10 febbraio 2008

Il riciclaggio è solo quello POLITICO?



Gli appalti. La scelta delle aree per le discariche. Le aziende di smaltimento. Persino le assunzioni al Commissariato. Nella regione il business dei rifiuti scatena gli interessi di tutte le forze politiche.

Da una parte i nomi e cognomi dei dipendenti, dall'altra quelli dei loro sponsor politici. Ecco, se si vuole capire che cosa è davvero accaduto in Campania dove, dall'11 febbraio del 1994, esiste un Commissariato per l'emergenza rifiuti che ha speso quasi 2 miliardi di euro senza riuscire a centrare nessuno degli obiettivi imposti, si può benissimo partire da qui. Da questo lungo elenco di nomi preparato in via ufficiosa nel 2004 dalla direzione del personale nelle settimane in cui, dopo le dimissioni di Antonio Bassolino, il Commissariato veniva scorporato in tre diverse sezioni: rifiuti, acque e bonifica.

Leggendo la lista, di cui L'espresso è riuscito a ottenere una copia, diventano, riga dopo riga, chiare le responsabilità di un'intera classe politica: non solo dei bassoliniani del Partito democratico che governano la regione, ma anche dell'opposizione di centrodestra che all'ombra del Vesuvio ha partecipato e partecipa con passione all'immondo banchetto della spazzatura.

Sì perché qui la monnezza, un business che tra appalti e stipendi, fattura un milione di euro al giorno, è un affare di tutti. I politici, prima ancora che la camorra, ci guadagnano non solo in termini di consenso elettorale, imponendo assunzioni nei 18 diversi consorzi di raccolta, tutti rigorosamente lottizzati, ma anche indicando le aree di imprenditori amici dove potrebbero essere aperte discariche e centri di stoccaggio, gestendo pompe di benzina convenzionate con le aziende dei rifiuti, improvvisandosi trasportatori e soprattutto creando decine e decine di aziende a capitale misto pubblico-privato dove piazzare amici, compagni di partito e parenti.

Anche per questo il Commissariato, dove pure nel corso degli anni hanno lavorato giorno e notte molti tecnici di assoluto valore, si è a poco a poco trasformato in carrozzone dove arrivava, 'comandato' da altre amministrazioni pubbliche, personale ansioso di intascare le 70 ore di straordinario mensili garantite a ciascun dipendente. Così, mentre il nuovo commissario Gianni De Gennaro va affannosamente a caccia di terreni dove riversare almeno una parte delle oltre 300 mila tonnellate di rifiuti che ancora intasano gli angoli delle strade della regione, la lista segreta dei vecchi dipendenti del Commissariato diventa adesso una fotografia impietosa di quanto è accaduto. Un'istantanea della Casta che comanda in Campania.

Scorrendo l'elenco, le sorprese non mancano: a segnalare i 'comandati' non erano solo i Ds, la Margherita, l'Udeur. Ci davano dentro pure Forza Italia e Alleanza nazionale. Negli uffici del Commissariato erano per esempio di casa Antonio e Flavio Martuscello, i due dioscuri azzurri del napoletano, rispettivamente deputato ed ex sottosegretario all'Ambiente il primo, consigliere regionale più votato d'Italia, il secondo. I Martuscello avevano sponsorizzato sei diversi nomi. Altri due erano invece stati proposti dal consigliere regionale azzurro Giuseppe Sagliocco, il quale, dopo aver inviato tecnici di suo fiducia al Commissariato, tre anni fa non si è trovato in imbarazzo a capeggiare, assieme a un bel gruppo di parlamentari del centrodestra, le proteste della popolazione che chiedeva il blocco dell'unica discarica ancora disponibile quella di Parco Saurino 2, a Santa Maria La Fossa. Una segnalazione era poi arrivata tramite Francesco Bianco, fino a due anni fa in Regione nelle fila del partito di Berlusconi, e ora capogruppo in Comune per l'Udeur.

