Ad avvertire dei rischi su questi due Paesi dell’area euro è stata la Deutsche Bank, la quale ha osservato che vi è indubbiamente motivo di preoccuparsi. I due piccoli Stati europei hanno invece respinto il confronto tra il loro settore bancario e quello cipriota. Il governo lussemburghese ha detto in un comunicato di essere “preoccupato per le recenti dichiarazioni” riguardanti le “dimensioni del settore finanziario rispetto al Pil del Paese e dei rischi presunti di ciò che rappresenta per la stabilità economica e di bilancio”. L’esecutivo ha inoltre sottolineato che, a differenza di Cipro, nelle banche lussemburghesi la “clientela diversificata, i prodotti sofisticati, una vigilanza efficace e rigorosa, e l’applicazione delle norme internazionali le rendono speciali”.
Il responsabile della Banca centrale di Malta, Josef Bonnici, ha dichiarato all’agenzia Reuters che le banche estere con filiali a Malta hanno poco a che fare con la sua economia giornaliera e che gli stessi istituti di credito dell’isola sono solidi. Il problema non è in realtà legato soltanto all’esposizione ma è il sistema stesso ad essere a rischio e in particolare sono le strette relazioni reciproche dal punto di vista economico-finanziario a creare il problema. A dimostrazione dell’ormai rapporto strettissimo legato alla moneta unica e all’esposizione delle banche tra loro. Del resto non è facile tenere sotto controllo il settore bancario solo perché alcuni politici tedeschi si dichiarano preoccupati. Quando le banche cipriote si trovavano già nei guai, il governo non era in grado di salvarle poiché valgono più di sette volte le dimensioni dell’economia dell’isola. Le banche di Malta hanno al contrario un valore complessivo di quasi otto volte il suo Pil. Mentre quelle del Lussemburgo valgono 22 volte tanto. Dal canto suo Thomas Meyer, capo economista presso la sede di Francoforte della Deutsche Bank, ha sottolineato che un “controllo effettivo” non è sufficiente e risolutivo. Anche sotto la migliore supervisione, le banche possono avere dei problemi e se lo Stato è troppo piccolo rispetto al settore bancario, “lo Stato andrà in bancarotta”, ha chiosato, non mancando poi di osservare che la Svizzera, che ha anche uno squilibrio banche-Pil, ha affrontato il problema pensando bene di obbligare gli istituti di credito a detenere quasi il doppio delle riserve delle banche degli altri Paesi, poiché ha osservato che in caso di problemi il sistema bancario di un piccolo Stato deve essere in grado di difenderlo. “Per quanto ne so, Lussemburgo e Malta non hanno introdotto qualcosa di simile al modello svizzero, in modo che facciano implicitamente affidamento sulla zona euro per il backup, se ci fosse un problema nel loro sistema bancario. Sulla base dello scenario di Cipro, dovrebbero riconsiderare questo e guardare al modello svizzero”, ha sottolineato. Ma questo non può avvenire in breve tempo e i rischi per le economie dei due Stati Ue sono ormai evidenti e ineluttabili.
 

di Andrea Perrone 

04 aprile 2013

Se il capitalismo diventa di sinistra





Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.

Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.

Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx aRoberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.

In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.

Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.

Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.

Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.

È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.

Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.
  La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo.  In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.

di Diego Fusaro 

03 aprile 2013

INPS al collasso: addio pensioni




  
   
Una azienda con un patrimonio di 41 miliardi che nel giro di un paio d'anni ne avesse persi così tanti da farlo scendere a soli 15, verrebbe considerata sana oppure oppure desterebbe se non altro l'interesse di andarne a capire il motivo? E ancora di più: nel caso in cui questa "azienda" fosse di importanza fondamentale non solo per i suoi azionisti ma per l'intero Paese del quale fa parte, sarebbe il caso, a livello informativo, di dare risalto alla notizia e di farla entrare nel dibattito pubblico? Le risposte sono scontate, ma le domande servono a introdurre l'argomento. Perché lo Stato del quale parliamo è l'Italia, e l'"azienda" con questi conti disastrati si chiama Inps.

