01 ottobre 2013

La Fed stampa dollari. I Brics comprano oro




Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel paese di bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. 
Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare ad immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo.
Infatti la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”
L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. 
Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i “quantitative easing” continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali.
Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei “quantitative easing” e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti. 
La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete. 
L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale.
La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei “leveraged loans”, crediti molto simili ai subprime, e cioè quelli concessi a creditori già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman. 
In contro tendenza, in verità bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree.
Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole ad un totale di circa 1.000 tonnellate. 
Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi.
Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire? 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

01 ottobre 2013

La Fed stampa dollari. I Brics comprano oro




Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel paese di bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. 
Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare ad immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo.
Infatti la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”
L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. 
Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i “quantitative easing” continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali.
Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei “quantitative easing” e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti. 
La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete. 
L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale.
La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei “leveraged loans”, crediti molto simili ai subprime, e cioè quelli concessi a creditori già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman. 
In contro tendenza, in verità bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree.
Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole ad un totale di circa 1.000 tonnellate. 
Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi.
Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire? 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo