12 luglio 2013

Quando il golpe non dispiace



  

La "popolarità" del gesto tirannico (o del golpe militare)  è una giustificazione ammissibile  per la violenza alla democrazia? La simpatia  dei giornali italiani per chi ha cacciato i fratelli musulmani dal potere in Egitto è un brutto segnale anche per il nostro paese. Il manifesto, 7 luglio 2013

Non c'è solo la vicenda del diktat del Consiglio supremo di difesa italiano al parlamento sugli F35 a richiamare un nostrano clima egiziano. C'è anche il modo con cui i media democratici e indipendenti stanno raccontando il golpe al Cairo. Dalle colonne del Corriere della sera al Tg3, fino a Rainews 24, è una gara a negare e nascondere che di colpo di stato militare si tratta. La spiegazione data è inquietante. Il colpo di stato dei militari egiziani guidati dal generale-ministro della difesa Al Sisi sarebbe infatti «popolare», perché applaudito da folle oceaniche giubilanti. 

L'informazione libera e la sensibilità della sinistra si sono formate, fra l'altro, in questo paese proprio sulla denuncia dei tentativi di colpo di stato, dei vari «rumor di sciabole», di quella ingerenza violenta e stragista più volte tentata per sconvolgere l'assetto della democrazia costituzionale su mandato della "piazza" rumorosa o della maggioranza silenziosa di turno. 

Perché questa sensibilità ora dovrebbe ancora valere per l'Italia e non invece per un grande paese arabo come l'Egitto? Visto che il presidente Morsi e il suo partito, i Fratelli musulmani, hanno vinto solo un anno fa democratiche elezioni alla fine convalidate, nonostante denunce di brogli, dagli osservatori internazionali e dalle Nazioni unite? Non è vero, come sostengono a Rainews 24, che per Morsi - alle prese fra l'altro con un dopo-Mubarak di miseria e di imposizioni del Fmi - si è trattato di «29 mesi di incapacità politica»: i mesi sono dodici. Fermo restando il giudizio negativo per le sue gravi responsabilità, per esempio nell'incapacità di rappresentare le trasformazioni sociali in corso nella nuova Costituzione, ancorato com'è ad una visione islamo-centrica, Morsi è stato eletto il 30 giugno del 2012. E allora quanti golpe militari dovremmo augurarci in Italia, contro i governi fallimentari che si susseguono ad esecutivi coalizzati e nemmeno eletti, inconcludenti e per tempi perfino più ridotti? Vogliamo i colonnelli?

Ma il golpe in Egitto, sostiene Antonio Ferrari nel suo editoriale di ieri sulCorriere della Sera, «è popolare». Era forse meno «popolare» quello in Cile del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre 1973, quando assunse il potere, ben coordinato dalla Cia, per rispondere - sosteneva - «alle richieste del popolo», quella classe media che da mesi scendeva in piazza contro il governo di sinistra di Allende democraticamente eletto, con proteste oceaniche e rumorose di piazza, mentre i camionisti bloccavano il paese e i commercianti serravano i negozi impedendo gli approvvigionamenti, e i soldati si pronunciavano nelle caserme?

Forse in queste posizioni c'è qualcosa di più di una semplice adesione alla superficialità dominante nell'epoca del lettismo-berlusconismo. C'è, ed è grave, una piena complicità con il silenzio-assenso che sul golpe egiziano viene da Washington. Cioè da molto vicino, visto il rapporto subalterno padrone-servo che gli Stati uniti hanno assegnato all'esercito egiziano, sotto Mubarak, con Morsi e in questi giorni. Mentre il golpe era in corso e le agenzie e i giornali di tutto il mondo titolavano semplicemente quello che era sotto gli occhi di tutti «colpo di stato militare in Egitto», dal Dipartimento di Stato Usa arrivava una specie di bofonchio da tre scimmiette che non vedono, non parlano, non sentono: «Non ci risulta...», è stata la frase lapidaria. Fino alle verità della dichiarazione illuminante di Obama di ieri: «...Si ripristini al più presto il processo democratico». Non pare di ricordare che la necessità dei colpi di stato militari facesse parte del Discorso del Cairo di Obama nel 2009.

Il fatto è che gli Stati uniti hanno da poco staccato l'assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l'esercito, il suo ruolo e le sue istituzioni; soldi ben spesi a quanto pare, che fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno stato nello stato che «se si muove - dice lo scrittore Aswani - lo fa solo per difendere i propri interessi». Un ruolo che è inevitabilmente destinato a confliggere con gli interessi dei settori laici, dei ribelli e dello stesso El Baradei che ora plaudono. Anche grazie a questo controllo, gli Stati uniti hanno condizionato la presidenza Morsi, impegnandola nella continuità dei trattati di pace con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell'Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Tra le colpe di Morsi c'è anche l'avere accettato questo condizionamento.