L'istituto di previdenza, infatti, aveva a fine 2011 un patrimonio di 41 miliardi, come detto, il quale si è ridotto a soli 15 in 24 mesi. Ma è a livello tendenziale che le cose peggiorano e destano ancora più preoccupazione. 

Ci sono due elementi importanti da tenere in considerazione più un terzo che è addirittura determinante. 

Inpdap profondo rosso

Il primo, motivo principale di questo calo del patrimonio, è relativo alla fusione recente di Inpdap e Inps, cioè il fatto che il sistema pensionistico del settore pubblico sia stato fatto confluire all'interno di quello del settore privato (operazione datata appunto 2012). La fusione di questi due enti era stata prevista trionfalmente, comunicando che, per via dei tagli alle spese che tale operazione avrebbe comportato si sarebbero risparmiate alcune centinaia di milioni di euro. Cosa puntualmente ancora non verificata, visto che sia la prevista gestione unica degli immobili dei due enti sia la razionalizzazione del personale è ancora di là dal venire. 

Nel frattempo, però, questo matrimonio ha portato in dote al sistema pensionistico del settore privato oltre 10 miliardi di rosso, contribuendo ad affossare ancora di più le riserve originarie dell'Inps conteggiate a fine 2011.

Lo Stato moroso

Il secondo dato allarmante contiene una riflessione interessante, visto che, come si dice, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende. Dunque, il grande buco dell'Inpdap - che, ribadiamo, era l'ente pensionistico dei dipendenti del settore pubblico - dipende direttamente da un elemento chiave: le pubbliche amministrazioni, da tempo e in modo diffuso, non stanno pagando del tutto i contributi pensionistici dovuti dei propri dipendenti. Si tratta di una somma stimata in circa 30 miliardi, che grava ovviamente sul bilancio già fortemente compromesso dello Stato ma che, attenzione, non è ancora stato messo agli atti, visto che proprio mediante la fusione con l'Inps è stato, per il momento, occultato.

Ora, già il fatto che le amministrazioni pubbliche non stiano versando tutti i contributi dei dipendenti, cioè che lo Stato sia moroso verso se stesso e i suoi dipendenti, è cosa che dovrebbe chiarire da sola la situazione generale. Ma che ora - ed eccoci alla riflessione poco ortodossa accennata poc'anzi - vi sia stata questa misura di accorpamento tra Inpdap e Inps fa venire più di qualche dubbio. È come se - meglio: è - lo Stato avesse scelto di prendere un proprio ente in forte deficit (nel quale da una parte doveva far confluire alcune proprie spese, cioè i contributi dei dipendenti, e dall'altra far uscire altre spese, cioè l'erogazione delle pensioni) e lo avesse inserito, come un cavallo di troia malefico, nell'altro ente (l'Inps) in cui sono i privati a far confluire i propri contributi per unire il tutto in un calderone, prossimo al collasso, sul quale far gravare un fallimento complessivo. Tra un po', in altre parole, siccome l'Inps, con il patrimonio così drasticamente intaccato e con i conti tendenziali in rosso, non potrà più erogare le pensioni, si prenderà atto della cosa dimenticandosi che buona parte di questo scenario catastrofico dipende proprio dai mancati versamenti del settore pubblico. 

Baby boomers all'incasso (forse)

Il terzo elemento, anche in questo caso assente dal dibattito e dalle analisi attuali, risiede nella constatazione che proprio in questi anni, e per il prossimo quinquennio, c'è una enorme fetta del Paese a dover andare in pensione. Si tratta della generazione dei baby boomers. Di quelli, per intenderci, che negli anni Settanta tentarono la "rivoluzione" più celebrata che concreta. E che, "una volta al potere", al posto delle rivoluzioni si sono invece premurati di mettere al riparo i propri meri interessi. Oggi, in età pensionistica, appunto, sono in procinto di passare all'incasso. Se questa massa di persone fosse messa in grado di andare dritta in pensione così come giustamente previsto, l'Inps crollerebbe in modo definitivo nel giro di qualche anno appena. Ribadiamo, infatti, che già a fine 2013 il bilancio complessivo dell'Inps è atteso a poco oltre 15 miliardi. Dai 41 di fine 2011. 

Non solo: tutte le operazioni relative al sistema pensionistico degli ultimi anni a questo punto possono - e devono - essere interpretate alla luce dei dati che ora stanno venendo fuori, ma che evidentemente già anni addietro erano ben presenti all'interno degli ambienti politici. Nel luglio del 2010, sul Mensile, pubblicammo questo articolo: "In Pensione a 100 anni" . Oggi bisogna aggiornarlo. Il tentativo neanche troppo velato, almeno per chi voglia accorgersene, è quello di evitare proprio che persone possano andare in pensione. Il che si applica facendole lavorare il più a lungo possibile, spostando sempre in là la data in cui sarà possibile andare in pensione. Con questo si otterrà il risultato di aver fatto lavorare tutta la vita le persone, facendogli versare montagne di contributi, sino al punto in cui avranno davanti ancora pochissimi anni, una volta andate in pensione, per avere indietro dallo Stato solo una piccola parte di quanto versato. Sempre che non muoiano prima sulla scrivania del proprio posto di lavoro. 

I giovani sono completamente fuori

Parallelamente, il fatto che così tante persone non possano lasciare il posto di lavoro sino di fatto alla vecchiaia comporta anche l'assoluta mancanza di turnover, e dunque pochissimo accesso dei giovani al mondo del lavoro. Come stiamo puntualmente verificando. Questi, già penalizzati dalle riforme Fornero sul lavoro che hanno aumentato le già elevate sperequazioni precedenti, tra contratti da fame a 500 euro al mese e senza alcuna possibilità di accedere a un posto di lavoro degno di questo nome, in ogni caso, ora e domani, non saranno comunque in grado di versare contributi in quantità bastante a pagare le pensioni di chi, via via, in ritardo e alla fine, comunque (per ora: almeno secondo le norme attuali) in pensione poco alla volta ci sta andando.  

Il tutto, naturalmente, contribuisce a peggiorare il quadro già disastroso dell'Inps. 

Dobbiamo a questo punto necessariamente correggerci. A destare preoccupazione sono le cose incerte. Mentre qui si può tranquillamente parlare di una certezza: l'Inps sta finendo nel buco nero statale e dunque le pensioni non potranno essere più erogate a breve. Molto a breve, a meno di stravolgimenti sistemici (uscita dall'Euro e ripresa della sovranità monetaria, ad esempio) che per ora comunque non sono all'orizzonte. Il che apre scenari non preoccupanti, ma terrorizzanti. Nel silenzio generale di chi sa ma non vuole far sapere. 

