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Se dovessimo scegliere un termine, un unico termine, per definire in modo generale tutti i dibattiti che si svolgono a ogni latitudine attorno al tema lavoro, sceglieremmo "anacronismo".
Proprio in queste settimane iniziano i valzer delle dichiarazioni in merito al rilancio dell'occupazione, in attesa dell'annunciato vertice europeo che dovrebbe organizzare Angela Merkel verso la fine di luglio. È inevitabile che nella congiuntura attuale di enorme crisi recessiva che stiamo vivendo e che si ripercuote, sebbene con ovvie differenze, da Est a Ovest, all'interno del nostro modello di sviluppo sia l'argomento principale attorno al quale ruotano tutte le (vacue) proposte di questo o quel governo.
Ciò che ci si scorda perennemente, però, è un dato di fatto inerente la logica stessa della deriva che ha preso il mondo che conosciamo: il lavoro è finito. O quasi.
Lo schema generale che regge tutta l'impalcatura delle varie ipotesi per invertire la rotta dell'inesorabile declino del cosiddetto Occidente è sempre lo stesso: lavoro, produzione, consumo. Di merci e servizi. La logica interna è che ci sarà sempre bisogno di nuove merci e di nuovi servizi in modo che attraverso il consumo la macchina potrà continuare a marciare. E a crescere. Sappiamo bene, soprattutto i nostri lettori lo sanno e certamente lo hanno interiorizzato se leggono questo giornale e gli studiosi e giornalisti che in un verso o in un altro fanno parte della stessa area, che il criterio unico è sempre quello: crescere. All'infinito. Siccome ciò non è possibile, come dovrebbe essere ovvio per semplici motivi fisici, è evidente che tale strada non possa che condurre al fallimento. Che stiamo puntualmente, infatti, vivendo.
A fronte di questa lapalissiana considerazione, i sedicenti economisti hanno optato e continuano a proporre due comportamenti. Da un lato, semplicemente, non rispondono: non potendo offrire argomenti logici e pertinenti, bollano il tutto come una provocazione e basta, roba da non prendere sul serio, insomma. Dall'altro lato puntano sul fatto che, crescendo la popolazione mondiale, si potranno sempre trovare nuovi mercati per nuove esigenze anche quando, ma questo è implicito sebbene non dichiarato, ciò dovesse significare imporre anche con le armi alle persone di adottare tale modello. Gli esempi recenti e contemporanei non mancano.
Senonché non solo la storia si è premurata di smentirli, sebbene la cosa non gli abbia impedito di continuare imperterriti a tessere le lodi e a pontificare i salmi della propria dottrina, ma anche alcuni fenomeni della loro stessa disciplina, chiamiamola così, si sono, e da anni, incaricati di confermare le tesi opposte. Quelle, cioè, dei cosiddetti pessimisti. Il fatto che l'economia si sia trasformata strada facendo da elemento materiale a fenomeno immateriale, conferma indirettamente proprio la domanda iniziale: siccome dal punto di vista fisico non è più possibile crescere, per ottenere ancora i grafici positivi, e con punte sempre maggiori, il tutto si è trasformato in una soluzione virtuale, quella finanziaria.
Se una volta i dati di crescita dipendevano dal ciclo che abbiamo detto (produzione e consumo a ritmi crescenti), verificato che questo non poteva più avvenire ai ritmi di prima e che anzi il gioco era inesorabilmente destinato a rallentare, a regredire e alla fine a rompersi, gli squali della speculazione hanno virato decisamente verso la finanza. La pesantezza e le difficoltà della materia, cioè l'industria, sono state lasciate andando decisamente verso i bit, verso la "matematica". La natura ha posto i limiti, e allora si è scelto l'innaturale. Il virtuale.
Ciò, inevitabilmente, ha avuto le ripercussioni che tutti conosciamo, invece, nell'economia reale. Del resto, se una società per azioni cresce in Borsa nel momento in cui l'azienda che ne è alla base comunica di aver risparmiato milioni di euro riducendo la propria forza lavoro e mandando a casa qualche migliaio di dipendenti, non è che servano ulteriori conferme o spiegazioni.
