08 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (3)


Doppio e triplo gioco durante la guerra.
Alla vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il 15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni operaie troppo numerose).

Mussolini arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo” e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.

Non c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:

la grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat, nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.

E il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con amarezza:

questa Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di tutto il Paese.

Agnelli, intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni, aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco, un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la Repubblichina di Salò, che lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei “facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6 marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a Dongo.

I comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio, assai lontano dal fronte) e poi in Africa 8ugualmente senza l’ombra di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”. In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.

Gli unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le fabbriche. Agnelli e Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata per la perdita rapida di tutte le conquistefatte, sarà la cacciata definitiva dalla Fiat. Ma questa è un’altra storia…


[Tratto da: Il «capitalismo reale», di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]

07 agosto 2006

Libano 2006: Inquinamento da follia


Questa foto dell'inquinamento da "guerra" in Libano mostra la situazione di "follia".
Non riusciamo ancora a capire bene la situazione ma, è vero si vuole che continui.
Scalfari su repubblica.it fotografa una realtà.
Rice, Bush, e Blair. Hanno detto tutti e tre, quasi simultaneamente, che i "lutti collaterali" causati dai bombardamenti israeliani sono estremamente spiacevoli ma purtroppo inevitabili. Ed hanno aggiunto che proclamare un "cessate fuoco" senza varare prima un piano di pace sostenibile sarebbe del tutto inutile. Perciò si affretti la pace. La tregua d'armi verrà come inevitabile conseguenza.
Questo modo di ragionare obbedisce sicuramente a una sua logica, ma anche ad una sua follia. Sarebbe come se un poliziotto, cogliendo in flagranza un gruppo di stupratori all'opera, si astenesse dall'intervenire in attesa che il governo vari una solida legge per impedire e combattere gli stupri.

06 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (2)

