La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi
di Marco Palombi