05 giugno 2013

Chi gode del tonfo di Grillo dovrebbe invece preoccuparsi della disaffezione degli elettori




   

I partiti, e i media loro legati, ritengono che il tonfo del movimento 5Stelle compensi, in qualche modo, l'impressionante fenomeno dell'astensionismo (più di un cittadino su tre a livello nazionale, uno su due a Roma) e ne gioiscono, perchè vedono, o vedevano, in Grillo il 'pericolo pubblico numero uno' che minava il sistema, il loro tranquillo ed eterno ruminar il potere, magari mascherato, opportunamente, con qualche lifting di facciata per rendersi, almeno esteticamente, più presentabili a un'opinione pubblica ribollente.

Si sbagliano. All'indomani delle elezioni politiche di febbraio scrivevo che i partiti avrebbero dovuto ringraziare Grillo invece di demonizzarlo. Per due motivi. Perchè il movimento 5Stelle mascherava un'astensione che, senza la sua presenza, avrebbe raggiunto già allora il 50% (il 25% degli astensionisti propriamente detti più il 25,6 degli elettori che avevano votato Grillo e che, senza di lui, avrebbero disertato le urne). Col 75% di votanti il sistema manteneva la sua legittimità. In secondo luogo il movimento 5Stelle, che è antisistema, rivoluzionario, ma pacifico, canalizzava, istituzionalizzava, innocuizzava una rabbia sociale che potrebbe esplodere, in forme violente, da un momento all'altro. L'astensione, per il sistema dei partiti, è molto più insidiosa. Perchè non è controllabile, non ha una faccia, non è individuabile. Inoltre pone un problema di legittimità democratica. Partiamo da Roma. Che legittimità, che credibilità, puo' avere un sindaco che, nella migliore delle ipotesi, rappresenta il 40% del 50% dei suoi cittadini? La questione diventa ancora più cogente a livello nazionale. Secondo il Barometro politico dell'istituto Demopolis se si andasse a votare domani per le politiche l'astensione crescerebbe di un altro 7% raggiungendo quasi la metà degli elettori. E io sono convinto che se esistesse, come per i referendum, un quorum al di sotto del quale le elezioni non sono valide l'astensione salirebbe ulteriormente. Perchè il ragionamento che molti fanno è: «Che senso ha che io vada a votare, manifestando cosi' il mio totale dissenso, se poi quelli continuano a governare e a fare i loro comodi anche se li ha votati, poniamo, solo il 30 per cento dei cittadini?». E cosi' vanno a votare, turandosi montanellianamente il naso, per questo o per quello, pur sapendo che è del tutto inutile dato che l'uno vale l'altro perchè quella politica, con i suoi adentellati confindustriali, è l'unica vera classe rimasta su piazza di fronte a un indifferenziato ceto medio i cui componenti, vale a dire la maggioranza dei cittadini, sono trattati come sudditi, asini al basto che devono tirare la carretta per i piaceri e i profitti di lorsignori e pecore da tosare quando arriva un'emergenza che quegli stessi hanno causato, con la loro ignavia, con la loro mancanza di capacità previsionale – che dovrebbe essere la dote precipua di un politico – quando non con il malaffare, la corruzione, i loro abusi, i loro soprusi in salsa democratica. E son questi stessi che hanno distrutto la casa che ora pretendono di essere legittimati a ricostruirla invece di avere la decenza di farsi da parte, di sparire. La cosiddetta 'disaffezione per la politica' deriva, in gran parte, da questa impunita impudenza.

Quello che gli uomini politici non hanno capito, o piuttosto fanno finta di non capire, è che non siamo di fronte semplicemente alla impresentabilità di questo o quel personaggio dello 'star system' dirigenziale, sempre rimediabile sostituendolo, ma che quella che è in atto è una crisi di sistema, è una crisi del modello partitocratico, è una crisi, in definitiva, della democrazia rappresentativa che potrebbe portare molto lontano. Altro che gioire per il tonfo di Beppe Grillo.


di Massimo Fini 

04 giugno 2013

Il lavoro è finito: c'é bisogno di una nuova visione





  
   