Alla vigilia della “marcia su Roma”, i giornali controllati da Agnelli (che sono ormai molti) si schierano apertamente per Mussolini. E la FIAT, per vent’anni, “indosserà la camicia nera”. Se la toglierà solo il 25 luglio del 1943. Ma la sua ascesa, da modesta impresa locale a grande gruppo mondiale, è stata tutta determinata dal rapporto con il fascismo e le sue imprese di guerra. Seguiamone le tappe.
Il 28 ottobre, Agnelli è tra i primi ad inviare un telegramma di felicitazioni a Mussolini e, presto, gli chiede ingenuamente di smobilitare le squadracce e di “mettere un freno ai ras di provincia” (cioè al “quadrumviro” De Vecchi, rozzo e ignorante), temendo siano controproducenti. Subito dopo, tuttavia, riconosce ai sindacati fascisti, che non avrebbero i requisiti di legge, il diritto di partecipare alle elezioni della commissione interna. A chi dei suoi amici liberali lo critica per questo gesto, Agnelli risponde che i sindacati fascisti avevano il merito di evitare la contrapposizione “muro contro muro” e di dissociarsi dalla Fiom, che era rimasta legata ai “vecchi metodi di lotta”, cioè allo sciopero. E siccome De Vecchi, viceversa, considera suoi nemici nel partito i sindacati fascisti, che puntano sulla demagogia e non solo sui manganelli, Agnelli lo scavalca, invitando Mussolini a Torino per l’inaugurazione dello stabilimento del Lingotto. Mussolini accetta, pur evitando lo scontro diretto con De Vecchi (che, anche in ambiente fascista, era soprannominato, per l’aspetto fisico e la scarsa intelligenza, “un cazzo con i baffi”, ma continuava a controllare le squadracce piemontesi).
Poiché Cesare Maria De Vecchi continuava a pregiudicare i rapporti con la FIAT, che definiva la “plutocrazia industriale”, Mussolini, per allontanarlo da Torino, lo chiama a Roma, con la promessa di un alto incarico e l’offerta del titolo nobiliare di conte di Val Cismon; lo spedirà poi come governatore in Somalia, dove De Vecchi farà stragi, ma si arricchirà rapidamente.
Ad Agnelli, invece, Mussolini fa arrivare prima della visita al Lingotto prevista per l’autunno, la nomina a senatore del regno, che viene fatta da re “su proposta del capo del governo”. E prepara la sua “marcia su Torino”, come la chiamerà Piero Gobetti. Per prevenire contestazioni, anche Giovanni Agnelli prende le sue misure: convoca le commissioni interne per informarle, e ai mugugni risponde che “ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare. Vi lascio scegliere tra i primi due. Il terzo modo lo stroncherò con ogni mezzo”. La maggior parte degli invitati – selezionatissimi – al ricevimento, sceglieranno il secondo modo e gli operai rimasti al lavoro saranno dissuasi dal manifestarsi, vista la massiccia presenza di squadristi e di milizia.
Agnelli si compiaceva allora di far circolare la voce che fosse fascista a Roma e antifascista a Torino (bella cosa!), ma chiudeva il suo discorso con un “Viva Mussolini!”. Comincia a dire che è “mussoliniano”, ma non fascista… Intanto, ottiene dal “capo”, con cui stabilisce un rapporto diretto, oltre all’abolizione della nominatività dei titoli azionari, anche l’accantonamento dei provvedimenti di confisca dei sovraprofitti di guerra per gli industriali (che erano stati parte del programma demagogico del primo fascismo), la riduzione delle imposte di ricchezza mobile sulle società anonime e i loro amministratori e, soprattutto, lo scioglimento prima delle commissioni interne e poi dei sindacati, per dare vita al nuovo ordinamento corporativo.
Inoltre, con la complicità di ministri come Aldo Finzi (ebreo e fascista) e del quadrumviro Italo Balbo, il neosenatore Agnelli si impossessa di altri quotidiani sottratti all’opposizione, tra cui il Resto del Carlino. Al momento della crisi per l’assassinio di Giacomo Matteotti, il cui corpo risultò essere stato trasportato con un’auto di quel quotidiano bolognese, Agnelli tace a lungo, con grande stupore dei suoi vecchia mici liberali. Quando si arriverà al voto, Agnelli lo darà a Mussolini, che non dimenticherà.
Agnelli ha, nel frattempo, acquistato la Juventus, per assicurarsi le simpatie popolari con la vecchia ricetta degli imperatori romani: panem et circenses. Introdurrà per primo le paghe favolose ai calciatori e inventerà gli “oriundi”, per aggirare le disposizione governative contro l’utilizzazione di giocatori stranieri. Ma soprattutto, consolida la struttura familiare di controllo dell’impero finanziario, che cresce a dismisura.
Nel 1929, ha già consistenti interessi nei Balcanie in Estremo Oriente, ma si trova subito in difficoltà. Riesce a resistere in Italia, ma perde colpi all’estero. La FORD che pure retribuisce i suoi operai quattro volte di più di quelli FIAT, riesce a vendere le sue vetture ad un prezzo quattro volte inferiore. La Francia, che era la migliore cliente della FIAT, alza i dazi doganali di entrata dal 25% al 60%. Il mercato esterno è praticamente perduto; il fatturato, tra il 1929 e il 1931, si riduce della metà.
Ma c’è un pericolo maggiore: la FORD tenta di sfondare sul mercato italiano, dopo essersi assicurata la collaborazione di una potente lobby di industriali e finanzieri milanesi e di un gruppo di gerarchi, tra cui Emilio De Bono (vecchio amico del De Vecchi) e Costanzo Ciano, il cui figlio Galeazzo aveva sposato Edda Mussolini e al quale era stato promesso che uno dei due stabilimenti Ford in Italia sarebbe stato costruito a Livorno, sua città natale. Partecipavano all’operazione anche il ministro Bottai e il presidente dell’Automobil Club Silvio Crespi. Questa lobby era tutt’altro che disinteressata, ma avanzava un argomento ragionevole: la concorrenza americana sarebbe stata utile, stimolandola, alla stessa FIAT, le cui difficoltà dipendevano da una generale carenza tecnica, da un’insufficiente programmazione e dalla mancanza di modelli utilitari. Il governo, poi, doveva temere ritorsioni internazionali a una troppo aperta politica protezionistica in favore della casa torinese.
