24 aprile 2013

Napolitano: "L'euro che vuole la Germania ci porterà alla rovina"


Nel lontano 1978 l'allora deputato del Partito Comunista Italiano Giorgio Napolitano mostrava le sue perplessità sulla all'epoca embrionale moneta unica continentale, quindici anni prima di Maastricht e dodici prima de "L'Euro minaccia la democrazia" dell'"ammazza-sindacati" Margaret Thatcher. Perplessità tutt'altro che peregrine e che, già all'epoca, profetizzava che l'abbraccio tedesco sarebbe presto o tardi divenuto una morsa letale.
Lo si legge nel resoconto stenografico della seduta dell'assemblea della Camera dei Deputati del 13 dicembre 1978, a partire da pagina 24992, durante una discussione riguardante l'adesione dell'Italia al Sistema Monetario Europeo, che sarebbe entrato in vigore quattro mesi dopo. Si tratta di parole che sorprendono per la loro lucidità, poiché, senza tagliare di netto le gambe all'unione monetaria (come molti euroscettici sostengono senza averle lette, evidentemente), spiegano, anzi, profetizzano il futuro dell'allora CEE a distanza di quarant'anni.
Giorgio Napolitano, pur non respingendo le idee europeiste, ricordava che la costruzione di una unione monetaria non poteva svolgersi in modo frettoloso e, citando il governatore della Banca d'Italia, ammoniva che «Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea».
I negoziati, spiega Napolitano, presero però una piega sbagliata. Il colpevole? La Germania: «[...]dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E' così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l'Italia alla deflazione.» Trentacinque anni dopo siamo esattamente a questo punto, con Paesi come i PIIGS in depressione economica e lentamente portati a quella destinazione finale, ovvero ladeflazione, che la Grecia sta già cominciando a sperimentare.
Le idee del futuro presidente della Repubblica, rilette con spirito del 2013, risuonano come un martello sulla testa di chi partecipò a quei negoziati (come Andreotti, all'epoca presidente del Consiglio), poiché sembrano cronaca dei giorni nostri. Parafrasando Napolitano, "non è che questa costruzione monetaria filo-tedesca finirà per intaccare le nostre riserve auree, portandoci a perdere competitività e quindi costringerci a svalutare la moneta". È esattamente ciò che è avvenuto negli anni successivi, fino alla svalutazione della lira all'inizio degli anni Novanta (anche se, va precisato, non fu tutta colpa dello SME, anzi, i corrottissimi governi italiani negli anni Settanta-Ottanta ebbero colpe gravissime nello sviluppo rapido ma sbilenco del Paese).
Ma il Napolitano con il cronovisore non termina qui, anzi, dopo la svalutazione ricorda la possibilità che l'Italia possa essere costretta ad «adottare drastiche manovre restrittive». E qui vediamo, facendo andare avanti la videocassetta della Storia, l'eurotassa di Romano Prodi, che ci permise di entrare nell'euro (insieme a qualche trucco contabile di Carlo Azeglio Ciampi) e, dopo il decennio berlusconiano che, con il suo immobilismo fatto solo di proclami ha peggiorato ulteriormente la situazione, arriviamo al governo Monti e alla sua dolorosissima austerità: una scelta, quella di re Giorgio, che possiamo immaginare sofferta, mentre emergiamo dalla Camera del dicembre 1978, poiché a quell'austerità il governoBerlusconi-Tremonti avevano legato il Paese nel 2011, nel disperato tentativo di rimanere a galla, mentre lo spread saliva e l'economia crollava.
Leggiamo ancora Napolitano: «Il  rischio  è  quello  di veder  ristagnare  la  produzione, gli investimenti e l'occupazione invece  di  conseguire un più alto tasso  di crescita; di vedere  allontanarsi, invece di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.»
Questi rischi, evidentemente, erano ben noti al governo dell'epoca, che pure, nei negoziati, chiesero trasferimenti dalle aree più ricche a quelle meno prospere. Un embrione di unione fiscale, che oggi, mentre l'Europa continua a scivolare su salvataggi che non salvano nessuno,viene richiesta a sempre più forte voce, sempre più inascoltata.
Chiosa ancora Napolitano: «La verità è che forse [...] si  è  finito per  mettere il "carro" di un accordo monetario davanti ai "buoi" di un accordo per le economie.» Si chiede retoricamente il deputato comunista, come mai tutti spingono così tanto per l'Italia nell'euro? E perché l'Italia non ha fatto leva su questo interesse per ottenere un negoziato che giungesse a conclusioni meno irresponsabili?
Già, perché? Sono domande che ci facciamo ancora oggi e che dobbiamo porci ancora adesso: l'Italia è nell'euro e questo è un dato di fatto che non può, né deve cambiare, poiché l'Italia e l'Europa intera imploderebbero, e il botto sarebbe tanto forte che le conseguenze si sentirebbero in tutto il globo.
Piuttosto è necessario che il governo di Re Giorgio prossimo venturo segua quella stessa linea politica che quel giovane deputato napoletano portava avanti in un'aula tuttavia sorda a quei moniti: battere i pugni sul tavolo perché si cambi rotta, poiché l'Europa a guida tedesca continua a farci sbattere contro gli iceberg. Lo scafo dell'euro si sta riempiendo d'acqua: o ci salviamo tutti o affonderemo insieme.
Il PDF dell'intervento è conservato nell'archivio online della Camera dei Deputati.