Lì Bianco si è ritrovato accanto ai professionisti delle nomine: gli iscritti del partito di Clemente Mastella (nell'elenco compare pure una sua sponsorizzazione diretta) che al Commissariato piazzavano personale per intervento del segretario regionale Antonio Fantini, di Pasquale Giuditta, un deputato sposato con la sorella di lady Mastella, dell'ex assessore regionale all'Ambiente Ugo De Flaviis poi cacciato dal Campanile ("Pago per le nomine non fatte", disse De Flaviis) e dell'ex sottosegretario all'Agricoltura nel governo D'Alema, Nello Di Nardo, dal 2006 cordinatore nazionale degli eletti dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ancora più folta ovviamente è la pattuglia dei raccomandati dal Partito democratico (Ds e Margherita). A parte i nomi che recano vicino la dicitura 'Presidenza' (leggi Bassolino), dietro ai quali si celano non solo tecnici considerati di area di centrosinistra, ma anche raccomandati dal centrodestra (tra i dipendenti c'è per esempio la nipote di un consigliere regionale di Alleanza nazionale), nella colonna degli sponsor appare il nome del ministro dell'Innovazione Luigi Nicolais, del sindaco di Ercolano (politicamente uomo di Nicolais), Nino Daniele, del leader dei rutelliani in Campania, Antonio Villari e dell'ex subcommissario ai rifiuti ed ex assessore al Comune, Massimo Paulucci. Non è tutto. La lista prosegue citando spesso il capogruppo dei Ds in Regione, Antonio Amato, il fedelissimo di De Mita Antonio Valiante, l'assessore comunale Giorgio Nugnes e Andrea Losco, oggi eurodeputato rutelliano, ma un tempo commissario ai rifiuti e presidente di Regione, dopo l'esponente di An, Antonio Rastrelli (i nomi degli uomini di Rastrelli vengono indicati nell'elenco con la dicitura '99').

Adesso con i rifiuti di nuovo per le strade, il clima di consociativismo politico che ha reso possibile l'ennesima emergenza non sfugge ai campani, che scendono in piazza per protestare. E a farne le spese sono un po' tutti. Chi tenta di bloccare la polizia e i funzionari di De Gennaro ormai non fa più differenze di colore di casacca. Ne sa qualcosa Pietro Diodato, consigliere regionale di An e membro della commissione Ambiente, celebre a Napoli per una serie di denunce contro gli sprechi della giunta comunale di Rosa Russo Iervolino. Diodato con la spazzatura ci è cresciuto. I suoi nonni fino a vent'anni fa trasportavano con i loro camion la monnezza nella discarica privata di Pianura, quella che De Gennaro avrebbe voluto riaprire e che invece ospiterà solo un sito di stoccaggio per ecoballe. Oggi Diodato nel quartiere dove è nato e cresciuto ci può mettere piede solo a suo rischio e pericolo. Ai primi di febbraio la folla inferocita ha bruciato un grande distributore di benzina a forma di camion da poco aperto da sua nipote e la sua sede elettorale. Agli abitanti, che inizialmente si muovevano in massa assieme a ultras del Napoli e gruppi di figli di camorristi in motorino, non era andata giù un'intervista in cui Diodato si mostrava possibilista sull'utilizzo della discarica e soprattuto un emendamento da lui presentato in occasione della discussione della legge regionale sui rifiuti. Cosa proponeva Diodato? Semplicemente che i capannoni vicini alla discarica potessero essere utilizzati per ospitare impianti per la separazione della spazzatura. "La mia intenzione era solo quella di creare dei nuovi posti di lavoro", assicura il consigliere di An. Ma per i manifestanti il fatto che sulla strada diretta ai capannoni, dove ci sono già altri distributori, i famigliari di Diodato avessero aperto una pompa proprio della marca di carburanti con cui è convenzionata l'azienda comunale della nettezza urbana, era diventata la prova di come anche lui sulla monnezza ci volesse marciare. Diodato, ovviamente nega, ma intanto si trova a fare i conti con il nemico in casa.

Il vero leader della protesta di Pianura è infatti il consigliere comunale Marco Nonno, un fascista di altri tempi che sull'auto tiene appiccicato un adesivo che avverte: 'Balilla a bordo'. Suo fratello è stato condannato a 14 anni di carcere per aver sprangato a morte, sul finire degli anni '70, un ambientalista, lui però è fatto di altra pasta e anche se adesso è nei guai per aver tentato di vendere via Internet una vecchia mitragliatrice da guerra, respinge le accuse di chi lo segnala come uno dei fomentatori degli scontri: "Non ho pagato nessuno dei manifestanti e soprattuto non ho fatto affari loschi. Con quelli che hanno costruito intorno alla discarica non ho niente da vedere". Una precisazione d'obbligo, visto che tra i primi nemici della discarica, oltre che gli abitanti, ci sono gli imprenditori legati alla camorra che hanno edificato palazzine abusive il cui valore crollerebbe se qui arrivassero i rifiuti.