Agnelli, affiancato ormai dal fedellissimo “professore” Vittorio Valletta, punta subito sullo spirito nazionalista di Mussolini, insofferente all’invadenza di prodotti stranieri, vista come una mortificazione dell’orgoglio nazionale. E Mussolini avoca a sé ogni decisione in materia, bloccando i piani della Ford, “che non può pretendere di rifarsi in Europa delle perdite che subisce a casa sua”. Anzi chiude d’autorità – per questioni “d’ordine nazionale” – gli impianti che il gruppo americano aveva già nel porto franco di Trieste. Gli azionisti FIAT salutano con gioia questa decisione, che blocca anche un altro tentativo della General Motors di installarsi in Italia, “considerandola alla stregua di una colonia”; e, il 6 marzo 1930, votano all’unanimità la proposta di ricordare la decisione del “duce” con un’epigrafe a caratteri d’oro, collocata nell’atrio principale del Lingotto.
I gerarchi fascisti, ormai legati agli interessi stranieri, non demordono: Costanzo Ciano scrive a Mussolini, segnalando che la FIAT, nonostante gli interventi in suo favore, aveva ridotto ulteriormente l’orario di lavoro (ovviamente con riduzione del salario) e aveva sospeso la produzione in vari reparti del lingotto. Invano. Quando la FIAT si rivolge a Mussolini avvertendo che, in mancanza di nuovi e ancora più energici provvedimenti contro la concorrenza estera, avrebbe dovuto adottare altre “gravi e dolorose decisioni” sul piano dell’occupazione, ottiene subito che i dazi doganali sulle autovetture estere vengono aumentati del 130% ed estesi anche alle parti staccate. Di fatto teme che la Ford ritorni all’attacco, attraverso un accordo di joint venture firmato con l’Isotta Fraschini per la produzione di un’autovettura utilitaria con maestranze italiane. La Ford ha sempre dietro di se Ciano, che scrive al “Duce” che anche “gli operai che lavorano nelle fabbriche milanesi o in altre parti d’Italia hanno diritto alla medesima protezione di quelli che lavorano in Fiat”. Inolte, segnala che nel capitale azionario sarebbero stati maggioritari due italiani: il conte Gian Riccardo Cella e Ludovico Mazzotti Biancinelli, ex dirigente dell’Ilva.
Ma Agnelli pone un tassativo “o con noi o contro di noi”, mentre qualcuno informa Mussolini che “dietro gli industriali milanesi si nascondono alcuni gerarchi del partito”. Dopo una vigorosa strigliata ai gerarchi lobbysti, il “duce” blocca la costituzione della joint venture, diffida attraverso Bottai la casa di Detroit dal continuare i suoi tentativi e, soprattutto, emana due decreti: il primo, riserva al governo di deciderequali industrie sono fondamentali “per la fabbricazione di prodotti essenziali per la difesa della nazione”; il secondo, riconosce tra questi l’industria dei trasporti terrestri. La FIAT ha vinto.
E la FIAT ricambia, sfornando finalmente, con il nome di “Balilla”, l’utilitaria voluta dal “duce” e i treni popolari, che vengono battezzati “littorine” in onore del fascio littorio. Nel 1932, una nuova visita di Mussolini al Lingotto si rivela ben diversa dalla prima. Gli operai hanno dovuto sospendere il lavoro in tutti gli stabilimenti e recarsi inquadrati e preceduti da fanfare alla manifestazione. Il figlio di Giovanni Agnelli (e padre di Gianni) sta sul palco in divisa fascista. Mussolini concede l’avallo a un grosso prestito per forniture militari alla Turchia, alla Grrecia e all’Argentina; poi fa sapere, però, che è ormai opportuno che il senatore prenda la tessera del partito. E questi lo farà, forse con scarso entusiasmo, ma anche senza esitazione.
Elena Croce, la figlia del filosofo, osserverà a questo proposito:
Agnelli affettava con umiltà un’ssoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.
Agnelli e Valletta hanno ormai tutte le porte aperte a Roma: riescono a bloccare un progetto di monopolio delle ferrovie statali nel trasporto pubblico e un altro di una speciale tassazione degli automezzi pesanti, che viene fatto cadere in concomitanza con l’uscita di un nuovo modello di autocarro. L’Alfa Romeo viene inspiegabilmente sostituita dalla Fiat in alcune grosse forniture ai cantieri navali di Monfalcone. “Nella mutata economia politico-sociale del paese guidata da S.E. il Capo del Governo – dichiara Agnelli – anche l’industria trova una nuova comprensione dei suoi fini nazionali e sociali”.
E intanto ottiene anche: l’esenzione della Balilla dalle tasse di circolazione; la revoca delle misure restrittive dei servizi automobilistici rispetto alle ferrovie; l’estensione della speciale protezione doganale prevista per le auto a tutte le costruzioni meccaniche sussidiarie. Sempre nel supremo interesse nazionale…
Nel 1935, tuttavia, la Fiat corre un brutto rischio: mentre estende sempre più il proprio impero, conosce alcune difficoltà produttive, che spingono il ministro della Guerra a ricorrere all’odiata rivale Ford per l’acquisto di 3.000 autocarri, necessari all’invasione dell’Etiopia. Solo con qualche ritardo la Fiat riuscirà, poi, a fornirne altri 5.000, ottenendo in cambio un’attenzione privilegiata nella fornitura di materie prime e lauti risarcimenti per la perdita di mercati esteri a seguito delle sanzioni decise contro l’Italia, dopo l’impresa di Etiopia, e della conseguente politica autarchica (in nome della quale aveva, peraltro ottenuto vaste concessioni di zone alpine per la ricerca di minerali “nazionali”). Sempre con il contributo statale, la Fiat costruisce in Veneto stabilimenti per la produzione di vetro in lastre, cementifici, fabbriche per la produzione di materieplastiche derivate dal catrame, e acquista perfino risaie, nel vercellese e in Emilia-Romagna.
Alla vigilia della guerra, gli operai sono ormai 50.000, il fatturato è passato dai 750 milioni del 1935 agli oltre 2 miliardi del 1937.

