22 luglio 2013

Fmi brûlé. Ricetta in salsa magiara





 
L’Ungheria di Viktor Orban non è affatto un’animale domestico.
Non soltanto ha rivendicato i suoi diritti nazionali di dotarsi di una Costituzione senza briglie a Bruxelles o altrove, non soltanto ha più volte sollevato un netto rifiuto ad assoggettarsi alle politiche di rigore imposte dalla Troika urbi et orbi, non soltanto ha reimposto una sorta di “nazionalizzazione” della propria Banca centrale... ma ora ha anche deciso sia di pagare al più presto, nove mesi prima della scadenza, il suo prestito usuraio contratto con il “mecenate” Fmi, e sia di annunciare la chiusura degli uffici di rappresentanza del Fondo Monetario insediati a Budapest.
Messa all’indice dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue) subito dopo l’assunzione del potere da parte del partito di Orban dichiarato “populista” nonché soggetto alle influenze “negative” della forte destra radicale degli Jobbik, l’Ungheria aveva già “risposto” alle critiche dei padroni-soloni facendo fronte al problema del debito (contratto con l’usura internazionale dal precedente governo), portando detto indebitamento al di sotto del 3% sul suo Pil già a fine 2011.
Con metodi subito ritenuti “non ortodossi” dalla grande finanza internazionale e dai suoi portaparola.
E cosa aveva mai deciso il governo Orban (sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare)?
Di abbattere il debito con una serie di misure temporanee, una tantum, capaci di aumentare ex abrupto le entrate. Quali? Naturalmente quelle più ostiche alle centrali finanziarie.
Le elenchiamo: 1) tassa sui profitti bancari; 2) nazionalizzazione dei “fondi pensione” e assicurativi; 3) imposte sulle multinazionali operanti in territorio magiaro.
E così, con una lettera inviata questo 15 luglio a Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, György Matolcsy, il governatore della Banca Centrale ungherese, ha annunciato che Budapest sarà pronta ad estinguere anticipatamente il debito contratto nel 2008 (20 miliardi di euro) nel bel mezzo dell’inizio della crisi esportata in Europa dal Lord Protettore dell’Ue, gli Stati Uniti d’America. E questo grazie all’avvenuta graduale riassunzione della propria sovranità nazionale, monetaria, fiscale, finanziaria.
Interessante è ricordare che nel 2011, a febbraio, il governo Orban - dopo aver traccheggiato sulle pressanti richieste della Troika di rinegoziare il debito (con un ulteriore debito: il “metodo” usuraio principe al quale, per esempio, la nostra stessa Italia si è graziosamente assoggettata) - riusciva a piazzare senza alcuna intermediazione internazionale le proprie obbligazioni di Stato, dimostrando che quando si è sovrani e quindi affidabili i problemi si risolvono normalmente.
Ma torniamo a questa metà di luglio.
Nella sua lettera alla Lagarde, György Matolcsy, ha annunciato il pagamento anticipato delle prossime ultime tre rate trimestrali, per un totale di 2 miliardi e 125 milioni di euro, sottolineando - non si sa quanto ironicamente o sinceramente - che tale risultato è un effetto, sì, della buona crescita ungherese, ma anche “degli sforzi personali (della Lagarde) di promozione dello sviluppo economico”.
Non male, non male.
Peccato che l’esempio magiaro sia per l’Italia-colonia dei Letta e dei Saccomanni (e dei loro mentori, Prodi e Draghi) quanto di più siderale mai si possa pensare. Oggi. Domani è però un altro giorno.


di Ugo Gaudenzi 

21 luglio 2013

Rifiutare il Debito è possibile. Islanda chiama Italia





Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andrea Degl’Innocenti sulla rivoluzione islandese, primo libro in italiano sull’argomento, edito da Ludica S.n.c..