In Campania del resto funziona così. Pensi alla monnezza e spunta il politico. Anche quello che non ti aspetti. Persino Paolo Russo, il parlamentare di Forza Italia che insieme al senatore di Rifondazione Tommaso Sodano nella passata legislatura fece luce su molti degli affari sporchi legati alla gestione del business ambientale, ha vicino a lui chi fa soldi con la spazzatura. Il fratello del suo assistente parlamentare compare nella compagine societaria di tre aziende interessate nella gestione del ciclo dei rifiuti. Mentre la Ecocampania, specializzata in raccolta, faceva capo al segretario provinciale dell'Udeur di Caserta, Nicola Ferraro, poi arrestato dalla Procura di Santa Maria Capua a Vetere. Sempre di rifiuti, tramite quattro società al quale è stata tolta la certificazione antimafia per condizionamenti da parte del clan dei Casalesi, si occupa anche il fratello di Nicola Marrazzo, consigliere regionale e segretario provinciale di Napoli dell'Italia dei Valori.

Ma è andando a Caserta che il continuo conflitto d'interessi, o meglio gli interessi che intrecciano il business ambientale con la politica, diventano ancora più evidenti. Qui, secondo i pm antimafia, la facevano da padrone aziende di smaltimento dei fratelli Orsi, due imprenditori legatissimi al presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, Mario Landolfi, e al deputato di Forza Italia Nicola Cosentino, un ex socialdemocratico più volte candidato dagli azzurri nonostante la parentela acquisita con il boss Peppe Russo, detto ''o Padrino'. Gli Orsi erano in costante contatto con il segretario particolare di Landolfi, ora arrestato, ma visto che si trattava di gente dai forti ideali, quando al governo c'era finita la sinistra si erano iscritti ai Ds per intercessione del consigliere regionale Angelo Brancaccio. Poi anche Brancaccio è finito in manette. E una volta scarcerato, l'ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, lo ha voluto con sé come vice segretario regionale dell'Udeur. Il riciclaggio, almeno a livello politico, in Campania, nonostante tutto funziona.
fonte: L'Espresso

09 febbraio 2008

La costituente? La rampa di lancio per Grillo


La casta ha i suoi privilegi e, naturalmente fa di tutto per mantenerli. Non c'è un metodo "legale" per diminuire i loro privilegi. Quindi, una sola idea la butta giù il Blondet sul suo spazio virtuale. La raccolgo e la giro....

Qualcuno (Montezomolo, Casini…) nei giorni scorsi ha buttato là l’auspicio che la prossima sia «una legislatura costituente».
L’idea, ammesso che fosse un’idea, appare di nuovo sepolta nel frenetico nullismo della «politica», in vista delle elezioni anticipate.
Invece è l’idea giusta.

L’idea rivoluzionaria: non una vaga «legislatura costituente», bensì una vera e propria Assemblea Costituente, come quella del 1946 che scrisse la Costituzione oggi decrepita.
Su questo dobbiamo mobilitare il popolo di internet.
Se qualcuno conosce Beppe Grillo, glielo gridi: Beppe, è questa la tua battaglia!
Raccogli le firme per la nuova Costituente!
Sicuramente sarebbe eletto lui e le persone che indicherà.
La «gente» potrebbe eleggere per una volta persone non indicate dai partiti, per cambiare davvero le cose.

Perché questo, pensateci, sarebbe rivoluzionario: per i 18-24 mesi della sua esistenza, l’Assemblea Costituente sarebbe un organo eletto antagonista del Parlamento partitico, e più legittimo di esso. Con possibilità straordinarie in funzione anti-Casta.
Perché più legittima?

La sua maggiore legittimità dipenderebbe dalla maggiore indipendenza dei costituenti dai partiti. Ovviamente, i partiti presenteranno i «loro» candidati, che proporranno ai loro elettorati-robot: se avessero pieno successo, la Costituente sarebbe la fotocopia del marcio parlamento, ci troveremmo Mastella padre della costituzione nuova.
Nulla di rivoluzionario.
Per contrastare questo, occorrono due provvedimenti.

Primo: elezione dei candidati non per circoscrizioni (che producono solo delegati che sono espressioni delle clientele locali, ossia della corruzione di Casta), bensì per collegio unico nazionale: in questo modo, sarebbero elette personalità con idee.
Sarebbe eletto sicuramente Grillo e le persone da lui indicate.
Sarebbero eletti opinion leader, personalità note per i loro scritti e pensieri (buoni o cattivi, importa meno), note sul piano nazionale, non manovratori di denaro pubblico a Ceppaloni.
Sarei forse eletto persino io, modesto sottoscritto: che forse ho 200 mila voti tra chi mi conosce nell’intera Italia, ma ben pochi in una sola circoscrizione, non avendo foraggiato clientele nè potuto distribuire favori e posti.