Ultima considerazione, come ricordava Gian Paolo Calchi Novati: è già accaduto che ad una affermazione elettorale dell'islamismo politico si sia risposto con un golpe militare o con il violento boicottaggio internazionale, nel 1992 con la vittoria del Fis in Algeria e nel 2006 con quella di Hamas in tutta la Palestina (non solo a Gaza, anche in Cisgiordania). Il risultato di questi interventi ha sconvolto il Medio Oriente e il mondo, allargando le ferite delle sue crisi.

di Tommaso Di Francesco 

10 luglio 2013

Quanto denaro serve?





Siamo abituati ad ascoltare molte critiche all’idea di crescita dal punto di vista ecologico ed economico. Secondo Robert e Edward Skidelsky , autori del libro “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”vsi tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso”.


Siamo abituati ad ascoltare molte critiche alla crescita e allo sviluppo economico (come bene in sé, come “fine senza fine”) che provengono da considerazioni d’ordine scientifico circa l’insostenibilità degli impatti ambientali sugli ecosistemi naturali (il riscaldamento globale antropogenico, la perdita di biodiversità e via dicendo), oppure d’ordine politico-morale circa le insopportabili ingiustizie nella distribuzione dei benefici sociali ricavati dal sistema produttivo globalizzato.
Non che queste non siano considerazioni drammaticamente vere, ma secondo Robert e Edward Skidelsky  – “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”, Mondadori, 2013, pp. 305, Euro 17,50 -  si tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso” [p.15] e un “progresso senza scopo” [p.62]. Inoltregli argomenti che potremmo definire di tipo eco-socialista non riescono a “presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza” [p.167]. Serve quindi recuperare una “visione dello scopo della ricchezza” [p.287] a partire da una idea di “vita buona” (attingendo senza vergogna anche dal pensiero preillumistico e premoderno) ben diversa da quella su cui si fonda il capitalismo, che fa dipendere la stessa “felicità” dalla accumulazione e dal possesso di denaro da giocare sulla sfera dei consumi.
A dirci queste cose sono un economista, Robert Skidelsky, uno dei massimi conoscitori di J.M. Keynes, e suo figlio Edward, filosofo, che insegnano nelle università inglesi. Hanno messo assieme le loro discipline perché pensano che “abbiano bisogno l’una dell’altra” e perché dichiarano di voler “ridare slancio alla vecchia idea dell’economia come scienza morale” [p.13]. Una impresa non da poco se si pensa che tutta la “scienza economica” moderna, per dirla con Gilbert Rist, ha mirato a creare una “ethics-free zone”, dove, cioè, le preferenze del consumatore (quanto un individuo è disposto a pagare per ottenere una merce) vengono considerate una manifestazione insindacabile di libertà e la molla stessa del progresso. Per riuscire a incrinare simili trionfanti credenze liberiste (“l’economia è la teologia della nostra era” [p.124]), evitando di cadere sotto i colpi dei pensatori liberali e “neutralisti”, secondo i quali ogni prospettiva etica è manifestazione di oscurantismo, neo-medievalismo, dispotismo e via di seguito, i nostri autori hanno dovuto ricostruire le fonti prime del pensiero economico; da Aristotele ai giorni nostri, passando per le grandi religioni e i grandi pensatori John Locke, Bernard Mandeville, Carl Marx, John Kenneth Galbrait e, soprattutto, Keynes. Il libro degli Skidelsky infatti non è un trattato asettico sulla storia delle teorie economiche. Interviene a cuore aperto sul principale paradosso irrisolto del nostro tempo, che Keynes, come Gandhi e moltissimi altri attenti osservatori, avevano ben presente: come può essere accettabile che nel mondo vi siano le condizioni, le conoscenze e le risorse materiarli per poter estendere a tutti una “vita buona” ed invece miseria, violenza e disparità intollerabili continuano a caratterizzare le nostre società?
Gli Skidelsky vogliono indagare “sulle ragioni del fallimento della profezia di Keynes”, che, come noto, calcolava, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, pubblicato nel 1930, che nel giro di cento anni, lo sviluppo tecnologico avrebbe consentito di raggiungere un livello di “abbondanza” tale da soddisfare le necessità di base (vitto, alloggio, vestiario, salute, istruzione…) impegnando ogni abitante della Terra a lavorare non più di tre ore al giorno. Se pensiamo che spostando solo una quota parte delle spese militari (ad esempio) sarebbe possibile risolvere domani mattina il problema della fame e della sete del mondo, è evidente che l’errore di Keynes non sta nell’aver sopravalutato l’enorme aumento delle capacità produttive che si è davvero verificato dal secondo dopoguerra. Nemmeno la cattiva distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza è la ragione primaria della mancata realizzazione dell’utopia keynesiana (si pensi ai tragici fallimenti dei tentativi di pianificazione centralizzate). Il difetto deve essere ricercato ancora più in profondità, nel non aver capito che il sistema economico e sociale capitalista ha eretto a proprio fondamento la “disposizione psicologica all’insaziabilità” propria del “tipo umano medio”. Secondo i nostri autori: “Il capitalismo è un’arma a doppio taglio: da un lato ha reso possibili grandi miglioramenti delle condizioni materiali dell’esistenza, dall’altro ha esaltato alcune delle caratteristiche umane più deplorevoli, come l’avidità, l’invidia e l’avarizia” [p.10]. In altri termini: “un’economia competitiva monetizzata esercita su di noi continue pressioni a voler sempre di più” [p.23]. E ancora: “il capitalismo si fonda sulla inesauribile crescita dei bisogni” [p.94]. Nella nostra società non è possibile separare “bisogni assoluti” predeterminabili e “bisogni relativi” inesauribili. “I bisogni non conoscono limiti naturali, possono espandersi all’infinito almeno che non li conteniamo in maniera consapevole (…) La consapevolezza di avere quanto basta” [p.95]. Se le cose stanno così, allora è evidente che il raggiungimento dell’“età dell’abbondanza” pronosticata da Keynes verrà continuamente posticipata, travolta nel vortice della spirale produzione-consumo.
Come uscirne? Tornando a chiederci “cosa vogliamo dalla vita”. Quali sono i requisiti oggettivi di una buona e comoda vita. Scopriremmo allora che non di merci da comprare al supermercato si tratta, ma di “beni primari fondamentali” non commercializzabili, non quantificabili in termini monetari. Gli Skidelski ne propongono sette: la salute, la sicurezza, il rispetto, l’amicizia (rapporti di fiducia e relazioni affettive), la personalità (la capacità di realizzare progetti di vita autonomi), l’armonia con la natura, il tempo libero (l’attività volontaria autogestita e condivisa).Come si vede si tratta di beni del corpo, della mente e delle relazioni, costitutivi dell’umano, che “non escludono l’altro, ma lo includono” (Luigi Lombardi Vallauri in La Società dei beni comuni, Ediesse, 2010).

In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale. Che queste cose comincino a dircele degli economisti che non hanno letto Latouche e nemmeno Gilbert Rist, confermano che la crisi di sistema in corso sta aprendo profonde crepe nelle teorie economiche dominanti.
di Paolo Cacciari 

09 luglio 2013

Letta: l'esultanza e la realtà






Le vittorie di Letta sono quantitativamente insignificanti e servono a non parlare dei vizi strutturali macroeconomici dell’Eurosistema
Letta esulta. Dal potere europeo ha ottenuto 1,5 miliardi la settimana scorsa, spendibili in 2 anni dal prossimo gennaio; e ieri altri 7 miliardi in cofinanziamento, cioè 3,5 messi dall’Italia e 3,5 messi dall’UE, però con soldi dei contributi italiani, grazie a una deroga al plafond del 3% di disavanzo pubblico.
Sostanzialmente si tratta, quindi In tutto, cioè, per il 2014, dell’autorizzazione a spendere soldi quasi tutti nostri per un importo di circa 7,75 miliardi, pari a meno dell’1% della spesa pubblica complessiva, a meno dello 0,5% del pil, a meno del 50% da meno del 20% di quanto l’Italia ha versato nel MES, a meno del 3% dei capitali italiani fuggiti all’estero sotto l’azione del governo Monti,  a circa lo 0,7% della svalutazione del patrimonio immobiliare nazionale durante governo Monti, a circa il 25% del calo del pil previsto per quest’anno. Ma Letta esulta e nei sondaggi cresce: l’impatto psicologico è soggettivo e non risponde ai numeri oggettivi. E opera sull’immediato, non tenendo conto delle scadenze di autunno: ammortizzatori sociali, F35, ondata di licenziamenti, legge di bilancio, etc.
Altro dato socio-psicologico: governo e mass media codificano simili successi in questi termini: siamo stati obbedienti al modello economico-finanziario dominante  e alla conseguenti prescrizioni dell’Autorità, quindi il potere effettivo ci premia permettendoci di spendere di più (dei nostri soldi) e dandoci da spendere un po’ di soldi suoi (una piccola parte quelli che le avevamo versato noi). Una visione, quindi, paternalistica, nella quale vi è appunto un’Autorità ontologicamente nel vero e nel giusto, ontologicamente legittimata, che ci insegna come funziona l’economia, che ci dice come dobbiamo fare, che ci punisce se non obbediamo, che ci premia se obbediamo (compiti a casa) – peraltro  il premio consiste nel lasciarsi usare i soldi nostri o nel renderci un po’ di quelli che le abbiamo dati. In questa visione, di tipo autoritario, antiscientifico e dogmatico, non è previsto che si verifichi se il modello economico-finanziario adottato sia stato confermato o smentito dai fatti e se e le ricette prescritte abbiano avuto gli effetti promessi oppure siano state smentite. Quello che conta è il rapporto di approvazione-disapprovazione con l’Autorità, non di successo-insuccesso con la realtà.
La visione scientifica e laica è opposta: non esiste alcuna Autorità a priori (al di sopra dei fatti), invece si mettono a confronto i diversi modelli economico-finanziari delle diverse scuole, e si controlla, nel breve, medio e lungo periodo, le conferme e le smentite che i dati di fatto hanno dato a ciascun modello. Al medesimo modo,  si prende il sistema finanziario adottato nell’Eurozona con le sue regole e policies, e si controlla che effetti ha avuto nella realtà sui vari paesi e sui vari comparti, in termini di andamento e tendenza del pil, del debito, di occupazione, di domanda, di investimenti, di bilance commerciali, di convergenza tra i sistemi-paese, etc., e si accerta se e quanto funziona, chi avvantaggi, chi svantaggia, se è sostenibile, etc. Se non ha funzionato, se ha causato danni, tendenze nocive, maggiori divergenze, allora obbedirgli è stupido, va cambiato o abbandonato.
L’adozione dell’Eurosistema, ossia di un sistema di cambi fissi tra i paesi aderenti, mantenendo separati i loro debiti pubblici e stabilendo che questi dovessero essere finanziati sui mercati speculativi globali, territorio di caccia di pochi grandi gruppi privati sovranazionali, che li manipolano, poneva un problema ovvio e gigantesco: come compensare gli sbilanci delle partite correnti tra i paesi membri, dato che i meno efficienti avrebbero importato di più ed esportato di meno, finendo per indebitarsi verso quelli più efficienti, cioè finendo per dover pagare loro flussi di interessi notevoli,  il che avrebbe peggiorato ulteriormente la loro efficienza e competitività, in un avvitamento letale – che è ciò che stiamo vivendo in Italia. Oltre al fatto che i paesi debitori non hanno potere negoziale, il quale invece si concentra in mano ai paesi creditori, dando così a questi l’egemonia sulle strutture comuni e il modo di usarle sempre più nel proprio interesse a spese dei paesi debitori.
Nella federazione nordamericana, cioè negli USA, questo problema è stato risolto grazie a un unico bilancio federale, a un debito pubblico unico e comune di tutti gli Stati federati, e a un’autorità centrale che trasferisce gli attivi, gli avanzi, del commercio intestate dagli Stati in attivo a quelli in passivo, attraverso la spesa pubblica, e impedisce il default dei singoli Stati.
In Europa ciò è mancato, non è stato fatto, ed è il più importante dei difetti, la causa primaria del malandare. E ovviamente non se ne parla all’opinione pubblica. E non si fa nulla per  correggerlo nelle sedi europee. Letta esulta, ma non dice che, sul piano macro, non vi è stata, per compensare gli squilibri delle partite correnti entro l’eurozona, l’ammissione dell’interdipendenza organica tra gli euro-paesi con  l’istituzione di un euro ministero federale delle finanze che compensasse gli squilibri imponendo ai paesi con notevole e strutturale avanzo di reinvestirlo, in parte, nei paesi con disavanzo, e di neutralizzarlo, in parte, mediante l’aumento della domanda interna.  Vi è stata, invece, la diabolica scelta  - diabolica perché divisiva, contrapponente – da parte della Commissione europea, di stabilire che sono accettabili (e non si deve intervenire) disavanzi delle partite correnti  fino al 4%, ma surplus fino al 6%! Così la Germania è stata in reagola mentre, anno dopo anno, comprimendo i salari e la spesa pubblica, accumulava avanzi su avanzi, crediti su crediti, negli scambi intra-euro, con pari accumularsi di disavanzi e debiti e maggiori interessi passivi a crico dei paesi periferici, fino agli attuali scompensi critici.
In Europa vi è stata, conseguentemente al rifiuto di riconoscere l’interdipendenza economico-finanziaria, l’imposizione del principio “ciascuno per sé faccia i compiti a casa”, ossia che chi è in disavanzo di partite correnti debba e possa pareggiare (procurarsi denaro) solo offrendo alti tassi e tagliando i salari per competere nelle esportazioni, mentre i paesi già competitivi aumentano la loro competitività grazie all’afflusso dei capitali in fuga  dal fisco e dall’instabilità e dalla recessione dei paesi deboli, e al conseguente minor costo del denaro .  E ciò ha diminuito e sta diminuendo sempre più la competitività del sistema-paese Italia, perché genera una spirale negativa, implosiva,  di tassi-tasse-tagli-decrescita-deflusso dei capitali-demonetazione-credit crunch-insolvenze.  Mentre aumenta l’indebitamento dell’Italia e degli altri paesi periferici verso i paesi euroforti.  Nonché l’emigrazione nella medesima direzione oltre che verso altri paesi extra-euro che si difendono grazie al mantenimento di una certa autosufficienza monetaria, come Regno Unito, USA, Giappone, Cina.
E di questo perverso meccanismo macro BCE, Commissione, FMI.  il governo e i partiti non vogliono proprio parlare né che si parli. Il fatto che il governone Letta non apra questa discussione, che è quella che conta, in sede europea, ma si accontenti di più flessibilità e di qualche premio di buona condotta da parte dell’Autorità europea, lo palesa quale inutile arca di Noè della partitocrazia parassitaria la quale, pur essendo causa essenziale del male nazionale, continua a millantarsi, all’interno, come soluzione di quel male per non mollare colli e poltrone. E a offrirsi, all’esterno, come garante degli interessi del capitalismo straniero sul nostro paese.
di Marco Della Luna 

12 luglio 2013

Quando il golpe non dispiace



  

La "popolarità" del gesto tirannico (o del golpe militare)  è una giustificazione ammissibile  per la violenza alla democrazia? La simpatia  dei giornali italiani per chi ha cacciato i fratelli musulmani dal potere in Egitto è un brutto segnale anche per il nostro paese. Il manifesto, 7 luglio 2013

Non c'è solo la vicenda del diktat del Consiglio supremo di difesa italiano al parlamento sugli F35 a richiamare un nostrano clima egiziano. C'è anche il modo con cui i media democratici e indipendenti stanno raccontando il golpe al Cairo. Dalle colonne del Corriere della sera al Tg3, fino a Rainews 24, è una gara a negare e nascondere che di colpo di stato militare si tratta. La spiegazione data è inquietante. Il colpo di stato dei militari egiziani guidati dal generale-ministro della difesa Al Sisi sarebbe infatti «popolare», perché applaudito da folle oceaniche giubilanti. 

L'informazione libera e la sensibilità della sinistra si sono formate, fra l'altro, in questo paese proprio sulla denuncia dei tentativi di colpo di stato, dei vari «rumor di sciabole», di quella ingerenza violenta e stragista più volte tentata per sconvolgere l'assetto della democrazia costituzionale su mandato della "piazza" rumorosa o della maggioranza silenziosa di turno. 

Perché questa sensibilità ora dovrebbe ancora valere per l'Italia e non invece per un grande paese arabo come l'Egitto? Visto che il presidente Morsi e il suo partito, i Fratelli musulmani, hanno vinto solo un anno fa democratiche elezioni alla fine convalidate, nonostante denunce di brogli, dagli osservatori internazionali e dalle Nazioni unite? Non è vero, come sostengono a Rainews 24, che per Morsi - alle prese fra l'altro con un dopo-Mubarak di miseria e di imposizioni del Fmi - si è trattato di «29 mesi di incapacità politica»: i mesi sono dodici. Fermo restando il giudizio negativo per le sue gravi responsabilità, per esempio nell'incapacità di rappresentare le trasformazioni sociali in corso nella nuova Costituzione, ancorato com'è ad una visione islamo-centrica, Morsi è stato eletto il 30 giugno del 2012. E allora quanti golpe militari dovremmo augurarci in Italia, contro i governi fallimentari che si susseguono ad esecutivi coalizzati e nemmeno eletti, inconcludenti e per tempi perfino più ridotti? Vogliamo i colonnelli?

Ma il golpe in Egitto, sostiene Antonio Ferrari nel suo editoriale di ieri sulCorriere della Sera, «è popolare». Era forse meno «popolare» quello in Cile del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre 1973, quando assunse il potere, ben coordinato dalla Cia, per rispondere - sosteneva - «alle richieste del popolo», quella classe media che da mesi scendeva in piazza contro il governo di sinistra di Allende democraticamente eletto, con proteste oceaniche e rumorose di piazza, mentre i camionisti bloccavano il paese e i commercianti serravano i negozi impedendo gli approvvigionamenti, e i soldati si pronunciavano nelle caserme?

Forse in queste posizioni c'è qualcosa di più di una semplice adesione alla superficialità dominante nell'epoca del lettismo-berlusconismo. C'è, ed è grave, una piena complicità con il silenzio-assenso che sul golpe egiziano viene da Washington. Cioè da molto vicino, visto il rapporto subalterno padrone-servo che gli Stati uniti hanno assegnato all'esercito egiziano, sotto Mubarak, con Morsi e in questi giorni. Mentre il golpe era in corso e le agenzie e i giornali di tutto il mondo titolavano semplicemente quello che era sotto gli occhi di tutti «colpo di stato militare in Egitto», dal Dipartimento di Stato Usa arrivava una specie di bofonchio da tre scimmiette che non vedono, non parlano, non sentono: «Non ci risulta...», è stata la frase lapidaria. Fino alle verità della dichiarazione illuminante di Obama di ieri: «...Si ripristini al più presto il processo democratico». Non pare di ricordare che la necessità dei colpi di stato militari facesse parte del Discorso del Cairo di Obama nel 2009.

Il fatto è che gli Stati uniti hanno da poco staccato l'assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l'esercito, il suo ruolo e le sue istituzioni; soldi ben spesi a quanto pare, che fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno stato nello stato che «se si muove - dice lo scrittore Aswani - lo fa solo per difendere i propri interessi». Un ruolo che è inevitabilmente destinato a confliggere con gli interessi dei settori laici, dei ribelli e dello stesso El Baradei che ora plaudono. Anche grazie a questo controllo, gli Stati uniti hanno condizionato la presidenza Morsi, impegnandola nella continuità dei trattati di pace con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell'Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Tra le colpe di Morsi c'è anche l'avere accettato questo condizionamento.

Ultima considerazione, come ricordava Gian Paolo Calchi Novati: è già accaduto che ad una affermazione elettorale dell'islamismo politico si sia risposto con un golpe militare o con il violento boicottaggio internazionale, nel 1992 con la vittoria del Fis in Algeria e nel 2006 con quella di Hamas in tutta la Palestina (non solo a Gaza, anche in Cisgiordania). Il risultato di questi interventi ha sconvolto il Medio Oriente e il mondo, allargando le ferite delle sue crisi.

di Tommaso Di Francesco 

10 luglio 2013

Quanto denaro serve?





Siamo abituati ad ascoltare molte critiche all’idea di crescita dal punto di vista ecologico ed economico. Secondo Robert e Edward Skidelsky , autori del libro “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”vsi tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso”.


Siamo abituati ad ascoltare molte critiche alla crescita e allo sviluppo economico (come bene in sé, come “fine senza fine”) che provengono da considerazioni d’ordine scientifico circa l’insostenibilità degli impatti ambientali sugli ecosistemi naturali (il riscaldamento globale antropogenico, la perdita di biodiversità e via dicendo), oppure d’ordine politico-morale circa le insopportabili ingiustizie nella distribuzione dei benefici sociali ricavati dal sistema produttivo globalizzato.
Non che queste non siano considerazioni drammaticamente vere, ma secondo Robert e Edward Skidelsky  – “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”, Mondadori, 2013, pp. 305, Euro 17,50 -  si tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso” [p.15] e un “progresso senza scopo” [p.62]. Inoltregli argomenti che potremmo definire di tipo eco-socialista non riescono a “presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza” [p.167]. Serve quindi recuperare una “visione dello scopo della ricchezza” [p.287] a partire da una idea di “vita buona” (attingendo senza vergogna anche dal pensiero preillumistico e premoderno) ben diversa da quella su cui si fonda il capitalismo, che fa dipendere la stessa “felicità” dalla accumulazione e dal possesso di denaro da giocare sulla sfera dei consumi.
A dirci queste cose sono un economista, Robert Skidelsky, uno dei massimi conoscitori di J.M. Keynes, e suo figlio Edward, filosofo, che insegnano nelle università inglesi. Hanno messo assieme le loro discipline perché pensano che “abbiano bisogno l’una dell’altra” e perché dichiarano di voler “ridare slancio alla vecchia idea dell’economia come scienza morale” [p.13]. Una impresa non da poco se si pensa che tutta la “scienza economica” moderna, per dirla con Gilbert Rist, ha mirato a creare una “ethics-free zone”, dove, cioè, le preferenze del consumatore (quanto un individuo è disposto a pagare per ottenere una merce) vengono considerate una manifestazione insindacabile di libertà e la molla stessa del progresso. Per riuscire a incrinare simili trionfanti credenze liberiste (“l’economia è la teologia della nostra era” [p.124]), evitando di cadere sotto i colpi dei pensatori liberali e “neutralisti”, secondo i quali ogni prospettiva etica è manifestazione di oscurantismo, neo-medievalismo, dispotismo e via di seguito, i nostri autori hanno dovuto ricostruire le fonti prime del pensiero economico; da Aristotele ai giorni nostri, passando per le grandi religioni e i grandi pensatori John Locke, Bernard Mandeville, Carl Marx, John Kenneth Galbrait e, soprattutto, Keynes. Il libro degli Skidelsky infatti non è un trattato asettico sulla storia delle teorie economiche. Interviene a cuore aperto sul principale paradosso irrisolto del nostro tempo, che Keynes, come Gandhi e moltissimi altri attenti osservatori, avevano ben presente: come può essere accettabile che nel mondo vi siano le condizioni, le conoscenze e le risorse materiarli per poter estendere a tutti una “vita buona” ed invece miseria, violenza e disparità intollerabili continuano a caratterizzare le nostre società?
Gli Skidelsky vogliono indagare “sulle ragioni del fallimento della profezia di Keynes”, che, come noto, calcolava, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, pubblicato nel 1930, che nel giro di cento anni, lo sviluppo tecnologico avrebbe consentito di raggiungere un livello di “abbondanza” tale da soddisfare le necessità di base (vitto, alloggio, vestiario, salute, istruzione…) impegnando ogni abitante della Terra a lavorare non più di tre ore al giorno. Se pensiamo che spostando solo una quota parte delle spese militari (ad esempio) sarebbe possibile risolvere domani mattina il problema della fame e della sete del mondo, è evidente che l’errore di Keynes non sta nell’aver sopravalutato l’enorme aumento delle capacità produttive che si è davvero verificato dal secondo dopoguerra. Nemmeno la cattiva distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza è la ragione primaria della mancata realizzazione dell’utopia keynesiana (si pensi ai tragici fallimenti dei tentativi di pianificazione centralizzate). Il difetto deve essere ricercato ancora più in profondità, nel non aver capito che il sistema economico e sociale capitalista ha eretto a proprio fondamento la “disposizione psicologica all’insaziabilità” propria del “tipo umano medio”. Secondo i nostri autori: “Il capitalismo è un’arma a doppio taglio: da un lato ha reso possibili grandi miglioramenti delle condizioni materiali dell’esistenza, dall’altro ha esaltato alcune delle caratteristiche umane più deplorevoli, come l’avidità, l’invidia e l’avarizia” [p.10]. In altri termini: “un’economia competitiva monetizzata esercita su di noi continue pressioni a voler sempre di più” [p.23]. E ancora: “il capitalismo si fonda sulla inesauribile crescita dei bisogni” [p.94]. Nella nostra società non è possibile separare “bisogni assoluti” predeterminabili e “bisogni relativi” inesauribili. “I bisogni non conoscono limiti naturali, possono espandersi all’infinito almeno che non li conteniamo in maniera consapevole (…) La consapevolezza di avere quanto basta” [p.95]. Se le cose stanno così, allora è evidente che il raggiungimento dell’“età dell’abbondanza” pronosticata da Keynes verrà continuamente posticipata, travolta nel vortice della spirale produzione-consumo.
Come uscirne? Tornando a chiederci “cosa vogliamo dalla vita”. Quali sono i requisiti oggettivi di una buona e comoda vita. Scopriremmo allora che non di merci da comprare al supermercato si tratta, ma di “beni primari fondamentali” non commercializzabili, non quantificabili in termini monetari. Gli Skidelski ne propongono sette: la salute, la sicurezza, il rispetto, l’amicizia (rapporti di fiducia e relazioni affettive), la personalità (la capacità di realizzare progetti di vita autonomi), l’armonia con la natura, il tempo libero (l’attività volontaria autogestita e condivisa).Come si vede si tratta di beni del corpo, della mente e delle relazioni, costitutivi dell’umano, che “non escludono l’altro, ma lo includono” (Luigi Lombardi Vallauri in La Società dei beni comuni, Ediesse, 2010).