08 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (3)


Doppio e triplo gioco durante la guerra.
Alla vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il 15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni operaie troppo numerose).

Mussolini arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo” e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.

Non c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:

la grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat, nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.

E il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con amarezza:

questa Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di tutto il Paese.

Agnelli, intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni, aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco, un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la Repubblichina di Salò, che lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei “facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6 marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a Dongo.

I comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio, assai lontano dal fronte) e poi in Africa 8ugualmente senza l’ombra di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”. In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.

Gli unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le fabbriche. Agnelli e Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata per la perdita rapida di tutte le conquistefatte, sarà la cacciata definitiva dalla Fiat. Ma questa è un’altra storia…


[Tratto da: Il «capitalismo reale», di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]

07 agosto 2006

Libano 2006: Inquinamento da follia


Questa foto dell'inquinamento da "guerra" in Libano mostra la situazione di "follia".
Non riusciamo ancora a capire bene la situazione ma, è vero si vuole che continui.
Scalfari su repubblica.it fotografa una realtà.
Rice, Bush, e Blair. Hanno detto tutti e tre, quasi simultaneamente, che i "lutti collaterali" causati dai bombardamenti israeliani sono estremamente spiacevoli ma purtroppo inevitabili. Ed hanno aggiunto che proclamare un "cessate fuoco" senza varare prima un piano di pace sostenibile sarebbe del tutto inutile. Perciò si affretti la pace. La tregua d'armi verrà come inevitabile conseguenza.
Questo modo di ragionare obbedisce sicuramente a una sua logica, ma anche ad una sua follia. Sarebbe come se un poliziotto, cogliendo in flagranza un gruppo di stupratori all'opera, si astenesse dall'intervenire in attesa che il governo vari una solida legge per impedire e combattere gli stupri.

06 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (2)

Alla vigilia della “marcia su Roma”, i giornali controllati da Agnelli (che sono ormai molti) si schierano apertamente per Mussolini. E la FIAT, per vent’anni, “indosserà la camicia nera”. Se la toglierà solo il 25 luglio del 1943. Ma la sua ascesa, da modesta impresa locale a grande gruppo mondiale, è stata tutta determinata dal rapporto con il fascismo e le sue imprese di guerra. Seguiamone le tappe.
Il 28 ottobre, Agnelli è tra i primi ad inviare un telegramma di felicitazioni a Mussolini e, presto, gli chiede ingenuamente di smobilitare le squadracce e di “mettere un freno ai ras di provincia” (cioè al “quadrumviro” De Vecchi, rozzo e ignorante), temendo siano controproducenti. Subito dopo, tuttavia, riconosce ai sindacati fascisti, che non avrebbero i requisiti di legge, il diritto di partecipare alle elezioni della commissione interna. A chi dei suoi amici liberali lo critica per questo gesto, Agnelli risponde che i sindacati fascisti avevano il merito di evitare la contrapposizione “muro contro muro” e di dissociarsi dalla Fiom, che era rimasta legata ai “vecchi metodi di lotta”, cioè allo sciopero. E siccome De Vecchi, viceversa, considera suoi nemici nel partito i sindacati fascisti, che puntano sulla demagogia e non solo sui manganelli, Agnelli lo scavalca, invitando Mussolini a Torino per l’inaugurazione dello stabilimento del Lingotto. Mussolini accetta, pur evitando lo scontro diretto con De Vecchi (che, anche in ambiente fascista, era soprannominato, per l’aspetto fisico e la scarsa intelligenza, “un cazzo con i baffi”, ma continuava a controllare le squadracce piemontesi).
Poiché Cesare Maria De Vecchi continuava a pregiudicare i rapporti con la FIAT, che definiva la “plutocrazia industriale”, Mussolini, per allontanarlo da Torino, lo chiama a Roma, con la promessa di un alto incarico e l’offerta del titolo nobiliare di conte di Val Cismon; lo spedirà poi come governatore in Somalia, dove De Vecchi farà stragi, ma si arricchirà rapidamente.
Ad Agnelli, invece, Mussolini fa arrivare prima della visita al Lingotto prevista per l’autunno, la nomina a senatore del regno, che viene fatta da re “su proposta del capo del governo”. E prepara la sua “marcia su Torino”, come la chiamerà Piero Gobetti. Per prevenire contestazioni, anche Giovanni Agnelli prende le sue misure: convoca le commissioni interne per informarle, e ai mugugni risponde che “ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare. Vi lascio scegliere tra i primi due. Il terzo modo lo stroncherò con ogni mezzo”. La maggior parte degli invitati – selezionatissimi – al ricevimento, sceglieranno il secondo modo e gli operai rimasti al lavoro saranno dissuasi dal manifestarsi, vista la massiccia presenza di squadristi e di milizia.
Agnelli si compiaceva allora di far circolare la voce che fosse fascista a Roma e antifascista a Torino (bella cosa!), ma chiudeva il suo discorso con un “Viva Mussolini!”. Comincia a dire che è “mussoliniano”, ma non fascista… Intanto, ottiene dal “capo”, con cui stabilisce un rapporto diretto, oltre all’abolizione della nominatività dei titoli azionari, anche l’accantonamento dei provvedimenti di confisca dei sovraprofitti di guerra per gli industriali (che erano stati parte del programma demagogico del primo fascismo), la riduzione delle imposte di ricchezza mobile sulle società anonime e i loro amministratori e, soprattutto, lo scioglimento prima delle commissioni interne e poi dei sindacati, per dare vita al nuovo ordinamento corporativo.
Inoltre, con la complicità di ministri come Aldo Finzi (ebreo e fascista) e del quadrumviro Italo Balbo, il neosenatore Agnelli si impossessa di altri quotidiani sottratti all’opposizione, tra cui il Resto del Carlino. Al momento della crisi per l’assassinio di Giacomo Matteotti, il cui corpo risultò essere stato trasportato con un’auto di quel quotidiano bolognese, Agnelli tace a lungo, con grande stupore dei suoi vecchia mici liberali. Quando si arriverà al voto, Agnelli lo darà a Mussolini, che non dimenticherà.
Agnelli ha, nel frattempo, acquistato la Juventus, per assicurarsi le simpatie popolari con la vecchia ricetta degli imperatori romani: panem et circenses. Introdurrà per primo le paghe favolose ai calciatori e inventerà gli “oriundi”, per aggirare le disposizione governative contro l’utilizzazione di giocatori stranieri. Ma soprattutto, consolida la struttura familiare di controllo dell’impero finanziario, che cresce a dismisura.
Nel 1929, ha già consistenti interessi nei Balcanie in Estremo Oriente, ma si trova subito in difficoltà. Riesce a resistere in Italia, ma perde colpi all’estero. La FORD che pure retribuisce i suoi operai quattro volte di più di quelli FIAT, riesce a vendere le sue vetture ad un prezzo quattro volte inferiore. La Francia, che era la migliore cliente della FIAT, alza i dazi doganali di entrata dal 25% al 60%. Il mercato esterno è praticamente perduto; il fatturato, tra il 1929 e il 1931, si riduce della metà.
Ma c’è un pericolo maggiore: la FORD tenta di sfondare sul mercato italiano, dopo essersi assicurata la collaborazione di una potente lobby di industriali e finanzieri milanesi e di un gruppo di gerarchi, tra cui Emilio De Bono (vecchio amico del De Vecchi) e Costanzo Ciano, il cui figlio Galeazzo aveva sposato Edda Mussolini e al quale era stato promesso che uno dei due stabilimenti Ford in Italia sarebbe stato costruito a Livorno, sua città natale. Partecipavano all’operazione anche il ministro Bottai e il presidente dell’Automobil Club Silvio Crespi. Questa lobby era tutt’altro che disinteressata, ma avanzava un argomento ragionevole: la concorrenza americana sarebbe stata utile, stimolandola, alla stessa FIAT, le cui difficoltà dipendevano da una generale carenza tecnica, da un’insufficiente programmazione e dalla mancanza di modelli utilitari. Il governo, poi, doveva temere ritorsioni internazionali a una troppo aperta politica protezionistica in favore della casa torinese.
Agnelli, affiancato ormai dal fedellissimo “professore” Vittorio Valletta, punta subito sullo spirito nazionalista di Mussolini, insofferente all’invadenza di prodotti stranieri, vista come una mortificazione dell’orgoglio nazionale. E Mussolini avoca a sé ogni decisione in materia, bloccando i piani della Ford, “che non può pretendere di rifarsi in Europa delle perdite che subisce a casa sua”. Anzi chiude d’autorità – per questioni “d’ordine nazionale” – gli impianti che il gruppo americano aveva già nel porto franco di Trieste. Gli azionisti FIAT salutano con gioia questa decisione, che blocca anche un altro tentativo della General Motors di installarsi in Italia, “considerandola alla stregua di una colonia”; e, il 6 marzo 1930, votano all’unanimità la proposta di ricordare la decisione del “duce” con un’epigrafe a caratteri d’oro, collocata nell’atrio principale del Lingotto.
I gerarchi fascisti, ormai legati agli interessi stranieri, non demordono: Costanzo Ciano scrive a Mussolini, segnalando che la FIAT, nonostante gli interventi in suo favore, aveva ridotto ulteriormente l’orario di lavoro (ovviamente con riduzione del salario) e aveva sospeso la produzione in vari reparti del lingotto. Invano. Quando la FIAT si rivolge a Mussolini avvertendo che, in mancanza di nuovi e ancora più energici provvedimenti contro la concorrenza estera, avrebbe dovuto adottare altre “gravi e dolorose decisioni” sul piano dell’occupazione, ottiene subito che i dazi doganali sulle autovetture estere vengono aumentati del 130% ed estesi anche alle parti staccate. Di fatto teme che la Ford ritorni all’attacco, attraverso un accordo di joint venture firmato con l’Isotta Fraschini per la produzione di un’autovettura utilitaria con maestranze italiane. La Ford ha sempre dietro di se Ciano, che scrive al “Duce” che anche “gli operai che lavorano nelle fabbriche milanesi o in altre parti d’Italia hanno diritto alla medesima protezione di quelli che lavorano in Fiat”. Inolte, segnala che nel capitale azionario sarebbero stati maggioritari due italiani: il conte Gian Riccardo Cella e Ludovico Mazzotti Biancinelli, ex dirigente dell’Ilva.