Read more: http://it.ibtimes.com/articles/47177/20130423/napolitano-euro.htm#ixzz2RPejDFbE

23 aprile 2013

LA RIVOLUZIONE E' POSSIBILE

Quando la classe media e i giovani sono sistematicamente esclusi dai vertici economici e sociali l’unica via di sbocco è la sovversione del sistema. I leader europei non dovrebbero dare per scontata la stabilità.

Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione francese e con la sola eccezione della rivoluzione d'ottobre, che fu un colpo di stato compiuto in una situazione di estremo disordine politico.

Ma quand’è che la classe media decide di lanciarsi in una rivoluzione?


In primo luogo non si tratta della classe media nel suo insieme né di un gruppo organizzato né tanto meno di una comunità, ma dei leader della classe media, quegli stessi che oggi vincono le elezioni in Europa e che sono definiti irresponsabili (perché non appartengono alla geriatrica classe politica tradizionale), e che all'improvviso si rivelano non solo molto popolari, ma anche incredibilmente efficaci.

Nel classico caso della rivoluzione francese il ruolo di avanguardia rivoluzionaria è stato svolto da avvocati, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione dell'epoca e da una parte degli ufficiali dell'esercito. Il fattore economico era importante, ma non essenziale. Gli elementi scatenanti del movimento rivoluzionario sono stati prima di tutto l'assenza di apertura nella vita pubblica e l'impossibilità di promozione sociale. Di fatto l'aristocrazia, nel cercare di limitare a ogni costo l'influenza degli avvocati e degli uomini d'affari, ha favorito la rivoluzione. In tutta Europa – a eccezione della saggia Inghilterra – la nuova classe media non era in grado di decidere il suo destino.

Qual è oggi la discriminazione? E’ simile e diversa al tempo stesso. Senza dubbio l'aristocrazia non monopolizza più il processo decisionale, ma i banchieri, gli speculatori di borsa e i manager che guadagnano centinaia di milioni di euro estromettono da questo processo la classe media, che ne subisce le drammatiche conseguenze. Cipro ne è l'ultimo e più significativo esempio.

Ma di esempi ce ne sono molti altri. Prendiamo i professori universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare materie dichiarate poco utili dall'Unione europea, dagli stati membri e dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro.

In Slovacchia, per esempio, le scienze umane sono state quasi cancellate, mettendo in grave difficoltà gli esperti di materie come la storia, la grammatica, l'etnografia o la logica. Fra non molto altre categorie professionali seguiranno la stessa sorte, come i funzionari della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in passato. È colpa loro? No di certo. E che cosa può fare un funzionario licenziato con 15 anni di anzianità alle spalle e che ha sempre conosciuto la sicurezza del posto di lavoro? Probabilmente non molto. E lo stesso discorso vale per tutti quei giovani laureati che il mercato del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, e per gli artisti, i giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa dell'avvento dell'era digitale.

Dominio dei vecchi

Le rivoluzioni emergono attraverso l’esclusione professionale e decisionale e il deficit democratico. Si battono anche contro la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Non è un caso se i capi della rivoluzione francese avevano circa 30 anni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre 60. Gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma tenuto conto dei progressi della medicina, è molto probabile che tra 20 anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione.

Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di 25 anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni. Una rivoluzione, in opposizione totale con i metodi dei partiti politici, non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico ma perfettamente udibile.

Ma vogliamo veramente una rivoluzione? Non penso, perché la rivoluzione vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa.
di Marcin Król

Marcin Król (1944) è un filosofo, scrittore e giornalista polacco. Nel 2012 ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine").