In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale. Che queste cose comincino a dircele degli economisti che non hanno letto Latouche e nemmeno Gilbert Rist, confermano che la crisi di sistema in corso sta aprendo profonde crepe nelle teorie economiche dominanti.
di Paolo Cacciari 

09 luglio 2013

Letta: l'esultanza e la realtà






Le vittorie di Letta sono quantitativamente insignificanti e servono a non parlare dei vizi strutturali macroeconomici dell’Eurosistema
Letta esulta. Dal potere europeo ha ottenuto 1,5 miliardi la settimana scorsa, spendibili in 2 anni dal prossimo gennaio; e ieri altri 7 miliardi in cofinanziamento, cioè 3,5 messi dall’Italia e 3,5 messi dall’UE, però con soldi dei contributi italiani, grazie a una deroga al plafond del 3% di disavanzo pubblico.
Sostanzialmente si tratta, quindi In tutto, cioè, per il 2014, dell’autorizzazione a spendere soldi quasi tutti nostri per un importo di circa 7,75 miliardi, pari a meno dell’1% della spesa pubblica complessiva, a meno dello 0,5% del pil, a meno del 50% da meno del 20% di quanto l’Italia ha versato nel MES, a meno del 3% dei capitali italiani fuggiti all’estero sotto l’azione del governo Monti,  a circa lo 0,7% della svalutazione del patrimonio immobiliare nazionale durante governo Monti, a circa il 25% del calo del pil previsto per quest’anno. Ma Letta esulta e nei sondaggi cresce: l’impatto psicologico è soggettivo e non risponde ai numeri oggettivi. E opera sull’immediato, non tenendo conto delle scadenze di autunno: ammortizzatori sociali, F35, ondata di licenziamenti, legge di bilancio, etc.
Altro dato socio-psicologico: governo e mass media codificano simili successi in questi termini: siamo stati obbedienti al modello economico-finanziario dominante  e alla conseguenti prescrizioni dell’Autorità, quindi il potere effettivo ci premia permettendoci di spendere di più (dei nostri soldi) e dandoci da spendere un po’ di soldi suoi (una piccola parte quelli che le avevamo versato noi). Una visione, quindi, paternalistica, nella quale vi è appunto un’Autorità ontologicamente nel vero e nel giusto, ontologicamente legittimata, che ci insegna come funziona l’economia, che ci dice come dobbiamo fare, che ci punisce se non obbediamo, che ci premia se obbediamo (compiti a casa) – peraltro  il premio consiste nel lasciarsi usare i soldi nostri o nel renderci un po’ di quelli che le abbiamo dati. In questa visione, di tipo autoritario, antiscientifico e dogmatico, non è previsto che si verifichi se il modello economico-finanziario adottato sia stato confermato o smentito dai fatti e se e le ricette prescritte abbiano avuto gli effetti promessi oppure siano state smentite. Quello che conta è il rapporto di approvazione-disapprovazione con l’Autorità, non di successo-insuccesso con la realtà.
La visione scientifica e laica è opposta: non esiste alcuna Autorità a priori (al di sopra dei fatti), invece si mettono a confronto i diversi modelli economico-finanziari delle diverse scuole, e si controlla, nel breve, medio e lungo periodo, le conferme e le smentite che i dati di fatto hanno dato a ciascun modello. Al medesimo modo,  si prende il sistema finanziario adottato nell’Eurozona con le sue regole e policies, e si controlla che effetti ha avuto nella realtà sui vari paesi e sui vari comparti, in termini di andamento e tendenza del pil, del debito, di occupazione, di domanda, di investimenti, di bilance commerciali, di convergenza tra i sistemi-paese, etc., e si accerta se e quanto funziona, chi avvantaggi, chi svantaggia, se è sostenibile, etc. Se non ha funzionato, se ha causato danni, tendenze nocive, maggiori divergenze, allora obbedirgli è stupido, va cambiato o abbandonato.