Se dovessimo scegliere un termine, un unico termine, per definire in modo generale tutti i dibattiti che si svolgono a ogni latitudine attorno al tema lavoro, sceglieremmo "anacronismo".
Proprio in queste settimane iniziano i valzer delle dichiarazioni in merito al rilancio dell'occupazione, in attesa dell'annunciato vertice europeo che dovrebbe organizzare Angela Merkel verso la fine di luglio. È inevitabile che nella congiuntura attuale di enorme crisi recessiva che stiamo vivendo e che si ripercuote, sebbene con ovvie differenze, da Est a Ovest, all'interno del nostro modello di sviluppo sia l'argomento principale attorno al quale ruotano tutte le (vacue) proposte di questo o quel governo.


Ciò che ci si scorda perennemente, però, è un dato di fatto inerente la logica stessa della deriva che ha preso il mondo che conosciamo: il lavoro è finito. O quasi.
Lo schema generale che regge tutta l'impalcatura delle varie ipotesi per invertire la rotta dell'inesorabile declino del cosiddetto Occidente è sempre lo stesso: lavoro, produzione, consumo. Di merci e servizi. La logica interna è che ci sarà sempre bisogno di nuove merci e di nuovi servizi in modo che attraverso il consumo la macchina potrà continuare a marciare. E a crescere. Sappiamo bene, soprattutto i nostri lettori lo sanno e certamente lo hanno interiorizzato se leggono questo giornale e gli studiosi e giornalisti che in un verso o in un altro fanno parte della stessa area, che il criterio unico è sempre quello: crescere. All'infinito. Siccome ciò non è possibile, come dovrebbe essere ovvio per semplici motivi fisici, è evidente che tale strada non possa che condurre al fallimento. Che stiamo puntualmente, infatti, vivendo.
A fronte di questa lapalissiana considerazione, i sedicenti economisti hanno optato e continuano a proporre due comportamenti. Da un lato, semplicemente, non rispondono: non potendo offrire argomenti logici e pertinenti, bollano il tutto come una provocazione e basta, roba da non prendere sul serio, insomma. Dall'altro lato puntano sul fatto che, crescendo la popolazione mondiale, si potranno sempre trovare nuovi mercati per nuove esigenze anche quando, ma questo è implicito sebbene non dichiarato, ciò dovesse significare imporre anche con le armi alle persone di adottare tale modello. Gli esempi recenti e contemporanei non mancano.
Senonché non solo la storia si è premurata di smentirli, sebbene la cosa non gli abbia impedito di continuare imperterriti a tessere le lodi e a pontificare i salmi della propria dottrina, ma anche alcuni fenomeni della loro stessa disciplina, chiamiamola così, si sono, e da anni, incaricati di confermare le tesi opposte. Quelle, cioè, dei cosiddetti pessimisti. Il fatto che l'economia si sia trasformata strada facendo da elemento materiale a fenomeno immateriale, conferma indirettamente proprio la domanda iniziale: siccome dal punto di vista fisico non è più possibile crescere, per ottenere ancora i grafici positivi, e con punte sempre maggiori, il tutto si è trasformato in una soluzione virtuale, quella finanziaria.
Se una volta i dati di crescita dipendevano dal ciclo che abbiamo detto (produzione e consumo a ritmi crescenti), verificato che questo non poteva più avvenire ai ritmi di prima e che anzi il gioco era inesorabilmente destinato a rallentare, a regredire e alla fine a rompersi, gli squali della speculazione hanno virato decisamente verso la finanza. La pesantezza e le difficoltà della materia, cioè l'industria, sono state lasciate andando decisamente verso i bit, verso la "matematica". La natura ha posto i limiti, e allora si è scelto l'innaturale. Il virtuale.
Ciò, inevitabilmente, ha avuto le ripercussioni che tutti conosciamo, invece, nell'economia reale. Del resto, se una società per azioni cresce in Borsa nel momento in cui l'azienda che ne è alla base comunica di aver risparmiato milioni di euro riducendo la propria forza lavoro e mandando a casa qualche migliaio di dipendenti, non è che servano ulteriori conferme o spiegazioni.
In questo macro quadro, dunque, torniamo all'anacronismo del parlare di "lavoro". Beninteso, le varie parti in campo, nel momento in cui non "leggono", o non vogliono leggere, la realtà, altro non possono fare che continuare ad affrontare l'argomento con i medesimi criteri di sempre. Che non sono più validi.
Per dirla alla de Benoist, "vanno avanti guardando nello specchietto retrovisore". La destinazione, pertanto, è facile da prevedere.
Ora, è chiaro che di una certa materialità ci sarà sempre bisogno. È certo che in qualche misura ci sarà sempre bisogno di persone che producono qualcosa di materiale, e che dunque il ritorno a una certa soglia di occupazione debba tornare. Che si tratti del lavoro come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni oppure delle attività che facevano parte di un mondo certamente più sostenibile come era prima della rivoluzione industriale, la gente qualcosa tornerà a fare. Ma che ci si batta imperterriti per far tornare a produrre ai ritmi di una volta delle industrie che lavorano in ambiti merceologici di cui il mondo è ormai saturo, è operazione che porta dritti al fallimento e alla delusione.
Non va dimenticato, all'interno di un discorso generale sul "lavoro", che permangono in ogni caso sotto traccia, ma con incidenza crescente e non eludibile, i temi della crescita demografica e quelli dell'impoverimento delle risorse del pianeta nel quale viviamo. Come si vede, torniamo sempre alla materia, alla natura, a elementi misurabili e quantificabili. Reali e non virtuali: la popolazione mondiale non può continuare a crescere all'infinito e non possiamo continuare a depredare la terra così come abbiamo fatto sino a ora e a inquinarla con questi ritmi. Bazzecole, per i guru dell'economia e della crescita. Falsi allarmi, per chi punta unicamente sul ritorno al lavoro per come era negli anni anticrisi.
La realtà, ancora una volta, si premunirà di rimettere le cose a posto, nel senso che renderà evidente ancora una volta come in questo mondo fisico nel quale viviamo sia indispensabile tornare a fare i conti con la materia, e non con l'immateriale, per trovare una strada di convivenza tra gli uomini e tra questi e il luogo nel quale vivono.
Discorso differente è quello relativo ai servizi, alla crescita non materiale. Pensiamo a tutto il settore culturale. Invece di produrre oggetti, creare cultura. Conoscenza. Arte. E renderla disponibile a tutti. Lì il campo si può espandere moltissimo. E in pieno rispetto dei limiti fisici della terra. Posto che la produzione industriale debba necessariamente arrestarsi, se non addirittura regredire a ritmi e quantità più sostenibili, è negli altri ambiti che si può crescere. E creare occupazione. Lavorare fisicamente meno, dunque. Tutti, magari, ma solo per metà giornata. E il resto del tempo si possa passarlo a "consumare" cultura e arte. Si finisce di lavorare alle 13, e non per produrre nuove merci, magari per migliorare il funzionamento di quelle esistenti. Non per costruire nuovi palazzi, magari per restaurare quelli da ripristinare. E il pomeriggio si va ad ascoltare un concerto, una conferenza. O a vedere una esposizione. A 1 euro a biglietto. 
Una ipotesi, quest'ultima, che lasciamo volutamente abbozzata in modo superficiale. Ma che ha un criterio ben preciso: quello della sostenibilità. E una direzione parimenti auspicabile: quella della piena occupazione. Oltre, si sarà notato, una missione superiore ancora più piacevole: un mondo con meno merci, ma con più beni.
Non esiste altra strada perseguibile. Il resto sono chimere che hanno già dimostrato la loro fallacia.
La sintesi legata all'attualità è dunque semplice: chiunque, oggi, intenda affrontare le problematiche relative al lavoro, che si tratti di politici, di intellettuali, di sindacalisti o di industriali, ha due soli modi per operare: affrontare il tema alla luce dei punti cardine che abbiamo accennato oppure tacere. Tutte le altre saranno parole inutili, purtroppo, per tutte le persone che sono senza lavoro e che ne reclamano uno.

Valerio Lo Monaco

30 maggio 2013

Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri






  
   
Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui. 

Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi:  la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che  gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi  – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo?  Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley)  hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora  il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa.  Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare? 
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni. 
di Giulietto Chiesa

05 giugno 2013

Chi gode del tonfo di Grillo dovrebbe invece preoccuparsi della disaffezione degli elettori




   

I partiti, e i media loro legati, ritengono che il tonfo del movimento 5Stelle compensi, in qualche modo, l'impressionante fenomeno dell'astensionismo (più di un cittadino su tre a livello nazionale, uno su due a Roma) e ne gioiscono, perchè vedono, o vedevano, in Grillo il 'pericolo pubblico numero uno' che minava il sistema, il loro tranquillo ed eterno ruminar il potere, magari mascherato, opportunamente, con qualche lifting di facciata per rendersi, almeno esteticamente, più presentabili a un'opinione pubblica ribollente.

Si sbagliano. All'indomani delle elezioni politiche di febbraio scrivevo che i partiti avrebbero dovuto ringraziare Grillo invece di demonizzarlo. Per due motivi. Perchè il movimento 5Stelle mascherava un'astensione che, senza la sua presenza, avrebbe raggiunto già allora il 50% (il 25% degli astensionisti propriamente detti più il 25,6 degli elettori che avevano votato Grillo e che, senza di lui, avrebbero disertato le urne). Col 75% di votanti il sistema manteneva la sua legittimità. In secondo luogo il movimento 5Stelle, che è antisistema, rivoluzionario, ma pacifico, canalizzava, istituzionalizzava, innocuizzava una rabbia sociale che potrebbe esplodere, in forme violente, da un momento all'altro. L'astensione, per il sistema dei partiti, è molto più insidiosa. Perchè non è controllabile, non ha una faccia, non è individuabile. Inoltre pone un problema di legittimità democratica. Partiamo da Roma. Che legittimità, che credibilità, puo' avere un sindaco che, nella migliore delle ipotesi, rappresenta il 40% del 50% dei suoi cittadini? La questione diventa ancora più cogente a livello nazionale. Secondo il Barometro politico dell'istituto Demopolis se si andasse a votare domani per le politiche l'astensione crescerebbe di un altro 7% raggiungendo quasi la metà degli elettori. E io sono convinto che se esistesse, come per i referendum, un quorum al di sotto del quale le elezioni non sono valide l'astensione salirebbe ulteriormente. Perchè il ragionamento che molti fanno è: «Che senso ha che io vada a votare, manifestando cosi' il mio totale dissenso, se poi quelli continuano a governare e a fare i loro comodi anche se li ha votati, poniamo, solo il 30 per cento dei cittadini?». E cosi' vanno a votare, turandosi montanellianamente il naso, per questo o per quello, pur sapendo che è del tutto inutile dato che l'uno vale l'altro perchè quella politica, con i suoi adentellati confindustriali, è l'unica vera classe rimasta su piazza di fronte a un indifferenziato ceto medio i cui componenti, vale a dire la maggioranza dei cittadini, sono trattati come sudditi, asini al basto che devono tirare la carretta per i piaceri e i profitti di lorsignori e pecore da tosare quando arriva un'emergenza che quegli stessi hanno causato, con la loro ignavia, con la loro mancanza di capacità previsionale – che dovrebbe essere la dote precipua di un politico – quando non con il malaffare, la corruzione, i loro abusi, i loro soprusi in salsa democratica. E son questi stessi che hanno distrutto la casa che ora pretendono di essere legittimati a ricostruirla invece di avere la decenza di farsi da parte, di sparire. La cosiddetta 'disaffezione per la politica' deriva, in gran parte, da questa impunita impudenza.

Quello che gli uomini politici non hanno capito, o piuttosto fanno finta di non capire, è che non siamo di fronte semplicemente alla impresentabilità di questo o quel personaggio dello 'star system' dirigenziale, sempre rimediabile sostituendolo, ma che quella che è in atto è una crisi di sistema, è una crisi del modello partitocratico, è una crisi, in definitiva, della democrazia rappresentativa che potrebbe portare molto lontano. Altro che gioire per il tonfo di Beppe Grillo.


di Massimo Fini 

04 giugno 2013

Il lavoro è finito: c'é bisogno di una nuova visione





  
   
Se dovessimo scegliere un termine, un unico termine, per definire in modo generale tutti i dibattiti che si svolgono a ogni latitudine attorno al tema lavoro, sceglieremmo "anacronismo".
Proprio in queste settimane iniziano i valzer delle dichiarazioni in merito al rilancio dell'occupazione, in attesa dell'annunciato vertice europeo che dovrebbe organizzare Angela Merkel verso la fine di luglio. È inevitabile che nella congiuntura attuale di enorme crisi recessiva che stiamo vivendo e che si ripercuote, sebbene con ovvie differenze, da Est a Ovest, all'interno del nostro modello di sviluppo sia l'argomento principale attorno al quale ruotano tutte le (vacue) proposte di questo o quel governo.


Ciò che ci si scorda perennemente, però, è un dato di fatto inerente la logica stessa della deriva che ha preso il mondo che conosciamo: il lavoro è finito. O quasi.
Lo schema generale che regge tutta l'impalcatura delle varie ipotesi per invertire la rotta dell'inesorabile declino del cosiddetto Occidente è sempre lo stesso: lavoro, produzione, consumo. Di merci e servizi. La logica interna è che ci sarà sempre bisogno di nuove merci e di nuovi servizi in modo che attraverso il consumo la macchina potrà continuare a marciare. E a crescere. Sappiamo bene, soprattutto i nostri lettori lo sanno e certamente lo hanno interiorizzato se leggono questo giornale e gli studiosi e giornalisti che in un verso o in un altro fanno parte della stessa area, che il criterio unico è sempre quello: crescere. All'infinito. Siccome ciò non è possibile, come dovrebbe essere ovvio per semplici motivi fisici, è evidente che tale strada non possa che condurre al fallimento. Che stiamo puntualmente, infatti, vivendo.
A fronte di questa lapalissiana considerazione, i sedicenti economisti hanno optato e continuano a proporre due comportamenti. Da un lato, semplicemente, non rispondono: non potendo offrire argomenti logici e pertinenti, bollano il tutto come una provocazione e basta, roba da non prendere sul serio, insomma. Dall'altro lato puntano sul fatto che, crescendo la popolazione mondiale, si potranno sempre trovare nuovi mercati per nuove esigenze anche quando, ma questo è implicito sebbene non dichiarato, ciò dovesse significare imporre anche con le armi alle persone di adottare tale modello. Gli esempi recenti e contemporanei non mancano.
Senonché non solo la storia si è premurata di smentirli, sebbene la cosa non gli abbia impedito di continuare imperterriti a tessere le lodi e a pontificare i salmi della propria dottrina, ma anche alcuni fenomeni della loro stessa disciplina, chiamiamola così, si sono, e da anni, incaricati di confermare le tesi opposte. Quelle, cioè, dei cosiddetti pessimisti. Il fatto che l'economia si sia trasformata strada facendo da elemento materiale a fenomeno immateriale, conferma indirettamente proprio la domanda iniziale: siccome dal punto di vista fisico non è più possibile crescere, per ottenere ancora i grafici positivi, e con punte sempre maggiori, il tutto si è trasformato in una soluzione virtuale, quella finanziaria.
Se una volta i dati di crescita dipendevano dal ciclo che abbiamo detto (produzione e consumo a ritmi crescenti), verificato che questo non poteva più avvenire ai ritmi di prima e che anzi il gioco era inesorabilmente destinato a rallentare, a regredire e alla fine a rompersi, gli squali della speculazione hanno virato decisamente verso la finanza. La pesantezza e le difficoltà della materia, cioè l'industria, sono state lasciate andando decisamente verso i bit, verso la "matematica". La natura ha posto i limiti, e allora si è scelto l'innaturale. Il virtuale.
Ciò, inevitabilmente, ha avuto le ripercussioni che tutti conosciamo, invece, nell'economia reale. Del resto, se una società per azioni cresce in Borsa nel momento in cui l'azienda che ne è alla base comunica di aver risparmiato milioni di euro riducendo la propria forza lavoro e mandando a casa qualche migliaio di dipendenti, non è che servano ulteriori conferme o spiegazioni.
In questo macro quadro, dunque, torniamo all'anacronismo del parlare di "lavoro". Beninteso, le varie parti in campo, nel momento in cui non "leggono", o non vogliono leggere, la realtà, altro non possono fare che continuare ad affrontare l'argomento con i medesimi criteri di sempre. Che non sono più validi.
