1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese.
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.
di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi

Qualche anno fa ho conosciuto a Roma, in metropolitana, un signore distinto, professore all’Università di Teramo, che mi raccontò una storia: quell’incontro mi è servito a capire meglio ilRisiko giocato dai banKster sulle nostre vite. La moneta, mi disse, è uno strumento “econometrico”, sostitutivo del rudimentale baratto, che serve per misurare il valore nelle transazioni commerciali. Originariamente il valore della moneta era pari al valore dei metalli usati (oro, argento, rame ecc.): i sovrani acquistavano sul mercato i vari metalli, li convertivano in monete e questi nuovi valori ritornavano in circolo sul mercato stesso. Il sovrano tratteneva per sé un piccolo guadagno, corrispondente alle spese di coniazione e di amministrazione: nasceva così il “signoraggio”. La scarsa reperibilità di oro e argento ha comportato una carenza di quantità di denaro in circolo sul mercato, determinandone la stasi, ed ecco perché è nata la moneta convenzionale.
L’usurpazione perpetrata dal sistema bancario ai danni dello Stato, nella gestione e nell’emissione monetaria, ebbe inizio quando i banchieri cominciarono a prestare i certificati, rappresentativi di oro ed argento, da loro stessi emessi: nacque così la note of bank, ovvero, la banconota. I bankster si arrogarono il diritto di stampare banconote in vece dello Stato che poi acquistava il valore nominale delle banconote ricevute pagando con dei titoli cosiddetti di “debito pubblico”. I banchieri cominciarono, poi, ad emettere banconote in quantità ben superiore all’oro posseduto. Pertanto, così facendo, aumentarono il capitale ed ottennero il pagamento degli interessi anche a fronte dei titoli cartacei prestati, ma privi di riserva aurea.
ll 15 agosto 1971, Forte Knox era stato quasi svuotato dalla Francia che presentava all’incasso i titoli per convertirli in oro, come prevedeva il vigente trattato di Bretton Woods: ma i banchieri avevano stampato Dollari per 9 volte il valore dell’oro che possedevano. Il Presidente Nixon dovette spazzare i patti di Bretton Woods e sospese la convertibilità del Dollaro in oro: il dollaro, però, mantenne inalterato il proprio valore. Il valore della banconota non è determinato dalla sua riserva aurea, ma unicamente da una convenzione sociale. Ciò comporta che la Banca d’Emissione guadagna un lucrosissimo signoraggio che consiste nella differenza tra il valore facciale stampato sul foglietto e il costo della carta e dell’inchiostro sostenuto per realizzare i biglietti stessi. E’ evidente come non possa essere consentito alla Banca d’Emissione d’impossessarsi del signoraggio in occasione dell’emissione monetaria: il signoraggio deve essere solo ed esclusivamente di proprietà dello Stato. E’ lo Stato che deve garantire la stabilità di un mercato tenendo sotto controllo il rapporto tra circolazione monetaria e beni da misurare: se il mercato dispone e produce maggiori beni, occorre maggior quantità di moneta, per non incorrere nella “deflazione”; quantità che va ridotta in caso di diminuzione dei beni stessi, per non creare “inflazione”.
Ora, è evidente come l’attuale crisi economica è stata realizzata mediante la folle distribuzione di titoli inventati, piazzati dalle grandi banche ai privati ed alle stesse banche minori, valori poi volatilizzati.Lo Stato deve ritornare alla propria emissione monetaria diretta, non solo per riacquisire la propria sovranità economica e politica, ma ancor più per smettere d’indebitarsi per acquistare al valore facciale la moneta emessa dai bancheri pagandola con i propri titoli di debito, sui quali scatta da subito anche il pagamento degli interessi passivi. Queste crisi vengono organizzate per sottrarre beni e sistemi produttivi ai legittimi proprietari, per farli confluire alle grandi multinazionali controllate dai banchieri stessi. Ah, già ! … quel signore in metro era Giacinto Auriti, al quale prima della sua morte ho potuto donare, grazie a Savino Frigiola, la sentenza n. 3712/04 del GdP di Lecce, prototipo della provocazione giudiziaria del cittadino ai Signori delle banche.
di Antonio Tanza
Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.
La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».
Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.
Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff | Advisory Committee)
Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».
La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.
Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.
Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).
Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.
È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.
Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.
Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)
Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
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Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.
Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.
Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.
Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.
Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.
Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.
Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:
«Che cosa fa il capitalismo?»
Risposta: «Corre alla propria rovina»
«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»
«Raggiungere e superare il capitalismo!».
Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.
1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente.
di Maurizio Blondet
1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese.