In questo macro quadro, dunque, torniamo all'anacronismo del parlare di "lavoro". Beninteso, le varie parti in campo, nel momento in cui non "leggono", o non vogliono leggere, la realtà, altro non possono fare che continuare ad affrontare l'argomento con i medesimi criteri di sempre. Che non sono più validi.
Per dirla alla de Benoist, "vanno avanti guardando nello specchietto retrovisore". La destinazione, pertanto, è facile da prevedere.
Ora, è chiaro che di una certa materialità ci sarà sempre bisogno. È certo che in qualche misura ci sarà sempre bisogno di persone che producono qualcosa di materiale, e che dunque il ritorno a una certa soglia di occupazione debba tornare. Che si tratti del lavoro come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni oppure delle attività che facevano parte di un mondo certamente più sostenibile come era prima della rivoluzione industriale, la gente qualcosa tornerà a fare. Ma che ci si batta imperterriti per far tornare a produrre ai ritmi di una volta delle industrie che lavorano in ambiti merceologici di cui il mondo è ormai saturo, è operazione che porta dritti al fallimento e alla delusione.
Non va dimenticato, all'interno di un discorso generale sul "lavoro", che permangono in ogni caso sotto traccia, ma con incidenza crescente e non eludibile, i temi della crescita demografica e quelli dell'impoverimento delle risorse del pianeta nel quale viviamo. Come si vede, torniamo sempre alla materia, alla natura, a elementi misurabili e quantificabili. Reali e non virtuali: la popolazione mondiale non può continuare a crescere all'infinito e non possiamo continuare a depredare la terra così come abbiamo fatto sino a ora e a inquinarla con questi ritmi. Bazzecole, per i guru dell'economia e della crescita. Falsi allarmi, per chi punta unicamente sul ritorno al lavoro per come era negli anni anticrisi.
La realtà, ancora una volta, si premunirà di rimettere le cose a posto, nel senso che renderà evidente ancora una volta come in questo mondo fisico nel quale viviamo sia indispensabile tornare a fare i conti con la materia, e non con l'immateriale, per trovare una strada di convivenza tra gli uomini e tra questi e il luogo nel quale vivono.
Discorso differente è quello relativo ai servizi, alla crescita non materiale. Pensiamo a tutto il settore culturale. Invece di produrre oggetti, creare cultura. Conoscenza. Arte. E renderla disponibile a tutti. Lì il campo si può espandere moltissimo. E in pieno rispetto dei limiti fisici della terra. Posto che la produzione industriale debba necessariamente arrestarsi, se non addirittura regredire a ritmi e quantità più sostenibili, è negli altri ambiti che si può crescere. E creare occupazione. Lavorare fisicamente meno, dunque. Tutti, magari, ma solo per metà giornata. E il resto del tempo si possa passarlo a "consumare" cultura e arte. Si finisce di lavorare alle 13, e non per produrre nuove merci, magari per migliorare il funzionamento di quelle esistenti. Non per costruire nuovi palazzi, magari per restaurare quelli da ripristinare. E il pomeriggio si va ad ascoltare un concerto, una conferenza. O a vedere una esposizione. A 1 euro a biglietto.
Una ipotesi, quest'ultima, che lasciamo volutamente abbozzata in modo superficiale. Ma che ha un criterio ben preciso: quello della sostenibilità. E una direzione parimenti auspicabile: quella della piena occupazione. Oltre, si sarà notato, una missione superiore ancora più piacevole: un mondo con meno merci, ma con più beni.
Non esiste altra strada perseguibile. Il resto sono chimere che hanno già dimostrato la loro fallacia.
La sintesi legata all'attualità è dunque semplice: chiunque, oggi, intenda affrontare le problematiche relative al lavoro, che si tratti di politici, di intellettuali, di sindacalisti o di industriali, ha due soli modi per operare: affrontare il tema alla luce dei punti cardine che abbiamo accennato oppure tacere. Tutte le altre saranno parole inutili, purtroppo, per tutte le persone che sono senza lavoro e che ne reclamano uno.
Valerio Lo Monaco |
04 giugno 2013
Il lavoro è finito: c'é bisogno di una nuova visione
30 maggio 2013
Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri
![]() Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui.
Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi: la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo? Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley) hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa. Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare?
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni.
di Giulietto Chiesa
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29 maggio 2013
Apologia del brigante
1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese.