andrea degl innocenti
Andrea Degl'Innocenti è andato in Islanda per indagare in modo approfondito il 'caso islandese'
Il Cambiamento è nato quasi tre anni fa. Da allora ha cercato di portare avanti un'informazione davvero indipendente e fuori dalle logiche che guidano i mass media. Per farlo si è poggiato sulla collaborazione di decine di giornalisti giovani e preparati che hanno ricambiato la fiducia riposta in loro in modo egregio. Tra questi spicca Andrea Degl'Innocenti che da subito ha saputo volgere il suo occhio attento verso le vene pulsanti del nostro Paese, del nostro mondo, indagando e mostrando ciò che troppo spesso veniva nascosto.
Tra le sue tante indagini, la più "famosa" è stata quella sul caso islandese: un Paese che ha "rifiutato" di pagare il debito, innescando un processo demcoratico senza precedenti, in cui il popolo ha saputo davvero scegliere una parte importante del proprio futuro, scavalcando poteri politici e finanziari.
I suoi articoli sul tema sono stati letti da decine di migliaia di persone. Andrea ha quindi deciso di andare (a sue spese) in Islanda per indagare in modo più approfondito la questione ed ha preparato un testo che da ieri è disponibile in versione elettronico (pdf e epub). Sto parlando del suo “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, edito da Ludica.
Il libro comprende una  prefazione di Loretta Napoleoni economista di fama internazionale, e si avvale dei contributi di Serge Latouche, teorico della decrescita, Pierluigi Paoletti , fondatore doi Arcipelago SCEC, Marco Bersani, del Forum dei movimenti per l’acqua.

Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andre
Andrea ci racconta l’ascesa e la caduta del sogno islandese , dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli responsabili del collasso del paese, contro l’intera comunità internazionale che pretendeva il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private.

Infine, Andrea trae spunto dalle vicende islandesi per offrire una panoramica di alcune delle realtà più significative che anche in Italia si adoperano per cambiare la società. Ne emerge un mosaico della “società del cambiamento”, in cui le realtà in lotta sono tasselli ideali di un grande movimento. Un’opera di riappropriazione collettiva del diritto di decidere sul modo e sul mondo in cui vogliamo vivere.
di Daniel Tarozzi

20 luglio 2013

Catastrofe in atto. Come reagire?



  
   
Buonasera a tutti, il tuo articolo(“AAA Italia svendesi” di Valerio Lo Monaco) merita un plauso per l'analisi ineccepibile, ma tutto questo non fa altro che acuire una sensazione d'impotenza nei confronti del regime imperante sempre più autoreferenziale saldamente al potere da più di sessant'anni. 

Cosa possiamo fare per evitare la catastrofe già in atto? Sperare, trovandoci a poppa di questa enorme nave, di vedere almeno i tanti stolti che restano ostinatamente a prua annegare per primi? Siamo sicuri che la nave affonderà di prua?

Mentre scrivo ho la certezza di essermi tuffata già in acqua, cercherò di raggiungere la riva a nuoto, non sarà facile. 

Si salvi chi può!!!!!

Rosanna Rizzo


Cara Rosanna, la sensazione di impotenza di cui scrivi ha mille e mille motivi, ma va appunto considerata una sensazione. Che, in quanto tale, è nulla di più (e nulla di meno, certo) di una risposta emotiva ai tantissimi segnali negativi che ci arrivano dal mondo in cui viviamo. 

Per evitare di esserne travolti, passando dall’allarme legittimo al panico incontrollato, esiste però un antidoto efficacissimo. E definitivo. Invece di pensare alla sconfitta come a un disastro incombente, al quale potremmo miracolosamente sfuggire in extremis se riuscissimo ad attivare in tempi rapidissimi una sollevazione popolare, essa va considerata un dato di fatto. 

Per dirla in termini metaforici, non stiamo osservando le manovre di un esercito nemico che si prepara all’attacco, ma assistendo alla sistematica occupazione di tutto il nostro territorio. Che equivale, ormai, a un controllo pressoché completo dei gangli fondamentali, sia pubblici che privati.

In altre parole, non c’è nessun fortino nel quale asserragliarsi, in attesa di combattere la battaglia finale. I “buoni” non sono chiamati a radunarsi a tale scopo, e i “cattivi” non stanno convergendo su quell’unico obiettivo. Come abbiamo scritto altre volte, non ci sarà nessun Armageddon (che è poi la proiezione su vastissima scala di un duello all’ultimo sangue, ossia di un’idea di scontro deliziosamente romantica ma terribilmente, e colpevolmente, semplificata). Il conflitto si va svolgendo da moltissimo tempo e segue altre dinamiche, assai più complesse. Assai più infide. Quelli che vediamo oggi sono gli effetti di qualcosa che è cominciato da parecchi decenni, per non dire da alcuni secoli, e che non ha mai smesso di perseguire i suoi scopi: schiavizzare l’umanità attraverso l’economia, il denaro, la materialità. 

Eppure, una volta che lo si guardi in faccia senza paura, quell’esito così sfavorevole deve smettere di spaventarci, come una minaccia che ci appare tanto più inquietante quanto più i suoi contorni rimangono imprecisati, e trasformarsi in un nuovo punto di partenza, alimentando in noi una rinnovata volontà di affrontarlo. Non è che dobbiamo impedire che gli USA diventino la superpotenza che sono. O che le banche centrali diventino dei pool di soggetti privati che usurpano sia la funzione del credito che la sovranità monetaria. Oppure, ancora e ad libitum, che le persone di minor valore morale, e non di rado anche intellettuale, diventino la classe dirigente che decide per noi.

Questo è già accaduto. Questo è già acquisito. E tuttavia, ciò rientra pur sempre – si potrebbe dire “per definizione” – in un processo senza fine, che è la storia dell’Uomo. L’attuale strapotere di alcuni centri di interesse, che di solito identifichiamo con la speculazione finanziaria internazionale, non è né un approdo conclusivo né una tappa lungo un tragitto inevitabile, come pretendono i fautori dello sviluppo lineare e progressista della Storia, ma la meta che determinate forze si sono prefisse di raggiungere. 

Il nostro compito, la nostra sfida, la nostra unica alternativa alla resa, è essere diversi da loro. Mantenerci integri. Rimanere, ciascuno a suo modo, degli “entusiasti della vita”. E quindi, tra l’altro, darci da fare per entrare in contatto, anzi in rapporto, con chiunque abbia caratteristiche simili.

Di sicuro non è ancora la rivoluzione, e non ci si avvicina nemmeno, ma in qualche modo la prepara. O non la esclude. Ricordiamocelo sempre: c’è stato un momento in cui i Rothschild erano solo dei piccoli mercanti che si sforzavano di emergere e che non si chiamavano nemmeno Rothschild, ma Amschel. Operavano a Francoforte, che per una curiosa coincidenza è oggi la sede della Bce, e il capostipite Moses faceva il rigattiere.

Erano impotenti a cambiare la società del tempo? Lo erano. Però ne hanno fatto un principio di consapevolezza, anziché di sconforto.

di Federico Zamboni 

22 luglio 2013

Fmi brûlé. Ricetta in salsa magiara





 
L’Ungheria di Viktor Orban non è affatto un’animale domestico.
Non soltanto ha rivendicato i suoi diritti nazionali di dotarsi di una Costituzione senza briglie a Bruxelles o altrove, non soltanto ha più volte sollevato un netto rifiuto ad assoggettarsi alle politiche di rigore imposte dalla Troika urbi et orbi, non soltanto ha reimposto una sorta di “nazionalizzazione” della propria Banca centrale... ma ora ha anche deciso sia di pagare al più presto, nove mesi prima della scadenza, il suo prestito usuraio contratto con il “mecenate” Fmi, e sia di annunciare la chiusura degli uffici di rappresentanza del Fondo Monetario insediati a Budapest.
Messa all’indice dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue) subito dopo l’assunzione del potere da parte del partito di Orban dichiarato “populista” nonché soggetto alle influenze “negative” della forte destra radicale degli Jobbik, l’Ungheria aveva già “risposto” alle critiche dei padroni-soloni facendo fronte al problema del debito (contratto con l’usura internazionale dal precedente governo), portando detto indebitamento al di sotto del 3% sul suo Pil già a fine 2011.
Con metodi subito ritenuti “non ortodossi” dalla grande finanza internazionale e dai suoi portaparola.
E cosa aveva mai deciso il governo Orban (sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare)?
Di abbattere il debito con una serie di misure temporanee, una tantum, capaci di aumentare ex abrupto le entrate. Quali? Naturalmente quelle più ostiche alle centrali finanziarie.
Le elenchiamo: 1) tassa sui profitti bancari; 2) nazionalizzazione dei “fondi pensione” e assicurativi; 3) imposte sulle multinazionali operanti in territorio magiaro.
E così, con una lettera inviata questo 15 luglio a Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, György Matolcsy, il governatore della Banca Centrale ungherese, ha annunciato che Budapest sarà pronta ad estinguere anticipatamente il debito contratto nel 2008 (20 miliardi di euro) nel bel mezzo dell’inizio della crisi esportata in Europa dal Lord Protettore dell’Ue, gli Stati Uniti d’America. E questo grazie all’avvenuta graduale riassunzione della propria sovranità nazionale, monetaria, fiscale, finanziaria.
Interessante è ricordare che nel 2011, a febbraio, il governo Orban - dopo aver traccheggiato sulle pressanti richieste della Troika di rinegoziare il debito (con un ulteriore debito: il “metodo” usuraio principe al quale, per esempio, la nostra stessa Italia si è graziosamente assoggettata) - riusciva a piazzare senza alcuna intermediazione internazionale le proprie obbligazioni di Stato, dimostrando che quando si è sovrani e quindi affidabili i problemi si risolvono normalmente.
Ma torniamo a questa metà di luglio.
Nella sua lettera alla Lagarde, György Matolcsy, ha annunciato il pagamento anticipato delle prossime ultime tre rate trimestrali, per un totale di 2 miliardi e 125 milioni di euro, sottolineando - non si sa quanto ironicamente o sinceramente - che tale risultato è un effetto, sì, della buona crescita ungherese, ma anche “degli sforzi personali (della Lagarde) di promozione dello sviluppo economico”.
Non male, non male.
Peccato che l’esempio magiaro sia per l’Italia-colonia dei Letta e dei Saccomanni (e dei loro mentori, Prodi e Draghi) quanto di più siderale mai si possa pensare. Oggi. Domani è però un altro giorno.


di Ugo Gaudenzi 

21 luglio 2013

Rifiutare il Debito è possibile. Islanda chiama Italia





Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andrea Degl’Innocenti sulla rivoluzione islandese, primo libro in italiano sull’argomento, edito da Ludica S.n.c..


andrea degl innocenti
Andrea Degl'Innocenti è andato in Islanda per indagare in modo approfondito il 'caso islandese'
Il Cambiamento è nato quasi tre anni fa. Da allora ha cercato di portare avanti un'informazione davvero indipendente e fuori dalle logiche che guidano i mass media. Per farlo si è poggiato sulla collaborazione di decine di giornalisti giovani e preparati che hanno ricambiato la fiducia riposta in loro in modo egregio. Tra questi spicca Andrea Degl'Innocenti che da subito ha saputo volgere il suo occhio attento verso le vene pulsanti del nostro Paese, del nostro mondo, indagando e mostrando ciò che troppo spesso veniva nascosto.
Tra le sue tante indagini, la più "famosa" è stata quella sul caso islandese: un Paese che ha "rifiutato" di pagare il debito, innescando un processo demcoratico senza precedenti, in cui il popolo ha saputo davvero scegliere una parte importante del proprio futuro, scavalcando poteri politici e finanziari.
I suoi articoli sul tema sono stati letti da decine di migliaia di persone. Andrea ha quindi deciso di andare (a sue spese) in Islanda per indagare in modo più approfondito la questione ed ha preparato un testo che da ieri è disponibile in versione elettronico (pdf e epub). Sto parlando del suo “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, edito da Ludica.
Il libro comprende una  prefazione di Loretta Napoleoni economista di fama internazionale, e si avvale dei contributi di Serge Latouche, teorico della decrescita, Pierluigi Paoletti , fondatore doi Arcipelago SCEC, Marco Bersani, del Forum dei movimenti per l’acqua.

Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andre
Andrea ci racconta l’ascesa e la caduta del sogno islandese , dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli responsabili del collasso del paese, contro l’intera comunità internazionale che pretendeva il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private.

Infine, Andrea trae spunto dalle vicende islandesi per offrire una panoramica di alcune delle realtà più significative che anche in Italia si adoperano per cambiare la società. Ne emerge un mosaico della “società del cambiamento”, in cui le realtà in lotta sono tasselli ideali di un grande movimento. Un’opera di riappropriazione collettiva del diritto di decidere sul modo e sul mondo in cui vogliamo vivere.
di Daniel Tarozzi

20 luglio 2013

Catastrofe in atto. Come reagire?



  
   
Buonasera a tutti, il tuo articolo(“AAA Italia svendesi” di Valerio Lo Monaco) merita un plauso per l'analisi ineccepibile, ma tutto questo non fa altro che acuire una sensazione d'impotenza nei confronti del regime imperante sempre più autoreferenziale saldamente al potere da più di sessant'anni. 

Cosa possiamo fare per evitare la catastrofe già in atto? Sperare, trovandoci a poppa di questa enorme nave, di vedere almeno i tanti stolti che restano ostinatamente a prua annegare per primi? Siamo sicuri che la nave affonderà di prua?