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.
di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi

Qualche anno fa ho conosciuto a Roma, in metropolitana, un signore distinto, professore all’Università di Teramo, che mi raccontò una storia: quell’incontro mi è servito a capire meglio ilRisiko giocato dai banKster sulle nostre vite. La moneta, mi disse, è uno strumento “econometrico”, sostitutivo del rudimentale baratto, che serve per misurare il valore nelle transazioni commerciali. Originariamente il valore della moneta era pari al valore dei metalli usati (oro, argento, rame ecc.): i sovrani acquistavano sul mercato i vari metalli, li convertivano in monete e questi nuovi valori ritornavano in circolo sul mercato stesso. Il sovrano tratteneva per sé un piccolo guadagno, corrispondente alle spese di coniazione e di amministrazione: nasceva così il “signoraggio”. La scarsa reperibilità di oro e argento ha comportato una carenza di quantità di denaro in circolo sul mercato, determinandone la stasi, ed ecco perché è nata la moneta convenzionale.
L’usurpazione perpetrata dal sistema bancario ai danni dello Stato, nella gestione e nell’emissione monetaria, ebbe inizio quando i banchieri cominciarono a prestare i certificati, rappresentativi di oro ed argento, da loro stessi emessi: nacque così la note of bank, ovvero, la banconota. I bankster si arrogarono il diritto di stampare banconote in vece dello Stato che poi acquistava il valore nominale delle banconote ricevute pagando con dei titoli cosiddetti di “debito pubblico”. I banchieri cominciarono, poi, ad emettere banconote in quantità ben superiore all’oro posseduto. Pertanto, così facendo, aumentarono il capitale ed ottennero il pagamento degli interessi anche a fronte dei titoli cartacei prestati, ma privi di riserva aurea.
ll 15 agosto 1971, Forte Knox era stato quasi svuotato dalla Francia che presentava all’incasso i titoli per convertirli in oro, come prevedeva il vigente trattato di Bretton Woods: ma i banchieri avevano stampato Dollari per 9 volte il valore dell’oro che possedevano. Il Presidente Nixon dovette spazzare i patti di Bretton Woods e sospese la convertibilità del Dollaro in oro: il dollaro, però, mantenne inalterato il proprio valore. Il valore della banconota non è determinato dalla sua riserva aurea, ma unicamente da una convenzione sociale. Ciò comporta che la Banca d’Emissione guadagna un lucrosissimo signoraggio che consiste nella differenza tra il valore facciale stampato sul foglietto e il costo della carta e dell’inchiostro sostenuto per realizzare i biglietti stessi. E’ evidente come non possa essere consentito alla Banca d’Emissione d’impossessarsi del signoraggio in occasione dell’emissione monetaria: il signoraggio deve essere solo ed esclusivamente di proprietà dello Stato. E’ lo Stato che deve garantire la stabilità di un mercato tenendo sotto controllo il rapporto tra circolazione monetaria e beni da misurare: se il mercato dispone e produce maggiori beni, occorre maggior quantità di moneta, per non incorrere nella “deflazione”; quantità che va ridotta in caso di diminuzione dei beni stessi, per non creare “inflazione”.
Ora, è evidente come l’attuale crisi economica è stata realizzata mediante la folle distribuzione di titoli inventati, piazzati dalle grandi banche ai privati ed alle stesse banche minori, valori poi volatilizzati.Lo Stato deve ritornare alla propria emissione monetaria diretta, non solo per riacquisire la propria sovranità economica e politica, ma ancor più per smettere d’indebitarsi per acquistare al valore facciale la moneta emessa dai bancheri pagandola con i propri titoli di debito, sui quali scatta da subito anche il pagamento degli interessi passivi. Queste crisi vengono organizzate per sottrarre beni e sistemi produttivi ai legittimi proprietari, per farli confluire alle grandi multinazionali controllate dai banchieri stessi. Ah, già ! … quel signore in metro era Giacinto Auriti, al quale prima della sua morte ho potuto donare, grazie a Savino Frigiola, la sentenza n. 3712/04 del GdP di Lecce, prototipo della provocazione giudiziaria del cittadino ai Signori delle banche.
di Antonio Tanza
Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.
La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».
Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.
Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff | Advisory Committee)
Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».
La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.
Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.
Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).
Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.
È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.
Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.
Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)
Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
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Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.
Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.
Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.
Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.
Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.
Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.
Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:
«Che cosa fa il capitalismo?»
Risposta: «Corre alla propria rovina»
«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»
«Raggiungere e superare il capitalismo!».
Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.
1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente.
di Maurizio Blondet