Secondo provvedimento necessario: i candidati alla Costituente devono essere esclusi da ogni altra futura candidatura.
Se eletti, lavoreranno per 18-24 mesi a correggere la Costituzione attuale vecchia e marcia, poi tutta a casa.
Per sempre.
Mai più potranno candidarsi deputati o consiglieri regionali o comunali.
E’ facile capire che, con questo limite, i politici professionali, da Mastella a Casini, da D’Alema ad Alfredo Biondi (che due giorni fa ha detto «il parlamento è casa mia») non avranno nessun interesse a farsi costituenti, perché poi non potrebbe fare il loro lucroso mestiere di politici a vita, non sapendo fare altro.

Una attenuazione di questa misura sarebbe: i candidati s’impegnano con giuramento a non presentarsi ad elezioni, né politiche né amministrative, prima di cinque anni dalla chiusura dei lavori della Costituente.
Anche così, i Mastella e D’Alema non si candiderebbero a questa assemblea, perché non riuscirebbero a stare lontani dall’altra – quella del malaffare e dello stipendio – per cinque anni.
Sarebbero così eletti costituenti dei cittadini che, dopo aver reso questo servizio alla patria, se ne tornano a casa da normali privati.

Già questa è una selezione: di persone disinteressate, più onorevoli degli «onorevoli».
E questo aumenta la loro legittimità rispetto al parlamento.
Pensate: per uno-due anni, un’assemblea di questo genere esisterebbe a fianco del Parlamento, più legittimata delle Camere.
Un organo legislativo supremo più onorabile e potente del cosiddetto «potere legislativo».
Le occasioni rivoluzionarie di una simile assemblea sarebbero molte e straordinarie, a cominciare da un effettivo «controllo» delle peggiori magagne del legislativo, fino ad interventi imprevedibili: esattamente come nel 1789 gli Stati Generali (l’assemblea convocata dal re rovinato dai debiti, per chiedere i soldi al popolo) si autoproclamò Assemblea Nazionale costituente, e cominciò la Révolution.

S’intende che una Costituente non si occupa della politica giorno-per-giorno.
Si occupa di correggere la vecchia Costituzione là dove (come ha detto abbastanza precisamente Montezemolo) essa «non tiene conto dei problemi veri del paese», e copre una «politica sempre più lontana dalla realtà».
Questo significa che, di per sé, la Costituente si erge contro la Casta.

Perché infatti, come la prima Costituente del 1946 si preccupò di formulare una Costituzione che impedisse il ritorno improbabile del fascismo, della «oppresione» e della «dittatura», è chiaro che oggi, per questa generazione, il nemico della democrazia non è il fascismo, bensì la Casta.
Quella Costituzione si volle «antifascista».
Questa, deve volersi «anti-castista».
Deve studiare e promulgare una Costituzione che debelli la Casta e ne impedisca durevolmente il ritorno al potere.
Come?

Questo lo stabilirà la Costituente stessa, nel pubblico aperto dibattito.
Certo occorrerà studiare bene tutti gli uncini, i tentacoli e le ventose con cui la Casta si aggrappa al potere reale – alla cassa del denaro pubblico – onde strapparglieli ad uno ad uno.
In questo senso, la proposta di Grillo – di escludere dalle cariche elettive i condannati penali, anche in primo grado – segna una via praticabile.
E così l’altra proposta, quella di vietare di ripresentarsi dopo due mandati.
Si vede bene che Grillo ha un animo costituente, che sta cercando di spezzare la politica come mestiere lucroso, di sbatter fuori i deputati che sono deputati da 60 anni.
Grillo costituente!

Ma quelle sono solo prime indicazioni, che devono trovare posto in un quadro complessivo e coerente.
Butto giù un paio di idee, da esporre al giudizio e al dibattito.

Lo scopo essenziale di una nuova Costituzione deve essere quello di ricreare il sano antagonismo tra «camere» e «governo» (tra legislativo ed esecutivo) che presiedette alla nascita dei parlamenti.
I primi parlamenti non nacquero per sfornare leggi a capocchia, come oggi.
Nacquero come controllori, a nome del popolo, delle eccessive spese pubbliche del re (il governo), e quindi dell’eccessivo peso tributario imposto ai cittadini.
I parlamenti erano dunque «contro» il governo.
Assemblee di cittadini elette da cittadini per tenere sotto controllo l’esecutivo, e vietargli di imporre troppe tasse.
Discutendo ad uno ad uno, gelosamente, occhiutamente, i progetti di spesa: un’altra guerra?
Non sia mai!
Un nuovo fastoso Palazzo di Versailles?
Pagatelo tu!

Oggi, accade il contrario.
I governi sono espressione del parlamento, ossia dei partiti e dei politici di mestiere.
Se c’è un governo di «sinistra», è perché il parlamento ha una maggioranza di sinistra, interessata a partecipare alle malefatte del governo e a coprirne le ruberie e gli sbagli o le iniquità.
Lo stesso vale per la «destra».
Non c’è da stupirsi se la spesa pubblica è aumentata mostruosamente.
Nessuno controlla la spesa pubblica.
Né il legislativo né il «suo» esecutivo hanno interesse a frenarla.
Governo e parlamento sono pappa e ciccia.
Ed è qui il cancro, la malattia centrale della democrazia.

La Costituente dovrà concentrarsi dunque sui metodi legali, da inserire nella Costituzione, per impedire il pappa e ciccia.
Come?
Secondo me, c’è un solo modo.
Separare per Costituzione il modo di formazione del governo dal modo di formazione delle Camere.

Per esempio: il popolo vota per suffragio universale e diretto il capo del governo.
Questo è obbligato a scegliere i suoi ministri fra i non-parlamentari, né quelli in carica (soprattutto) né quelli passati.
Deve scegliere dei tecnici non eletti, che rispondono a lui (e possono essere chiamati dal parlamento per essere interrogati), ma di cui lui è essenzialmente il solo chiaro responsabile politico.
Il capo del governo (che può essere anche capo dello stato come in USA, oppure no) è votato dal «popolo» in quanto tale, e si offre al giudizio del popolo perché esprima un parere sul suo primo mandato di governo, con un secondo mandato.
Anche il parlamento viene eletto dal »popolo», sia pure organizzato in fazioni, in partiti, in categorie, in clientele.
Questo allo stato attuale è probabilmente inevitabile.
Come evitare il pappa-e-ciccia?

Facile e già applicato in vari paesi: con la sfasatura nel tempo delle elezioni parlamentari e di quelle del capo del governo.
In tal modo, almeno nel secondo mandato, il capo si trova generalmente un parlamento d’opposizione.
Come Bush repubblicano, che ha un congresso democratico.
Naturalmente questo mezzo non è risolutivo, come dimostra i caso americano: il Congresso democratico è servilissimo verso Bush repubblicano disastroso.
L’ideale sarebbe che i cittadini votassero per ceti (gli «stati» della Francia), e più precisamente per categorie socio-fiscali: lavoratori dipendenti privati tassati alla fonte, dipendenti pubblici, lavoratori autonomi, professionisti, capitalisti.
Invece di «far politica» i rappresentanti di ogni categoria fiscale controllerebbero non solo la spesa del governo, ma le altre categorie fiscali, le loro elusioni e i privilegi loro accordati eventualmente dal governo a danno delle altre categorie.
Sarebbe un bel parlamento, che «tiene conto dei problemi veri del paese», litigioso all’interno (com’è l’Italia fino nelle riunioni di condominio) ed apolitico.
Ma mi rendo conto di proporre un’utopia.

L’altra utopia – ma la propongo alla discussione – sarebbe: per Costituzione, il parlamento si riunisce in due sessioni, di un mese ciascuna, per approvare o respingere il bilancio di previsione e per approvare o respingere il consuntivo del governo.
Per dieci mesi all’anno, a casa a lavorare da privati: ancora una volta, l’elezione andrebbe trasformata in una corvèe, in un sacrificio al servizio del paese, non in un lucroso mestiere.
E ciò limiterebbe la proliferazione legislativa, attività malefica dell’attuale parlamento.
Precise norme costituzionali dovrebbero «vietare» la proposizione di leggine a scopo clientelare, e in generale limitare il numero di nuove leggi a non più di due all’anno per fazione o partito.

Nell’antica Roma, in 500 anni furono promulgate 300 leggi, e per lo più pessime: liste di proscrizione, «non licet esse christianos» eccetera.
La società non ha bisogna di leggi, ma di codici e giurisprudenza.
E ovviamente, la Costituente dovrebbe stabilire con estrema precisione restrittiva le «incompatibilità».
Non solo fra cariche locali e nazionali; anche i magistrati dovrebbero essere non-eleggibili se non dopo cinque anni dall’aver lasciato la toga
I funzionari pubblici d’alto livello, i grand commis (come Prodi e Ciampi e Draghi), dovrebbero essere parimenti ineleggibili; e così i giornalisti della Rai, per esempio.

Parimenti occhiuta, minuziosa e gelosa dovrebbe essere la definizione dei «conflitti d’interesse», che non sono solo quelli di Berlusconi.
Se Prodi mette ai posti del sottogoverno i suoi ex-dipendenti di Nomisma, anche quello è un conflitto d’interessi di prima grandezza.