21 aprile 2013

Cresce il sostegno alla legge Glass-Steagall negli Stati Uniti mentre l'economia è in caduta libera



 Il 25 marzo il disegno di legge presentato dalla congressista Marcy Kaptur per il ripristino della separazione bancaria come nella legge Glass-Steagall (HR 129) è stato firmato da altri sei congressisti, portando il totale dei firmatari a 46. Tra i sei nuovi firmatari c'è Marcia Fudge, che presiede il Black Caucus al Congresso, Keith Ellison, co-presidente del Congressional Progressive Caucus, e John Dingell, un autorevole leader del Partito Democratico, il cui padre fu tra i firmatari della legge Glass-Steagall sotto Roosevelt.
Grazie alla spinta organizzativa del movimento di LaRouche (LPAC), sono state presentate mozioni che chiedono al Congresso di approvare la legge HR 129 in 13 parlamenti degli stati (Alabama, Hawaii, Kentucky, Maine, Maryland, Mississippi, Montana, Pennsylvania, Rhode Island, South Dakota, Virginia, Washington e West Virginia). Nel South Dakota, la mozione in questo senso è stata approvata sia alla Camera che al Senato il 28 febbraio, e nel Maine il Senato ha approvato la mozione il 4 aprile. Si prospettano mozioni simili in numerosi altri stati.
Oltre alle mozioni, numerose figure istituzionali si sono espresse a favore della legge Glass-Steagall. Una di loro è l'ex direttore del bilancio nell'amministrazione Reagan ed ex congressista David Stockman, che sulla prima pagina del New York Times Sunday Review mette in guardia da un altro collasso finanziario in arrivo per via del "denaro caldo e instabile" che è aumentato da quando "sono state completamente smantellate le tutele stabilite dalla legge Glass-Steagall".
Per superare la crisi, scrive, occorre "mettere fine alla cartolarizzazione che ha trasformato l'economia in una gigantesca bisca dagli anni Settanta. Questo significa lasciare a se stesse le banche di Wall Street affinché competano a proprio rischio, senza concedere loro prestiti della Federal Reserve o assicurazioni sui depositi. Le banche ordinarie potranno raccogliere depositi o concedere prestiti commerciali, ma verranno escluse dal trading, dalla sottoscrizione di obbligazioni e dalla gestione finanziaria in tutte le sue forme".
È una descrizione alquanto accurata della legge Glass-Steagall, anche se Stockman non la cita per nome, forse per evitare la matita rossa e blu dei redattori del New York Times. Il giorno prima, durante una popolare trasmissione radiofonica, Stockman si era detto a favore della legge Glass-Steagall "al posto della stupida legge Dodd-Frank".
Con un'altra iniziativa mirante a ripulire il sistema bancario, il sindacato nazionale degli agricoltori (National Farmers Union) ha ribadito il proprio sostegno alla legge Glass-Steagall nella sua dichiarazione annuale, pubblicata il 5 marzo. Il NFU sostiene la separazione bancaria almeno dal 2010. Ma questa settimana ha chiesto anche di "indagare con vigore e muovere azioni penali contro le attività criminali nei nostri istituti finanziari".
Il presidente del sindacato nello stato dell'Indiana, James Benham, ha dato un vivace resoconto delle sue iniziative a favore della legge HR 129 nel corso di una conferenza tenuta dallo Schiller Institute nei pressi di Washington il 23 marzo. Come ha sottolineato, gli agricoltori costituiscono un settore dell'economia nazionale particolarmente colpito dalla speculazione finanziaria e dalla crescente cartellizzazione.
Dagli esordi di questo paese, si afferma nella dichiarazione, "la politica pubblica ha favorito un sistema bancario decentralizzato, per evitare gli abusi che sarebbero derivati da una struttura finanziaria altamente concentrata. Siamo preoccupati di fronte ai trend recenti che hanno accelerato la perdita di banche locali indipendenti aumentando il ruolo delle grosse banche anche nel settore agricolo. Questo ha ridotto gli investimenti nelle comunità".
Disgraziatamente la comprensione dell'economia reale manifestata dal NFU non è arrivata alla Commissione Agricoltura al Congresso, che il 20 marzo ha approvato sei disegni di legge che aumentano il sostegno dei contribuenti ai derivati e creano nuove scappatoie commerciali consentendo alle banche di eludere gli standard di gestione del rischio.  
by  (MoviSol) 