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.
di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi
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04 giugno 2013
Il lavoro è finito: c'é bisogno di una nuova visione
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Se dovessimo scegliere un termine, un unico termine, per definire in modo generale tutti i dibattiti che si svolgono a ogni latitudine attorno al tema lavoro, sceglieremmo "anacronismo".
Proprio in queste settimane iniziano i valzer delle dichiarazioni in merito al rilancio dell'occupazione, in attesa dell'annunciato vertice europeo che dovrebbe organizzare Angela Merkel verso la fine di luglio. È inevitabile che nella congiuntura attuale di enorme crisi recessiva che stiamo vivendo e che si ripercuote, sebbene con ovvie differenze, da Est a Ovest, all'interno del nostro modello di sviluppo sia l'argomento principale attorno al quale ruotano tutte le (vacue) proposte di questo o quel governo.
Ciò che ci si scorda perennemente, però, è un dato di fatto inerente la logica stessa della deriva che ha preso il mondo che conosciamo: il lavoro è finito. O quasi.
Lo schema generale che regge tutta l'impalcatura delle varie ipotesi per invertire la rotta dell'inesorabile declino del cosiddetto Occidente è sempre lo stesso: lavoro, produzione, consumo. Di merci e servizi. La logica interna è che ci sarà sempre bisogno di nuove merci e di nuovi servizi in modo che attraverso il consumo la macchina potrà continuare a marciare. E a crescere. Sappiamo bene, soprattutto i nostri lettori lo sanno e certamente lo hanno interiorizzato se leggono questo giornale e gli studiosi e giornalisti che in un verso o in un altro fanno parte della stessa area, che il criterio unico è sempre quello: crescere. All'infinito. Siccome ciò non è possibile, come dovrebbe essere ovvio per semplici motivi fisici, è evidente che tale strada non possa che condurre al fallimento. Che stiamo puntualmente, infatti, vivendo.
A fronte di questa lapalissiana considerazione, i sedicenti economisti hanno optato e continuano a proporre due comportamenti. Da un lato, semplicemente, non rispondono: non potendo offrire argomenti logici e pertinenti, bollano il tutto come una provocazione e basta, roba da non prendere sul serio, insomma. Dall'altro lato puntano sul fatto che, crescendo la popolazione mondiale, si potranno sempre trovare nuovi mercati per nuove esigenze anche quando, ma questo è implicito sebbene non dichiarato, ciò dovesse significare imporre anche con le armi alle persone di adottare tale modello. Gli esempi recenti e contemporanei non mancano.
Senonché non solo la storia si è premurata di smentirli, sebbene la cosa non gli abbia impedito di continuare imperterriti a tessere le lodi e a pontificare i salmi della propria dottrina, ma anche alcuni fenomeni della loro stessa disciplina, chiamiamola così, si sono, e da anni, incaricati di confermare le tesi opposte. Quelle, cioè, dei cosiddetti pessimisti. Il fatto che l'economia si sia trasformata strada facendo da elemento materiale a fenomeno immateriale, conferma indirettamente proprio la domanda iniziale: siccome dal punto di vista fisico non è più possibile crescere, per ottenere ancora i grafici positivi, e con punte sempre maggiori, il tutto si è trasformato in una soluzione virtuale, quella finanziaria.
Se una volta i dati di crescita dipendevano dal ciclo che abbiamo detto (produzione e consumo a ritmi crescenti), verificato che questo non poteva più avvenire ai ritmi di prima e che anzi il gioco era inesorabilmente destinato a rallentare, a regredire e alla fine a rompersi, gli squali della speculazione hanno virato decisamente verso la finanza. La pesantezza e le difficoltà della materia, cioè l'industria, sono state lasciate andando decisamente verso i bit, verso la "matematica". La natura ha posto i limiti, e allora si è scelto l'innaturale. Il virtuale.
Ciò, inevitabilmente, ha avuto le ripercussioni che tutti conosciamo, invece, nell'economia reale. Del resto, se una società per azioni cresce in Borsa nel momento in cui l'azienda che ne è alla base comunica di aver risparmiato milioni di euro riducendo la propria forza lavoro e mandando a casa qualche migliaio di dipendenti, non è che servano ulteriori conferme o spiegazioni.