L’adozione dell’Eurosistema, ossia di un sistema di cambi fissi tra i paesi aderenti, mantenendo separati i loro debiti pubblici e stabilendo che questi dovessero essere finanziati sui mercati speculativi globali, territorio di caccia di pochi grandi gruppi privati sovranazionali, che li manipolano, poneva un problema ovvio e gigantesco: come compensare gli sbilanci delle partite correnti tra i paesi membri, dato che i meno efficienti avrebbero importato di più ed esportato di meno, finendo per indebitarsi verso quelli più efficienti, cioè finendo per dover pagare loro flussi di interessi notevoli,  il che avrebbe peggiorato ulteriormente la loro efficienza e competitività, in un avvitamento letale – che è ciò che stiamo vivendo in Italia. Oltre al fatto che i paesi debitori non hanno potere negoziale, il quale invece si concentra in mano ai paesi creditori, dando così a questi l’egemonia sulle strutture comuni e il modo di usarle sempre più nel proprio interesse a spese dei paesi debitori.
Nella federazione nordamericana, cioè negli USA, questo problema è stato risolto grazie a un unico bilancio federale, a un debito pubblico unico e comune di tutti gli Stati federati, e a un’autorità centrale che trasferisce gli attivi, gli avanzi, del commercio intestate dagli Stati in attivo a quelli in passivo, attraverso la spesa pubblica, e impedisce il default dei singoli Stati.
In Europa ciò è mancato, non è stato fatto, ed è il più importante dei difetti, la causa primaria del malandare. E ovviamente non se ne parla all’opinione pubblica. E non si fa nulla per  correggerlo nelle sedi europee. Letta esulta, ma non dice che, sul piano macro, non vi è stata, per compensare gli squilibri delle partite correnti entro l’eurozona, l’ammissione dell’interdipendenza organica tra gli euro-paesi con  l’istituzione di un euro ministero federale delle finanze che compensasse gli squilibri imponendo ai paesi con notevole e strutturale avanzo di reinvestirlo, in parte, nei paesi con disavanzo, e di neutralizzarlo, in parte, mediante l’aumento della domanda interna.  Vi è stata, invece, la diabolica scelta  - diabolica perché divisiva, contrapponente – da parte della Commissione europea, di stabilire che sono accettabili (e non si deve intervenire) disavanzi delle partite correnti  fino al 4%, ma surplus fino al 6%! Così la Germania è stata in reagola mentre, anno dopo anno, comprimendo i salari e la spesa pubblica, accumulava avanzi su avanzi, crediti su crediti, negli scambi intra-euro, con pari accumularsi di disavanzi e debiti e maggiori interessi passivi a crico dei paesi periferici, fino agli attuali scompensi critici.
In Europa vi è stata, conseguentemente al rifiuto di riconoscere l’interdipendenza economico-finanziaria, l’imposizione del principio “ciascuno per sé faccia i compiti a casa”, ossia che chi è in disavanzo di partite correnti debba e possa pareggiare (procurarsi denaro) solo offrendo alti tassi e tagliando i salari per competere nelle esportazioni, mentre i paesi già competitivi aumentano la loro competitività grazie all’afflusso dei capitali in fuga  dal fisco e dall’instabilità e dalla recessione dei paesi deboli, e al conseguente minor costo del denaro .  E ciò ha diminuito e sta diminuendo sempre più la competitività del sistema-paese Italia, perché genera una spirale negativa, implosiva,  di tassi-tasse-tagli-decrescita-deflusso dei capitali-demonetazione-credit crunch-insolvenze.  Mentre aumenta l’indebitamento dell’Italia e degli altri paesi periferici verso i paesi euroforti.  Nonché l’emigrazione nella medesima direzione oltre che verso altri paesi extra-euro che si difendono grazie al mantenimento di una certa autosufficienza monetaria, come Regno Unito, USA, Giappone, Cina.
E di questo perverso meccanismo macro BCE, Commissione, FMI.  il governo e i partiti non vogliono proprio parlare né che si parli. Il fatto che il governone Letta non apra questa discussione, che è quella che conta, in sede europea, ma si accontenti di più flessibilità e di qualche premio di buona condotta da parte dell’Autorità europea, lo palesa quale inutile arca di Noè della partitocrazia parassitaria la quale, pur essendo causa essenziale del male nazionale, continua a millantarsi, all’interno, come soluzione di quel male per non mollare colli e poltrone. E a offrirsi, all’esterno, come garante degli interessi del capitalismo straniero sul nostro paese.
di Marco Della Luna