24 aprile 2013

Napolitano: "L'euro che vuole la Germania ci porterà alla rovina"


Nel lontano 1978 l'allora deputato del Partito Comunista Italiano Giorgio Napolitano mostrava le sue perplessità sulla all'epoca embrionale moneta unica continentale, quindici anni prima di Maastricht e dodici prima de "L'Euro minaccia la democrazia" dell'"ammazza-sindacati" Margaret Thatcher. Perplessità tutt'altro che peregrine e che, già all'epoca, profetizzava che l'abbraccio tedesco sarebbe presto o tardi divenuto una morsa letale.
Lo si legge nel resoconto stenografico della seduta dell'assemblea della Camera dei Deputati del 13 dicembre 1978, a partire da pagina 24992, durante una discussione riguardante l'adesione dell'Italia al Sistema Monetario Europeo, che sarebbe entrato in vigore quattro mesi dopo. Si tratta di parole che sorprendono per la loro lucidità, poiché, senza tagliare di netto le gambe all'unione monetaria (come molti euroscettici sostengono senza averle lette, evidentemente), spiegano, anzi, profetizzano il futuro dell'allora CEE a distanza di quarant'anni.
Giorgio Napolitano, pur non respingendo le idee europeiste, ricordava che la costruzione di una unione monetaria non poteva svolgersi in modo frettoloso e, citando il governatore della Banca d'Italia, ammoniva che «Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea».
I negoziati, spiega Napolitano, presero però una piega sbagliata. Il colpevole? La Germania: «[...]dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E' così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l'Italia alla deflazione.» Trentacinque anni dopo siamo esattamente a questo punto, con Paesi come i PIIGS in depressione economica e lentamente portati a quella destinazione finale, ovvero ladeflazione, che la Grecia sta già cominciando a sperimentare.
Le idee del futuro presidente della Repubblica, rilette con spirito del 2013, risuonano come un martello sulla testa di chi partecipò a quei negoziati (come Andreotti, all'epoca presidente del Consiglio), poiché sembrano cronaca dei giorni nostri. Parafrasando Napolitano, "non è che questa costruzione monetaria filo-tedesca finirà per intaccare le nostre riserve auree, portandoci a perdere competitività e quindi costringerci a svalutare la moneta". È esattamente ciò che è avvenuto negli anni successivi, fino alla svalutazione della lira all'inizio degli anni Novanta (anche se, va precisato, non fu tutta colpa dello SME, anzi, i corrottissimi governi italiani negli anni Settanta-Ottanta ebbero colpe gravissime nello sviluppo rapido ma sbilenco del Paese).
Ma il Napolitano con il cronovisore non termina qui, anzi, dopo la svalutazione ricorda la possibilità che l'Italia possa essere costretta ad «adottare drastiche manovre restrittive». E qui vediamo, facendo andare avanti la videocassetta della Storia, l'eurotassa di Romano Prodi, che ci permise di entrare nell'euro (insieme a qualche trucco contabile di Carlo Azeglio Ciampi) e, dopo il decennio berlusconiano che, con il suo immobilismo fatto solo di proclami ha peggiorato ulteriormente la situazione, arriviamo al governo Monti e alla sua dolorosissima austerità: una scelta, quella di re Giorgio, che possiamo immaginare sofferta, mentre emergiamo dalla Camera del dicembre 1978, poiché a quell'austerità il governoBerlusconi-Tremonti avevano legato il Paese nel 2011, nel disperato tentativo di rimanere a galla, mentre lo spread saliva e l'economia crollava.
Leggiamo ancora Napolitano: «Il  rischio  è  quello  di veder  ristagnare  la  produzione, gli investimenti e l'occupazione invece  di  conseguire un più alto tasso  di crescita; di vedere  allontanarsi, invece di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.»
Questi rischi, evidentemente, erano ben noti al governo dell'epoca, che pure, nei negoziati, chiesero trasferimenti dalle aree più ricche a quelle meno prospere. Un embrione di unione fiscale, che oggi, mentre l'Europa continua a scivolare su salvataggi che non salvano nessuno,viene richiesta a sempre più forte voce, sempre più inascoltata.
Chiosa ancora Napolitano: «La verità è che forse [...] si  è  finito per  mettere il "carro" di un accordo monetario davanti ai "buoi" di un accordo per le economie.» Si chiede retoricamente il deputato comunista, come mai tutti spingono così tanto per l'Italia nell'euro? E perché l'Italia non ha fatto leva su questo interesse per ottenere un negoziato che giungesse a conclusioni meno irresponsabili?
Già, perché? Sono domande che ci facciamo ancora oggi e che dobbiamo porci ancora adesso: l'Italia è nell'euro e questo è un dato di fatto che non può, né deve cambiare, poiché l'Italia e l'Europa intera imploderebbero, e il botto sarebbe tanto forte che le conseguenze si sentirebbero in tutto il globo.
Piuttosto è necessario che il governo di Re Giorgio prossimo venturo segua quella stessa linea politica che quel giovane deputato napoletano portava avanti in un'aula tuttavia sorda a quei moniti: battere i pugni sul tavolo perché si cambi rotta, poiché l'Europa a guida tedesca continua a farci sbattere contro gli iceberg. Lo scafo dell'euro si sta riempiendo d'acqua: o ci salviamo tutti o affonderemo insieme.
Il PDF dell'intervento è conservato nell'archivio online della Camera dei Deputati.


Read more: http://it.ibtimes.com/articles/47177/20130423/napolitano-euro.htm#ixzz2RPejDFbE

23 aprile 2013

LA RIVOLUZIONE E' POSSIBILE

Quando la classe media e i giovani sono sistematicamente esclusi dai vertici economici e sociali l’unica via di sbocco è la sovversione del sistema. I leader europei non dovrebbero dare per scontata la stabilità.

Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione francese e con la sola eccezione della rivoluzione d'ottobre, che fu un colpo di stato compiuto in una situazione di estremo disordine politico.

Ma quand’è che la classe media decide di lanciarsi in una rivoluzione?


In primo luogo non si tratta della classe media nel suo insieme né di un gruppo organizzato né tanto meno di una comunità, ma dei leader della classe media, quegli stessi che oggi vincono le elezioni in Europa e che sono definiti irresponsabili (perché non appartengono alla geriatrica classe politica tradizionale), e che all'improvviso si rivelano non solo molto popolari, ma anche incredibilmente efficaci.

Nel classico caso della rivoluzione francese il ruolo di avanguardia rivoluzionaria è stato svolto da avvocati, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione dell'epoca e da una parte degli ufficiali dell'esercito. Il fattore economico era importante, ma non essenziale. Gli elementi scatenanti del movimento rivoluzionario sono stati prima di tutto l'assenza di apertura nella vita pubblica e l'impossibilità di promozione sociale. Di fatto l'aristocrazia, nel cercare di limitare a ogni costo l'influenza degli avvocati e degli uomini d'affari, ha favorito la rivoluzione. In tutta Europa – a eccezione della saggia Inghilterra – la nuova classe media non era in grado di decidere il suo destino.

Qual è oggi la discriminazione? E’ simile e diversa al tempo stesso. Senza dubbio l'aristocrazia non monopolizza più il processo decisionale, ma i banchieri, gli speculatori di borsa e i manager che guadagnano centinaia di milioni di euro estromettono da questo processo la classe media, che ne subisce le drammatiche conseguenze. Cipro ne è l'ultimo e più significativo esempio.

Ma di esempi ce ne sono molti altri. Prendiamo i professori universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare materie dichiarate poco utili dall'Unione europea, dagli stati membri e dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro.

In Slovacchia, per esempio, le scienze umane sono state quasi cancellate, mettendo in grave difficoltà gli esperti di materie come la storia, la grammatica, l'etnografia o la logica. Fra non molto altre categorie professionali seguiranno la stessa sorte, come i funzionari della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in passato. È colpa loro? No di certo. E che cosa può fare un funzionario licenziato con 15 anni di anzianità alle spalle e che ha sempre conosciuto la sicurezza del posto di lavoro? Probabilmente non molto. E lo stesso discorso vale per tutti quei giovani laureati che il mercato del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, e per gli artisti, i giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa dell'avvento dell'era digitale.

Dominio dei vecchi

Le rivoluzioni emergono attraverso l’esclusione professionale e decisionale e il deficit democratico. Si battono anche contro la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Non è un caso se i capi della rivoluzione francese avevano circa 30 anni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre 60. Gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma tenuto conto dei progressi della medicina, è molto probabile che tra 20 anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione.

Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di 25 anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni. Una rivoluzione, in opposizione totale con i metodi dei partiti politici, non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico ma perfettamente udibile.

Ma vogliamo veramente una rivoluzione? Non penso, perché la rivoluzione vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa.
di Marcin Król

Marcin Król (1944) è un filosofo, scrittore e giornalista polacco. Nel 2012 ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine").