Mentre scrivo ho la certezza di essermi tuffata già in acqua, cercherò di raggiungere la riva a nuoto, non sarà facile. 

Si salvi chi può!!!!!

Rosanna Rizzo


Cara Rosanna, la sensazione di impotenza di cui scrivi ha mille e mille motivi, ma va appunto considerata una sensazione. Che, in quanto tale, è nulla di più (e nulla di meno, certo) di una risposta emotiva ai tantissimi segnali negativi che ci arrivano dal mondo in cui viviamo. 

Per evitare di esserne travolti, passando dall’allarme legittimo al panico incontrollato, esiste però un antidoto efficacissimo. E definitivo. Invece di pensare alla sconfitta come a un disastro incombente, al quale potremmo miracolosamente sfuggire in extremis se riuscissimo ad attivare in tempi rapidissimi una sollevazione popolare, essa va considerata un dato di fatto. 

Per dirla in termini metaforici, non stiamo osservando le manovre di un esercito nemico che si prepara all’attacco, ma assistendo alla sistematica occupazione di tutto il nostro territorio. Che equivale, ormai, a un controllo pressoché completo dei gangli fondamentali, sia pubblici che privati.

In altre parole, non c’è nessun fortino nel quale asserragliarsi, in attesa di combattere la battaglia finale. I “buoni” non sono chiamati a radunarsi a tale scopo, e i “cattivi” non stanno convergendo su quell’unico obiettivo. Come abbiamo scritto altre volte, non ci sarà nessun Armageddon (che è poi la proiezione su vastissima scala di un duello all’ultimo sangue, ossia di un’idea di scontro deliziosamente romantica ma terribilmente, e colpevolmente, semplificata). Il conflitto si va svolgendo da moltissimo tempo e segue altre dinamiche, assai più complesse. Assai più infide. Quelli che vediamo oggi sono gli effetti di qualcosa che è cominciato da parecchi decenni, per non dire da alcuni secoli, e che non ha mai smesso di perseguire i suoi scopi: schiavizzare l’umanità attraverso l’economia, il denaro, la materialità. 

Eppure, una volta che lo si guardi in faccia senza paura, quell’esito così sfavorevole deve smettere di spaventarci, come una minaccia che ci appare tanto più inquietante quanto più i suoi contorni rimangono imprecisati, e trasformarsi in un nuovo punto di partenza, alimentando in noi una rinnovata volontà di affrontarlo. Non è che dobbiamo impedire che gli USA diventino la superpotenza che sono. O che le banche centrali diventino dei pool di soggetti privati che usurpano sia la funzione del credito che la sovranità monetaria. Oppure, ancora e ad libitum, che le persone di minor valore morale, e non di rado anche intellettuale, diventino la classe dirigente che decide per noi.

Questo è già accaduto. Questo è già acquisito. E tuttavia, ciò rientra pur sempre – si potrebbe dire “per definizione” – in un processo senza fine, che è la storia dell’Uomo. L’attuale strapotere di alcuni centri di interesse, che di solito identifichiamo con la speculazione finanziaria internazionale, non è né un approdo conclusivo né una tappa lungo un tragitto inevitabile, come pretendono i fautori dello sviluppo lineare e progressista della Storia, ma la meta che determinate forze si sono prefisse di raggiungere. 

Il nostro compito, la nostra sfida, la nostra unica alternativa alla resa, è essere diversi da loro. Mantenerci integri. Rimanere, ciascuno a suo modo, degli “entusiasti della vita”. E quindi, tra l’altro, darci da fare per entrare in contatto, anzi in rapporto, con chiunque abbia caratteristiche simili.

Di sicuro non è ancora la rivoluzione, e non ci si avvicina nemmeno, ma in qualche modo la prepara. O non la esclude. Ricordiamocelo sempre: c’è stato un momento in cui i Rothschild erano solo dei piccoli mercanti che si sforzavano di emergere e che non si chiamavano nemmeno Rothschild, ma Amschel. Operavano a Francoforte, che per una curiosa coincidenza è oggi la sede della Bce, e il capostipite Moses faceva il rigattiere.

Erano impotenti a cambiare la società del tempo? Lo erano. Però ne hanno fatto un principio di consapevolezza, anziché di sconforto.

di Federico Zamboni