La faccio finita, per non essere noioso.
Ho buttato giù in fretta due idee.
Ma l’idea centrale è: ci vuole una Costituente, e questo sarebbe già un atto rivoluzionario, anti-Casta.
Qualcuno lo dica a Beppe Grillo, che ha i mezzi per raccogliere le firme: è la nostra ultima speranza.

Maurizio Blondet

08 febbraio 2008

I derivati in mano ad aziende inconsapevoli


Un industriale strangolato dai derivati ha video-registrato di nascosto i suoi incontri con i funzionari di Unicredit che gli hanno fatto firmare quei contratti finanziari ad altissimo rischio. "Mi hanno rovinato. Ho dovuto chiudere l'azienda e licenziare tutti i miei 430 operai", denuncia Francesco Saverio Parisi, titolare di Divania, una fabbrica di divani che prima del 2003 era una delle prime industrie esportatrici della Puglia, con 65 milioni di euro di fatturato.
"Ci ho messo un anno a capire come i banchieri hanno distrutto la mia impresa. Ora li ho denunciati, per truffa e usura, e li ho citati a giudizio davanti al tribunale civile. Come tutte le vittime dei derivati, posso sembrare Davide che sfida Golia. Ma invece della fionda ho la telecamera". La causa civile è tanto pesante che il colosso del credito ha dovuto avvisare tutti i risparmiatori: "Divania ha chiesto la condanna di Unicredit al pagamento di 276 milioni di euro più gli interessi", spiega la banca nel prospetto informativo della fusione con Capitalia. Unicredit avverte di "non avere effettuato, per ora, alcun accantonamento", perché la citazione è "recente" e comunque "sproporzionata": la perdita netta per Divania, secondo la banca, non supera i 20 milioni. E gli altri danni sono tutti da provare.

Toccherà ai giudici misurare torti e ragioni. Ma di certo prima d'ora non si era mai visto un cliente che cerca di incastrare la banca con due video, per documentare 'in diretta' i veri rapporti di forza sulla spinosa questione dei derivati. Cioè quelle 'scommesse' finanziarie per cui la Consob ha appena inflitto clamorose multe a tutto il vertice di Unicredit.

Cos'era Divania, lo testimonia il sindacato. "Era una delle più belle realtà industriali del Sud", dichiara Lorenzo Gullì, dirigente dei tessili Cisl, "non abbiamo mai avuto problemi di lavoro nero né di evasione fiscale o contributiva.
Fino al 2002 era un'azienda forte, che esportava soprattutto negli Usa. La crisi è stata imprevista e improvvisa. L'unica nostra contestazione a Parisi era che pagava troppo gli operai". Scusi? "Sì, era un po' paternalista: versava gratifiche senza contrattarle con noi".

Oggi i 40 mila metri quadrati dello stabilimento sono una desolata distesa di macchinari spenti, cumuli di pellame, camion sgonfi, muletti impolverati, computer scollegati e capannoni deserti. Fino al 2002 il fatturato cresceva a ritmi da primato: più 37 per cento. Le cause della crisi le stabilirà il processo. Di certo la bolla dei derivati, che ora fa tremare le economie di tutto il mondo, qui è scoppiata già nel 2003. E dalle oltre mille pagine di atti della causa civile si può ricavare un nocciolo duro di ricostruzione dei fatti che nessuno contesta.

Parisi, un imprenditore che si è fatto da sé, ha avuto Unicredit come banca di riferimento fin dagli anni '80. Nel 2000 i dirigenti di Bari lo hanno convinto a lanciarsi nei derivati: contratti complicatissimi, che in teoria sono un'assicurazione contro i rischi di cambio del dollaro. In pratica sono una scommessa che ha per controparte la stessa banca: ogni euro perduto dal cliente finisce a Unicredit, con provvigioni e commissioni. "Io non avevo nessun rischio di cambio", protesta ora Parisi, "perché proprio Unicredit mi anticipava, il giorno stesso dell'emissione, il 100 per cento delle mie fatture con gli Stati Uniti. Un dirigente della banca, però, mi confidò che le filiali avevano ricevuto l'ordine di 'fare budget con i derivati' e che mi conveniva accettare per non compromettere i normali fidi. I funzionari dicevano che non correvo rischi, perché loro avrebbero azzerato ogni perdita con nuovi contratti".

Dopo i primi anticipi (up-front) a Divania,le scadenze annuali si chiudono con buchi crescenti. La banca li tappa con altri up-front, che però corrispondono a nuovi contratti sempre più rovinosi. In cinque anni Divania punta sui derivati l'incredibile cifra lorda di 219 milioni di euro: il quadruplo del suo fatturato massimo. Il giro di scommesse regge finché è pareggiato dagli utili industriali. Nel 2003, alle prime difficoltà di mercato ("Crollo del dollaro, concorrenza sottocosto cinese, una partita difettosa di pellami"), i debiti finanziari schiacciano l'impresa. Unicredit segnala le perdite e tutte le altre banche tagliano i fidi. L'imprenditore chiede copia di tutti i contratti, ma Unicredit ne trasmette solo una parte. Il 10 marzo 2004 Parisi, esasperato, nasconde una telecamera in un raccoglitore, lo sistema sulla mensola del suo ufficio e riprende di nascosto la riunione, durata un'ora, con il direttore della filiale Unicredit e il suo tecnico di derivati.

Stando ai contratti, è l'imprenditore che dovrebbe ordinare alla banca cosa, come e quando comprare. Anzi, Unicredit gli ha fatto firmare un'autocertificazione che lo identifica come "operatore qualificato", insomma un mago dei derivati. Il video tuttavia mostra che Parisi non ne capisce nulla: "Io, queste operazioni, non so di che cavolo parliamo... Io ho firmato, per carità, però almeno posso capire? (...) Io potevo sapere che tu mi dai 1.300.000 e per cinque anni devo pagare?". Neppure il direttore sa spiegargli i derivati: "Scusami, Saverio... ti ho fatto firmare una cosa che non era del mio settore...". Stando al video, il cliente viene invitato a "regolarizzare", cioè a "firmare dopo", speculazioni già concluse dalla banca.

Parisi protesta: "Ora mi ritrovo tutta una serie di operazioni che l'ok chi l'ha dato? Io non ho mai dato nessun ok". Anche la responsabile della contabilità di Divania, Anna Armenise, è furibonda: "Ci sono contratti che noi non abbiamo proprio... Li ho chiesti un sacco di volte... A me non è mai capitato di dover registrare a posteriori delle cose che non conosco". Replica del tecnico: "Le facciamo per postergare le operazioni in perdita". Parisi teme "un'altra mazzata di morte a fine anno" e insiste: "Non sarebbe stato opportuno che qualcuno mi avvisava?". Direttore: "Ho già chiesto scusa".

Nel 2004 i debiti strozzano Divania. Il fatturato crolla a 8 milioni. Per evitare il fallimento, Parisi invoca una convenzione-transazione, garantita da ipoteche milionarie, che la banca gli concede solo nel giugno 2005. Sarà un caso, ma negli stessi giorni si chiudeva l'ispezione segreta di Banca d'Italia su Unicredit. Nel 2007 la Consob accuserà la banca di aver piazzato derivati "geneticamente privi della funzione dichiarata di copertura dei rischi" danneggiando ben 12.700 imprese. "Ma io l'ho saputo da 'L'espresso'", dice Parisi, "le autorità di controllo non ci dissero nulla".

Il capitolo finale è da romanzo giallo. Nel maggio 2006 l'avvocato Giuseppe Tucci, che assiste Divania, chiede a Unicredit la documentazione completa. I contratti vengono depositati in novembre. Ma si rivelano "manipolati". Le "alterazioni documentali" riguardano addirittura i "contratti normativi": gli accordi-quadro che regolano le singole catene di derivati. Tra Unicredit e Divania si contano 206 operazioni in derivati che si appoggiano su otto contratti normativi. Ebbene, il primo porta il timbro del "9 giugno 1998", eppure richiama un "regolamento Consob del primo luglio '98", cioè di 21 giorni dopo. O l'ha scritto Nostradamus, o la data è falsa.

Il secondo del '98, oltre al regolamento futuro, attribuisce a Divania l'indirizzo (via dei Gladioli 19) e i telefoni che la società avrà solo due anni dopo. Altri cinque contratti normativi non sono mai stati depositati da Unicredit, secondo Divania perché "non sono mai esistititi", visto che la banca non sostiene di averli smarriti (e tantomeno distrutti). L'unico contratto esistente e con data vera è del 10 luglio 2003, ma è quello del video. Secondo il professor Tucci, a questo punto Unicredit va punita per tutto il valore lordo dei derivati (219 milioni e 61 di interessi): la banca infatti avrebbe perso il diritto di sottrarre i dollari accreditati a Divania per quelle "scommesse", giuridicamente "indebite" appunto perché fondate su "contratti falsi, inesistenti o distrutti".