21 aprile 2013

Cresce il sostegno alla legge Glass-Steagall negli Stati Uniti mentre l'economia è in caduta libera



 Il 25 marzo il disegno di legge presentato dalla congressista Marcy Kaptur per il ripristino della separazione bancaria come nella legge Glass-Steagall (HR 129) è stato firmato da altri sei congressisti, portando il totale dei firmatari a 46. Tra i sei nuovi firmatari c'è Marcia Fudge, che presiede il Black Caucus al Congresso, Keith Ellison, co-presidente del Congressional Progressive Caucus, e John Dingell, un autorevole leader del Partito Democratico, il cui padre fu tra i firmatari della legge Glass-Steagall sotto Roosevelt.
Grazie alla spinta organizzativa del movimento di LaRouche (LPAC), sono state presentate mozioni che chiedono al Congresso di approvare la legge HR 129 in 13 parlamenti degli stati (Alabama, Hawaii, Kentucky, Maine, Maryland, Mississippi, Montana, Pennsylvania, Rhode Island, South Dakota, Virginia, Washington e West Virginia). Nel South Dakota, la mozione in questo senso è stata approvata sia alla Camera che al Senato il 28 febbraio, e nel Maine il Senato ha approvato la mozione il 4 aprile. Si prospettano mozioni simili in numerosi altri stati.
Oltre alle mozioni, numerose figure istituzionali si sono espresse a favore della legge Glass-Steagall. Una di loro è l'ex direttore del bilancio nell'amministrazione Reagan ed ex congressista David Stockman, che sulla prima pagina del New York Times Sunday Review mette in guardia da un altro collasso finanziario in arrivo per via del "denaro caldo e instabile" che è aumentato da quando "sono state completamente smantellate le tutele stabilite dalla legge Glass-Steagall".
Per superare la crisi, scrive, occorre "mettere fine alla cartolarizzazione che ha trasformato l'economia in una gigantesca bisca dagli anni Settanta. Questo significa lasciare a se stesse le banche di Wall Street affinché competano a proprio rischio, senza concedere loro prestiti della Federal Reserve o assicurazioni sui depositi. Le banche ordinarie potranno raccogliere depositi o concedere prestiti commerciali, ma verranno escluse dal trading, dalla sottoscrizione di obbligazioni e dalla gestione finanziaria in tutte le sue forme".
È una descrizione alquanto accurata della legge Glass-Steagall, anche se Stockman non la cita per nome, forse per evitare la matita rossa e blu dei redattori del New York Times. Il giorno prima, durante una popolare trasmissione radiofonica, Stockman si era detto a favore della legge Glass-Steagall "al posto della stupida legge Dodd-Frank".
Con un'altra iniziativa mirante a ripulire il sistema bancario, il sindacato nazionale degli agricoltori (National Farmers Union) ha ribadito il proprio sostegno alla legge Glass-Steagall nella sua dichiarazione annuale, pubblicata il 5 marzo. Il NFU sostiene la separazione bancaria almeno dal 2010. Ma questa settimana ha chiesto anche di "indagare con vigore e muovere azioni penali contro le attività criminali nei nostri istituti finanziari".
Il presidente del sindacato nello stato dell'Indiana, James Benham, ha dato un vivace resoconto delle sue iniziative a favore della legge HR 129 nel corso di una conferenza tenuta dallo Schiller Institute nei pressi di Washington il 23 marzo. Come ha sottolineato, gli agricoltori costituiscono un settore dell'economia nazionale particolarmente colpito dalla speculazione finanziaria e dalla crescente cartellizzazione.
Dagli esordi di questo paese, si afferma nella dichiarazione, "la politica pubblica ha favorito un sistema bancario decentralizzato, per evitare gli abusi che sarebbero derivati da una struttura finanziaria altamente concentrata. Siamo preoccupati di fronte ai trend recenti che hanno accelerato la perdita di banche locali indipendenti aumentando il ruolo delle grosse banche anche nel settore agricolo. Questo ha ridotto gli investimenti nelle comunità".
Disgraziatamente la comprensione dell'economia reale manifestata dal NFU non è arrivata alla Commissione Agricoltura al Congresso, che il 20 marzo ha approvato sei disegni di legge che aumentano il sostegno dei contribuenti ai derivati e creano nuove scappatoie commerciali consentendo alle banche di eludere gli standard di gestione del rischio.  
by  (MoviSol)