Ma Agnelli pone un tassativo “o con noi o contro di noi”, mentre qualcuno informa Mussolini che “dietro gli industriali milanesi si nascondono alcuni gerarchi del partito”. Dopo una vigorosa strigliata ai gerarchi lobbysti, il “duce” blocca la costituzione della joint venture, diffida attraverso Bottai la casa di Detroit dal continuare i suoi tentativi e, soprattutto, emana due decreti: il primo, riserva al governo di deciderequali industrie sono fondamentali “per la fabbricazione di prodotti essenziali per la difesa della nazione”; il secondo, riconosce tra questi l’industria dei trasporti terrestri. La FIAT ha vinto.
E la FIAT ricambia, sfornando finalmente, con il nome di “Balilla”, l’utilitaria voluta dal “duce” e i treni popolari, che vengono battezzati “littorine” in onore del fascio littorio. Nel 1932, una nuova visita di Mussolini al Lingotto si rivela ben diversa dalla prima. Gli operai hanno dovuto sospendere il lavoro in tutti gli stabilimenti e recarsi inquadrati e preceduti da fanfare alla manifestazione. Il figlio di Giovanni Agnelli (e padre di Gianni) sta sul palco in divisa fascista. Mussolini concede l’avallo a un grosso prestito per forniture militari alla Turchia, alla Grrecia e all’Argentina; poi fa sapere, però, che è ormai opportuno che il senatore prenda la tessera del partito. E questi lo farà, forse con scarso entusiasmo, ma anche senza esitazione.
Elena Croce, la figlia del filosofo, osserverà a questo proposito:
Agnelli affettava con umiltà un’ssoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.
Agnelli e Valletta hanno ormai tutte le porte aperte a Roma: riescono a bloccare un progetto di monopolio delle ferrovie statali nel trasporto pubblico e un altro di una speciale tassazione degli automezzi pesanti, che viene fatto cadere in concomitanza con l’uscita di un nuovo modello di autocarro. L’Alfa Romeo viene inspiegabilmente sostituita dalla Fiat in alcune grosse forniture ai cantieri navali di Monfalcone. “Nella mutata economia politico-sociale del paese guidata da S.E. il Capo del Governo – dichiara Agnelli – anche l’industria trova una nuova comprensione dei suoi fini nazionali e sociali”.
E intanto ottiene anche: l’esenzione della Balilla dalle tasse di circolazione; la revoca delle misure restrittive dei servizi automobilistici rispetto alle ferrovie; l’estensione della speciale protezione doganale prevista per le auto a tutte le costruzioni meccaniche sussidiarie. Sempre nel supremo interesse nazionale…
Nel 1935, tuttavia, la Fiat corre un brutto rischio: mentre estende sempre più il proprio impero, conosce alcune difficoltà produttive, che spingono il ministro della Guerra a ricorrere all’odiata rivale Ford per l’acquisto di 3.000 autocarri, necessari all’invasione dell’Etiopia. Solo con qualche ritardo la Fiat riuscirà, poi, a fornirne altri 5.000, ottenendo in cambio un’attenzione privilegiata nella fornitura di materie prime e lauti risarcimenti per la perdita di mercati esteri a seguito delle sanzioni decise contro l’Italia, dopo l’impresa di Etiopia, e della conseguente politica autarchica (in nome della quale aveva, peraltro ottenuto vaste concessioni di zone alpine per la ricerca di minerali “nazionali”). Sempre con il contributo statale, la Fiat costruisce in Veneto stabilimenti per la produzione di vetro in lastre, cementifici, fabbriche per la produzione di materieplastiche derivate dal catrame, e acquista perfino risaie, nel vercellese e in Emilia-Romagna.
Alla vigilia della guerra, gli operai sono ormai 50.000, il fatturato è passato dai 750 milioni del 1935 agli oltre 2 miliardi del 1937.