Valerio Lo Monaco
Fonte: www.ilribelle.com

05 aprile 2013

La crisi dell’euro è ormai un’affezione endemica



Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Cipro sono i cinque Stati che hanno chiesto il “sostegno” dell’usura internazionale e tra poco anche la Slovenia e altri Paesi Ue potrebbero chiedere un prestito ad usura ai tecnocrati della troika (Commissione Ue-Bce-Fmi) per non finire in bancarotta. Ma le indiscrezioni si susseguono e oltre alla Slovenia potrebbero rischiare anche Croazia, Ungheria, Lussemburgo e Malta. La crisi dell’euro quindi peggiora e rischia di coinvolgere anche Stati fuori dalla moneta unica. Con il trascorrere delle settimane diventa sempre più endemica e si aggrava la situazione nell’Eurozona e nell’Unione europea. Intanto si accentua la preoccupazione non solo per Cipro, ma soprattutto per la Slovenia, dove potrebbero ripetersi, in parte, i problemi già visti nei giorni scorsi per l’isola mediterranea. Anche se in molti tentano di gettare acqua sul fuoco nella speranza che la situazione cambi in realtà Lubiana mostra anche lei un quadro generale piuttosto preoccupante. Il nuovo primo ministro di Lubiana Alenka Bratušek (nella foto) ha cercato di calmare gli animi affermando che la Slovenia non è Cipro. Per Nicosia è stato deciso dalla troika dell’usura un piano di salvataggio particolarmente gravoso che ha costretto alla chiusura una banca nazionale e al ridimensionamento il suo più grande creditore. Ma la sua rassicurazione ha fatto poco per calmare gli investitori più interessati con le osservazioni fatte da Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle Finanze olandese voce dell’Eurogruppo, che ha suggerito paesi con un settore bancario di grandi dimensioni – come la Slovenia – dovrebbe “affrontare prima di finire nei guai”. La Slovenia non è Cipro. Questo è stato il messaggio di Bratušek, nuovo ministro della Slovenia primo, inviato nel mondo giorno dopo Cipro investitori hanno deciso un piano di salvataggio oneroso che ha costretto a chiudere una banca nazionale, trasformata in “bad company”, e l’altra è stata salvata ma ora dovrà essere ricapitalizzata. Tuttavia le  rassicurazioni del premier sloveno hanno fatto poco per calmare gli investitori più interessati a seguire le osservazioni fatte da Dijsselbloem, ministro delle Finanze olandese e capo dell’Eurogruppo, che ha suggerito come i Paesi con un settore bancario di grandi dimensioni – come la Slovenia – dovrebbero eliminare i loro problemi strutturali prima di doverli affrontare quando si trovano seriamente nei guai. A seguito del salvataggio i costi di indebitamento della Slovenia sono saliti portando i rendimenti sui 10 anni al 6,25 per cento, fino a salire nel giro di poco tempo verso il livello 7 per cento, considerato praticamente insostenibile. Il picco del costo del denaro ha sottolineato le preoccupazioni degli investitori che del settore bancario in difficoltà Slovenia e fragili finanze pubbliche potrebbe costringerla ad essere il membro della zona euro il prossimo a chiedere aiuto a Bruxelles per ottenere gli aiuti finanziari.
Ma un panico di questo tipo può essere giustificato? La maggior parte degli economisti tendono a concordare con la premier Bratušek. “La situazione della Slovenia non è neanche lontanamente grave come Cipro o in altri Paesi costretti nelle mani della troika”, ha dichiarato Gavan Nolan, direttore della ricerca di credito a Markit. Tuttavia, ha aggiunto: “La cattiva gestione della situazione di Cipro e la successiva comunicazione caotica da parte dei vari funzionari europei ha alimentato il contagio e la Slovenia è sotto controllo di conseguenza” per valutare la situazione che sta attraversando dal Paese.
Citigroup Inc. – la più grande azienda statunitense di servizi finanziari del mondo – da parte sua ha dichiarato che un confronto tra la Slovenia e Cipro è ingiustificato, data la differenza di dimensioni dei settori bancari dei due Paesi – causa prima della crisi della piccola isola del Mediterraneo. Il sistema finanziario di Cipro è circa otto volte le dimensioni del Prodotto interno lordo del Paese, mentre quello sloveno è 1,4 volte più grande del proprio Pil. “Un ‘modello cipriota’ è improbabile che possa essere applicato alla Slovenia, poiché il suo settore bancario rispetto al Pil rimane tra i più piccoli nella zona euro”, ha precisato un portavoce Citigroup. Tuttavia, le preoccupazioni degli investitori non sono del tutto fuori luogo. Il primo Paese post-comunista ad aderire alla zona euro si è trasformata nel corso degli ultimi quattro anni da una delle economie più vivaci d’Europa ad una delle peggiori. E ora rischia seriamente la bancarotta. In pericolo anche alcuni Stati dell’area dei Balcani (Croazia) e del Danubio (Ungheria) non ancora inseriti nell’area della moneta unica, fino a coinvolgere però altri Paesi dell’Eurozona come Lussemburgo e Malta contagiati dalla crisi creata dai Signori del danaro.