Per dirla alla de Benoist, "vanno avanti guardando nello specchietto retrovisore". La destinazione, pertanto, è facile da prevedere.
Ora, è chiaro che di una certa materialità ci sarà sempre bisogno. È certo che in qualche misura ci sarà sempre bisogno di persone che producono qualcosa di materiale, e che dunque il ritorno a una certa soglia di occupazione debba tornare. Che si tratti del lavoro come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni oppure delle attività che facevano parte di un mondo certamente più sostenibile come era prima della rivoluzione industriale, la gente qualcosa tornerà a fare. Ma che ci si batta imperterriti per far tornare a produrre ai ritmi di una volta delle industrie che lavorano in ambiti merceologici di cui il mondo è ormai saturo, è operazione che porta dritti al fallimento e alla delusione.
Non va dimenticato, all'interno di un discorso generale sul "lavoro", che permangono in ogni caso sotto traccia, ma con incidenza crescente e non eludibile, i temi della crescita demografica e quelli dell'impoverimento delle risorse del pianeta nel quale viviamo. Come si vede, torniamo sempre alla materia, alla natura, a elementi misurabili e quantificabili. Reali e non virtuali: la popolazione mondiale non può continuare a crescere all'infinito e non possiamo continuare a depredare la terra così come abbiamo fatto sino a ora e a inquinarla con questi ritmi. Bazzecole, per i guru dell'economia e della crescita. Falsi allarmi, per chi punta unicamente sul ritorno al lavoro per come era negli anni anticrisi.
La realtà, ancora una volta, si premunirà di rimettere le cose a posto, nel senso che renderà evidente ancora una volta come in questo mondo fisico nel quale viviamo sia indispensabile tornare a fare i conti con la materia, e non con l'immateriale, per trovare una strada di convivenza tra gli uomini e tra questi e il luogo nel quale vivono.
Discorso differente è quello relativo ai servizi, alla crescita non materiale. Pensiamo a tutto il settore culturale. Invece di produrre oggetti, creare cultura. Conoscenza. Arte. E renderla disponibile a tutti. Lì il campo si può espandere moltissimo. E in pieno rispetto dei limiti fisici della terra. Posto che la produzione industriale debba necessariamente arrestarsi, se non addirittura regredire a ritmi e quantità più sostenibili, è negli altri ambiti che si può crescere. E creare occupazione. Lavorare fisicamente meno, dunque. Tutti, magari, ma solo per metà giornata. E il resto del tempo si possa passarlo a "consumare" cultura e arte. Si finisce di lavorare alle 13, e non per produrre nuove merci, magari per migliorare il funzionamento di quelle esistenti. Non per costruire nuovi palazzi, magari per restaurare quelli da ripristinare. E il pomeriggio si va ad ascoltare un concerto, una conferenza. O a vedere una esposizione. A 1 euro a biglietto. 
Una ipotesi, quest'ultima, che lasciamo volutamente abbozzata in modo superficiale. Ma che ha un criterio ben preciso: quello della sostenibilità. E una direzione parimenti auspicabile: quella della piena occupazione. Oltre, si sarà notato, una missione superiore ancora più piacevole: un mondo con meno merci, ma con più beni.
Non esiste altra strada perseguibile. Il resto sono chimere che hanno già dimostrato la loro fallacia.
La sintesi legata all'attualità è dunque semplice: chiunque, oggi, intenda affrontare le problematiche relative al lavoro, che si tratti di politici, di intellettuali, di sindacalisti o di industriali, ha due soli modi per operare: affrontare il tema alla luce dei punti cardine che abbiamo accennato oppure tacere. Tutte le altre saranno parole inutili, purtroppo, per tutte le persone che sono senza lavoro e che ne reclamano uno.

Valerio Lo Monaco

30 maggio 2013

Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri






  
   
Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui. 

Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi:  la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che  gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi  – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo?  Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley)  hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora  il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa.  Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare? 
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni. 
di Giulietto Chiesa