Ma un panico di questo tipo può essere giustificato? La maggior parte degli economisti tendono a concordare con la premier Bratušek. “La situazione della Slovenia non è neanche lontanamente grave come Cipro o in altri Paesi costretti nelle mani della troika”, ha dichiarato Gavan Nolan, direttore della ricerca di credito a Markit. Tuttavia, ha aggiunto: “La cattiva gestione della situazione di Cipro e la successiva comunicazione caotica da parte dei vari funzionari europei ha alimentato il contagio e la Slovenia è sotto controllo di conseguenza” per valutare la situazione che sta attraversando dal Paese.
Citigroup Inc. – la più grande azienda statunitense di servizi finanziari del mondo – da parte sua ha dichiarato che un confronto tra la Slovenia e Cipro è ingiustificato, data la differenza di dimensioni dei settori bancari dei due Paesi – causa prima della crisi della piccola isola del Mediterraneo. Il sistema finanziario di Cipro è circa otto volte le dimensioni del Prodotto interno lordo del Paese, mentre quello sloveno è 1,4 volte più grande del proprio Pil. “Un ‘modello cipriota’ è improbabile che possa essere applicato alla Slovenia, poiché il suo settore bancario rispetto al Pil rimane tra i più piccoli nella zona euro”, ha precisato un portavoce Citigroup. Tuttavia, le preoccupazioni degli investitori non sono del tutto fuori luogo. Il primo Paese post-comunista ad aderire alla zona euro si è trasformata nel corso degli ultimi quattro anni da una delle economie più vivaci d’Europa ad una delle peggiori. E ora rischia seriamente la bancarotta. In pericolo anche alcuni Stati dell’area dei Balcani (Croazia) e del Danubio (Ungheria) non ancora inseriti nell’area della moneta unica, fino a coinvolgere però altri Paesi dell’Eurozona come Lussemburgo e Malta contagiati dalla crisi creata dai Signori del danaro.
Il Pil della Slovenia è diminuito al 2,3 per cento nel 2012 e si prevede un ulteriore calo del 2 per cento nel 2013, secondo le previsioni del Fondo monetario. “Un ciclo negativo tra difficoltà finanziarie, consolidamento fiscale e deboli bilanci societari prolunghi la recessione”, ha ricordato il gruppo di tecnocrati del Fmi dopo una visita in Slovenia a marzo. Di una certa gravità è lo stato di degrado del settore bancario della Slovenia, che è stato profondamente colpito durante la crisi finanziaria globale. Le sue sofferenze sono costantemente aumentate, secondo i creditori internazionali. Le tre maggiori banche del Paese hanno urgente bisogno di essere ricapitalizzate per un importo di circa 1 miliardo di euro, secondo il Fondo monetario. Nel frattempo è emerso anche un buco per le banche slovene nel loro bilancio complessivo di circa 4 miliardi di euro, ha dichiarato Petra Lesjak, responsabile della gestione patrimoniale per investitori istituzionali a Lubiana. La cattiva gestione delle banche del Paese – molti dei quali sono di proprietà dello Stato – e il rallentamento subito dal settore delle costruzioni sono stati accusati di alimentare la crisi interna. L’instabilità politica della Slovenia ha ulteriormente aggravato la situazione. La premier Bratušek si è messa al lavoro da un mese dopo il fallimento del precedente governo conservatore. Ma le promesse di crescita e lavoro pronunziate dalla giovane premier restano soltanto parole.
E così nonostante l’incertezza economica e politica che affligge l’Unione europea, gli eurocrati si dicono convinti che la Slovenia potrebbe risollevarsi dalla crisi senza alcun “aiuto” esterno, semplicemente applicando le necessarie riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno secondo i tecnocrati della troika: risanamento dei conti pubblici, ordine e trasparenza nei bilanci delle banche, privatizzazioni e riforma delle pensioni.
Ma la situazione è più complessa di quel che sembra, visto che è stato lanciato l’allarme anche per la situazione bancaria di Croazia per i debiti e la bancarotta già annunciata di alcune sue banche e ancora l’Ungheria che da tempo sfida i poteri forti mentre la sua economia è a rischio a causa della speculazione sulla sua moneta il fiorino magiaro. E poi abbiamo anche Lussemburgo e Malta. Ad avvertire dei rischi su questi due Paesi dell’area euro è stata la Deutsche Bank, la quale ha osservato che vi è indubbiamente motivo di preoccuparsi. I due piccoli Stati europei hanno invece respinto il confronto tra il loro settore bancario e quello cipriota. Il governo lussemburghese ha detto in un comunicato di essere “preoccupato per le recenti dichiarazioni” riguardanti le “dimensioni del settore finanziario rispetto al Pil del Paese e dei rischi presunti di ciò che rappresenta per la stabilità economica e di bilancio”. L’esecutivo ha inoltre sottolineato che, a differenza di Cipro, nelle banche lussemburghesi la “clientela diversificata, i prodotti sofisticati, una vigilanza efficace e rigorosa, e l’applicazione delle norme internazionali le rendono speciali”.
Il responsabile della Banca centrale di Malta, Josef Bonnici, ha dichiarato all’agenzia Reuters che le banche estere con filiali a Malta hanno poco a che fare con la sua economia giornaliera e che gli stessi istituti di credito dell’isola sono solidi. Il problema non è in realtà legato soltanto all’esposizione ma è il sistema stesso ad essere a rischio e in particolare sono le strette relazioni reciproche dal punto di vista economico-finanziario a creare il problema. A dimostrazione dell’ormai rapporto strettissimo legato alla moneta unica e all’esposizione delle banche tra loro. Del resto non è facile tenere sotto controllo il settore bancario solo perché alcuni politici tedeschi si dichiarano preoccupati. Quando le banche cipriote si trovavano già nei guai, il governo non era in grado di salvarle poiché valgono più di sette volte le dimensioni dell’economia dell’isola. Le banche di Malta hanno al contrario un valore complessivo di quasi otto volte il suo Pil. Mentre quelle del Lussemburgo valgono 22 volte tanto. Dal canto suo Thomas Meyer, capo economista presso la sede di Francoforte della Deutsche Bank, ha sottolineato che un “controllo effettivo” non è sufficiente e risolutivo. Anche sotto la migliore supervisione, le banche possono avere dei problemi e se lo Stato è troppo piccolo rispetto al settore bancario, “lo Stato andrà in bancarotta”, ha chiosato, non mancando poi di osservare che la Svizzera, che ha anche uno squilibrio banche-Pil, ha affrontato il problema pensando bene di obbligare gli istituti di credito a detenere quasi il doppio delle riserve delle banche degli altri Paesi, poiché ha osservato che in caso di problemi il sistema bancario di un piccolo Stato deve essere in grado di difenderlo. “Per quanto ne so, Lussemburgo e Malta non hanno introdotto qualcosa di simile al modello svizzero, in modo che facciano implicitamente affidamento sulla zona euro per il backup, se ci fosse un problema nel loro sistema bancario. Sulla base dello scenario di Cipro, dovrebbero riconsiderare questo e guardare al modello svizzero”, ha sottolineato. Ma questo non può avvenire in breve tempo e i rischi per le economie dei due Stati Ue sono ormai evidenti e ineluttabili.
di Andrea Perrone

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).
Roberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.
anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.
È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.