In questo macro quadro, dunque, torniamo all'anacronismo del parlare di "lavoro". Beninteso, le varie parti in campo, nel momento in cui non "leggono", o non vogliono leggere, la realtà, altro non possono fare che continuare ad affrontare l'argomento con i medesimi criteri di sempre. Che non sono più validi.
Per dirla alla de Benoist, "vanno avanti guardando nello specchietto retrovisore". La destinazione, pertanto, è facile da prevedere.
Ora, è chiaro che di una certa materialità ci sarà sempre bisogno. È certo che in qualche misura ci sarà sempre bisogno di persone che producono qualcosa di materiale, e che dunque il ritorno a una certa soglia di occupazione debba tornare. Che si tratti del lavoro come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni oppure delle attività che facevano parte di un mondo certamente più sostenibile come era prima della rivoluzione industriale, la gente qualcosa tornerà a fare. Ma che ci si batta imperterriti per far tornare a produrre ai ritmi di una volta delle industrie che lavorano in ambiti merceologici di cui il mondo è ormai saturo, è operazione che porta dritti al fallimento e alla delusione.
Non va dimenticato, all'interno di un discorso generale sul "lavoro", che permangono in ogni caso sotto traccia, ma con incidenza crescente e non eludibile, i temi della crescita demografica e quelli dell'impoverimento delle risorse del pianeta nel quale viviamo. Come si vede, torniamo sempre alla materia, alla natura, a elementi misurabili e quantificabili. Reali e non virtuali: la popolazione mondiale non può continuare a crescere all'infinito e non possiamo continuare a depredare la terra così come abbiamo fatto sino a ora e a inquinarla con questi ritmi. Bazzecole, per i guru dell'economia e della crescita. Falsi allarmi, per chi punta unicamente sul ritorno al lavoro per come era negli anni anticrisi.
La realtà, ancora una volta, si premunirà di rimettere le cose a posto, nel senso che renderà evidente ancora una volta come in questo mondo fisico nel quale viviamo sia indispensabile tornare a fare i conti con la materia, e non con l'immateriale, per trovare una strada di convivenza tra gli uomini e tra questi e il luogo nel quale vivono.
Discorso differente è quello relativo ai servizi, alla crescita non materiale. Pensiamo a tutto il settore culturale. Invece di produrre oggetti, creare cultura. Conoscenza. Arte. E renderla disponibile a tutti. Lì il campo si può espandere moltissimo. E in pieno rispetto dei limiti fisici della terra. Posto che la produzione industriale debba necessariamente arrestarsi, se non addirittura regredire a ritmi e quantità più sostenibili, è negli altri ambiti che si può crescere. E creare occupazione. Lavorare fisicamente meno, dunque. Tutti, magari, ma solo per metà giornata. E il resto del tempo si possa passarlo a "consumare" cultura e arte. Si finisce di lavorare alle 13, e non per produrre nuove merci, magari per migliorare il funzionamento di quelle esistenti. Non per costruire nuovi palazzi, magari per restaurare quelli da ripristinare. E il pomeriggio si va ad ascoltare un concerto, una conferenza. O a vedere una esposizione. A 1 euro a biglietto.
Una ipotesi, quest'ultima, che lasciamo volutamente abbozzata in modo superficiale. Ma che ha un criterio ben preciso: quello della sostenibilità. E una direzione parimenti auspicabile: quella della piena occupazione. Oltre, si sarà notato, una missione superiore ancora più piacevole: un mondo con meno merci, ma con più beni.
Non esiste altra strada perseguibile. Il resto sono chimere che hanno già dimostrato la loro fallacia.
La sintesi legata all'attualità è dunque semplice: chiunque, oggi, intenda affrontare le problematiche relative al lavoro, che si tratti di politici, di intellettuali, di sindacalisti o di industriali, ha due soli modi per operare: affrontare il tema alla luce dei punti cardine che abbiamo accennato oppure tacere. Tutte le altre saranno parole inutili, purtroppo, per tutte le persone che sono senza lavoro e che ne reclamano uno.
Valerio Lo Monaco |
30 maggio 2013
Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri
![]() Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui.
Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi: la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo? Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley) hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa. Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare?
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni.
di Giulietto Chiesa
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29 maggio 2013
Apologia del brigante
1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese.
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.
di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi
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