Il Pil della Slovenia è diminuito al 2,3 per cento nel 2012 e si prevede un ulteriore calo del 2 per cento nel 2013, secondo le previsioni del Fondo monetario. “Un ciclo negativo tra difficoltà finanziarie, consolidamento fiscale e deboli bilanci societari prolunghi la recessione”, ha ricordato il gruppo di tecnocrati del Fmi dopo una visita in Slovenia a marzo. Di una certa gravità è lo stato di degrado del settore bancario della Slovenia, che è stato profondamente colpito durante la crisi finanziaria globale. Le sue sofferenze sono costantemente aumentate, secondo i creditori internazionali. Le tre maggiori banche del Paese hanno urgente bisogno di essere ricapitalizzate per un importo di circa 1 miliardo di euro, secondo il Fondo monetario. Nel frattempo è emerso anche un buco per le banche slovene nel loro bilancio complessivo di circa 4 miliardi di euro, ha dichiarato Petra Lesjak, responsabile della gestione patrimoniale per investitori istituzionali a Lubiana. La cattiva gestione delle banche del Paese – molti dei quali sono di proprietà dello Stato – e il rallentamento subito dal settore delle costruzioni sono stati accusati di alimentare la crisi interna. L’instabilità politica della Slovenia ha ulteriormente aggravato la situazione. La premier Bratušek si è messa al lavoro da un mese dopo il fallimento del precedente governo conservatore. Ma le promesse di crescita e lavoro pronunziate dalla giovane premier restano soltanto parole.
E così nonostante l’incertezza economica e politica che affligge l’Unione europea, gli eurocrati si dicono convinti che la Slovenia potrebbe risollevarsi dalla crisi senza alcun “aiuto” esterno, semplicemente applicando le necessarie riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno secondo i tecnocrati della troika: risanamento dei conti pubblici, ordine e trasparenza nei bilanci delle banche, privatizzazioni e riforma delle pensioni.
Ma la situazione è più complessa di quel che sembra, visto che è stato lanciato l’allarme anche per la situazione bancaria di Croazia per i debiti e la bancarotta già annunciata di alcune sue banche e ancora l’Ungheria che da tempo sfida i poteri forti mentre la sua economia è a rischio a causa della speculazione sulla sua moneta il fiorino magiaro. E poi abbiamo anche Lussemburgo e Malta. Ad avvertire dei rischi su questi due Paesi dell’area euro è stata la Deutsche Bank, la quale ha osservato che vi è indubbiamente motivo di preoccuparsi. I due piccoli Stati europei hanno invece respinto il confronto tra il loro settore bancario e quello cipriota. Il governo lussemburghese ha detto in un comunicato di essere “preoccupato per le recenti dichiarazioni” riguardanti le “dimensioni del settore finanziario rispetto al Pil del Paese e dei rischi presunti di ciò che rappresenta per la stabilità economica e di bilancio”. L’esecutivo ha inoltre sottolineato che, a differenza di Cipro, nelle banche lussemburghesi la “clientela diversificata, i prodotti sofisticati, una vigilanza efficace e rigorosa, e l’applicazione delle norme internazionali le rendono speciali”.
Il responsabile della Banca centrale di Malta, Josef Bonnici, ha dichiarato all’agenzia Reuters che le banche estere con filiali a Malta hanno poco a che fare con la sua economia giornaliera e che gli stessi istituti di credito dell’isola sono solidi. Il problema non è in realtà legato soltanto all’esposizione ma è il sistema stesso ad essere a rischio e in particolare sono le strette relazioni reciproche dal punto di vista economico-finanziario a creare il problema. A dimostrazione dell’ormai rapporto strettissimo legato alla moneta unica e all’esposizione delle banche tra loro. Del resto non è facile tenere sotto controllo il settore bancario solo perché alcuni politici tedeschi si dichiarano preoccupati. Quando le banche cipriote si trovavano già nei guai, il governo non era in grado di salvarle poiché valgono più di sette volte le dimensioni dell’economia dell’isola. Le banche di Malta hanno al contrario un valore complessivo di quasi otto volte il suo Pil. Mentre quelle del Lussemburgo valgono 22 volte tanto. Dal canto suo Thomas Meyer, capo economista presso la sede di Francoforte della Deutsche Bank, ha sottolineato che un “controllo effettivo” non è sufficiente e risolutivo. Anche sotto la migliore supervisione, le banche possono avere dei problemi e se lo Stato è troppo piccolo rispetto al settore bancario, “lo Stato andrà in bancarotta”, ha chiosato, non mancando poi di osservare che la Svizzera, che ha anche uno squilibrio banche-Pil, ha affrontato il problema pensando bene di obbligare gli istituti di credito a detenere quasi il doppio delle riserve delle banche degli altri Paesi, poiché ha osservato che in caso di problemi il sistema bancario di un piccolo Stato deve essere in grado di difenderlo. “Per quanto ne so, Lussemburgo e Malta non hanno introdotto qualcosa di simile al modello svizzero, in modo che facciano implicitamente affidamento sulla zona euro per il backup, se ci fosse un problema nel loro sistema bancario. Sulla base dello scenario di Cipro, dovrebbero riconsiderare questo e guardare al modello svizzero”, ha sottolineato. Ma questo non può avvenire in breve tempo e i rischi per le economie dei due Stati Ue sono ormai evidenti e ineluttabili.
 

di Andrea Perrone 

04 aprile 2013

Se il capitalismo diventa di sinistra





Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.

Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.

Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx aRoberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.

In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.

Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.

Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.

Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.

È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.

Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.
  La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo.  In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.

di Diego Fusaro 

03 aprile 2013

INPS al collasso: addio pensioni




  
   
Una azienda con un patrimonio di 41 miliardi che nel giro di un paio d'anni ne avesse persi così tanti da farlo scendere a soli 15, verrebbe considerata sana oppure oppure desterebbe se non altro l'interesse di andarne a capire il motivo? E ancora di più: nel caso in cui questa "azienda" fosse di importanza fondamentale non solo per i suoi azionisti ma per l'intero Paese del quale fa parte, sarebbe il caso, a livello informativo, di dare risalto alla notizia e di farla entrare nel dibattito pubblico? Le risposte sono scontate, ma le domande servono a introdurre l'argomento. Perché lo Stato del quale parliamo è l'Italia, e l'"azienda" con questi conti disastrati si chiama Inps.

L'istituto di previdenza, infatti, aveva a fine 2011 un patrimonio di 41 miliardi, come detto, il quale si è ridotto a soli 15 in 24 mesi. Ma è a livello tendenziale che le cose peggiorano e destano ancora più preoccupazione. 

Ci sono due elementi importanti da tenere in considerazione più un terzo che è addirittura determinante. 

Inpdap profondo rosso

Il primo, motivo principale di questo calo del patrimonio, è relativo alla fusione recente di Inpdap e Inps, cioè il fatto che il sistema pensionistico del settore pubblico sia stato fatto confluire all'interno di quello del settore privato (operazione datata appunto 2012). La fusione di questi due enti era stata prevista trionfalmente, comunicando che, per via dei tagli alle spese che tale operazione avrebbe comportato si sarebbero risparmiate alcune centinaia di milioni di euro. Cosa puntualmente ancora non verificata, visto che sia la prevista gestione unica degli immobili dei due enti sia la razionalizzazione del personale è ancora di là dal venire. 

Nel frattempo, però, questo matrimonio ha portato in dote al sistema pensionistico del settore privato oltre 10 miliardi di rosso, contribuendo ad affossare ancora di più le riserve originarie dell'Inps conteggiate a fine 2011.

Lo Stato moroso

Il secondo dato allarmante contiene una riflessione interessante, visto che, come si dice, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende. Dunque, il grande buco dell'Inpdap - che, ribadiamo, era l'ente pensionistico dei dipendenti del settore pubblico - dipende direttamente da un elemento chiave: le pubbliche amministrazioni, da tempo e in modo diffuso, non stanno pagando del tutto i contributi pensionistici dovuti dei propri dipendenti. Si tratta di una somma stimata in circa 30 miliardi, che grava ovviamente sul bilancio già fortemente compromesso dello Stato ma che, attenzione, non è ancora stato messo agli atti, visto che proprio mediante la fusione con l'Inps è stato, per il momento, occultato.

Ora, già il fatto che le amministrazioni pubbliche non stiano versando tutti i contributi dei dipendenti, cioè che lo Stato sia moroso verso se stesso e i suoi dipendenti, è cosa che dovrebbe chiarire da sola la situazione generale. Ma che ora - ed eccoci alla riflessione poco ortodossa accennata poc'anzi - vi sia stata questa misura di accorpamento tra Inpdap e Inps fa venire più di qualche dubbio. È come se - meglio: è - lo Stato avesse scelto di prendere un proprio ente in forte deficit (nel quale da una parte doveva far confluire alcune proprie spese, cioè i contributi dei dipendenti, e dall'altra far uscire altre spese, cioè l'erogazione delle pensioni) e lo avesse inserito, come un cavallo di troia malefico, nell'altro ente (l'Inps) in cui sono i privati a far confluire i propri contributi per unire il tutto in un calderone, prossimo al collasso, sul quale far gravare un fallimento complessivo. Tra un po', in altre parole, siccome l'Inps, con il patrimonio così drasticamente intaccato e con i conti tendenziali in rosso, non potrà più erogare le pensioni, si prenderà atto della cosa dimenticandosi che buona parte di questo scenario catastrofico dipende proprio dai mancati versamenti del settore pubblico. 

Baby boomers all'incasso (forse)

Il terzo elemento, anche in questo caso assente dal dibattito e dalle analisi attuali, risiede nella constatazione che proprio in questi anni, e per il prossimo quinquennio, c'è una enorme fetta del Paese a dover andare in pensione. Si tratta della generazione dei baby boomers. Di quelli, per intenderci, che negli anni Settanta tentarono la "rivoluzione" più celebrata che concreta. E che, "una volta al potere", al posto delle rivoluzioni si sono invece premurati di mettere al riparo i propri meri interessi. Oggi, in età pensionistica, appunto, sono in procinto di passare all'incasso. Se questa massa di persone fosse messa in grado di andare dritta in pensione così come giustamente previsto, l'Inps crollerebbe in modo definitivo nel giro di qualche anno appena. Ribadiamo, infatti, che già a fine 2013 il bilancio complessivo dell'Inps è atteso a poco oltre 15 miliardi. Dai 41 di fine 2011. 

Non solo: tutte le operazioni relative al sistema pensionistico degli ultimi anni a questo punto possono - e devono - essere interpretate alla luce dei dati che ora stanno venendo fuori, ma che evidentemente già anni addietro erano ben presenti all'interno degli ambienti politici. Nel luglio del 2010, sul Mensile, pubblicammo questo articolo: "In Pensione a 100 anni" . Oggi bisogna aggiornarlo. Il tentativo neanche troppo velato, almeno per chi voglia accorgersene, è quello di evitare proprio che persone possano andare in pensione. Il che si applica facendole lavorare il più a lungo possibile, spostando sempre in là la data in cui sarà possibile andare in pensione. Con questo si otterrà il risultato di aver fatto lavorare tutta la vita le persone, facendogli versare montagne di contributi, sino al punto in cui avranno davanti ancora pochissimi anni, una volta andate in pensione, per avere indietro dallo Stato solo una piccola parte di quanto versato. Sempre che non muoiano prima sulla scrivania del proprio posto di lavoro. 

I giovani sono completamente fuori

Parallelamente, il fatto che così tante persone non possano lasciare il posto di lavoro sino di fatto alla vecchiaia comporta anche l'assoluta mancanza di turnover, e dunque pochissimo accesso dei giovani al mondo del lavoro. Come stiamo puntualmente verificando. Questi, già penalizzati dalle riforme Fornero sul lavoro che hanno aumentato le già elevate sperequazioni precedenti, tra contratti da fame a 500 euro al mese e senza alcuna possibilità di accedere a un posto di lavoro degno di questo nome, in ogni caso, ora e domani, non saranno comunque in grado di versare contributi in quantità bastante a pagare le pensioni di chi, via via, in ritardo e alla fine, comunque (per ora: almeno secondo le norme attuali) in pensione poco alla volta ci sta andando.  

Il tutto, naturalmente, contribuisce a peggiorare il quadro già disastroso dell'Inps. 

Dobbiamo a questo punto necessariamente correggerci. A destare preoccupazione sono le cose incerte. Mentre qui si può tranquillamente parlare di una certezza: l'Inps sta finendo nel buco nero statale e dunque le pensioni non potranno essere più erogate a breve. Molto a breve, a meno di stravolgimenti sistemici (uscita dall'Euro e ripresa della sovranità monetaria, ad esempio) che per ora comunque non sono all'orizzonte. Il che apre scenari non preoccupanti, ma terrorizzanti. Nel silenzio generale di chi sa ma non vuole far sapere. 

Valerio Lo Monaco
Fonte: www.ilribelle.com