La difesa di Unicredit, elaborata dall'avvocato Paolo Dalmartello, "non nega il fatto" dei contratti-fantasma, ma solo "le conclusioni di Divania": "Risulta per tabulas", conferma infatti l'avvocato, che la banca ha commesso "deprecabili imprecisioni" e "reiterate disattenzioni", in particolare sulle date del '98 aggiunte "con ogni probabilità nel 2001". "Poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi", scrive sempre Unicredit, "per sistemare le prime incongruenze documentali" la banca "ha posto in essere ancora più deprecabili imprecisioni", su cui "sono in corso approfondimenti". Ma questo non cambia nulla: il cliente ha "tollerato tale prassi", accettando l'esecuzione dei derivati "imprecisi". E anche "la mancata corrispondenza al vero" dell'autocertificazione di Parisi come mago della finanza "è un falso problema": se il cliente si dichiara "operatore qualificato", questo è "necessario e sufficiente" a esonerare la banca. A conti fatti, secondo Unicredit, Divania può lamentare solo una perdita netta di 15 milioni. Ma Parisi ha firmato la famosa transazione. Per cui ha perso il diritto di contestare i derivati. Anzi è lui a dover pagare altri 4,5 milioni.

Sul caso indaga anche la Procura di Bari. L'inchiesta del pm Isabella Ginefra è iscritta al modello 21: significa che ci sono già i primi indagati. In questi giorni la Finanza ha acquisito un secondo video, girato da Parisi nel 2006 con una microcamera nascosta nella giacca. Questo spiega l'immagine tremolante, che immortala un funzionario di Unicredit mentre confida all'imprenditore quale sarebbero i veri ordini sui derivati, diramati dai "capi" della banca alle reti periferiche, in barba ai proclami scritti. Domanda Parisi: "Ti ricordi quando mi dicesti che se non fai i derivati ti tolgono l'affidamento?". Risposta del funzionario: "E va bè, ma... se tu vai a leggere le comunicazioni che noi abbiamo sempre memorizzate sui nostri capi... La compliance, l'attenzione al cliente, la trasparenza, l'etica, la professionalità... 'Sto cazzo! Allora tu lo scrivi e stai a posto... E poi dici alla rete di fare ben altro".

fonte: espresso

10 febbraio 2008

Il riciclaggio è solo quello POLITICO?



Gli appalti. La scelta delle aree per le discariche. Le aziende di smaltimento. Persino le assunzioni al Commissariato. Nella regione il business dei rifiuti scatena gli interessi di tutte le forze politiche.

Da una parte i nomi e cognomi dei dipendenti, dall'altra quelli dei loro sponsor politici. Ecco, se si vuole capire che cosa è davvero accaduto in Campania dove, dall'11 febbraio del 1994, esiste un Commissariato per l'emergenza rifiuti che ha speso quasi 2 miliardi di euro senza riuscire a centrare nessuno degli obiettivi imposti, si può benissimo partire da qui. Da questo lungo elenco di nomi preparato in via ufficiosa nel 2004 dalla direzione del personale nelle settimane in cui, dopo le dimissioni di Antonio Bassolino, il Commissariato veniva scorporato in tre diverse sezioni: rifiuti, acque e bonifica.

Leggendo la lista, di cui L'espresso è riuscito a ottenere una copia, diventano, riga dopo riga, chiare le responsabilità di un'intera classe politica: non solo dei bassoliniani del Partito democratico che governano la regione, ma anche dell'opposizione di centrodestra che all'ombra del Vesuvio ha partecipato e partecipa con passione all'immondo banchetto della spazzatura.

Sì perché qui la monnezza, un business che tra appalti e stipendi, fattura un milione di euro al giorno, è un affare di tutti. I politici, prima ancora che la camorra, ci guadagnano non solo in termini di consenso elettorale, imponendo assunzioni nei 18 diversi consorzi di raccolta, tutti rigorosamente lottizzati, ma anche indicando le aree di imprenditori amici dove potrebbero essere aperte discariche e centri di stoccaggio, gestendo pompe di benzina convenzionate con le aziende dei rifiuti, improvvisandosi trasportatori e soprattutto creando decine e decine di aziende a capitale misto pubblico-privato dove piazzare amici, compagni di partito e parenti.

Anche per questo il Commissariato, dove pure nel corso degli anni hanno lavorato giorno e notte molti tecnici di assoluto valore, si è a poco a poco trasformato in carrozzone dove arrivava, 'comandato' da altre amministrazioni pubbliche, personale ansioso di intascare le 70 ore di straordinario mensili garantite a ciascun dipendente. Così, mentre il nuovo commissario Gianni De Gennaro va affannosamente a caccia di terreni dove riversare almeno una parte delle oltre 300 mila tonnellate di rifiuti che ancora intasano gli angoli delle strade della regione, la lista segreta dei vecchi dipendenti del Commissariato diventa adesso una fotografia impietosa di quanto è accaduto. Un'istantanea della Casta che comanda in Campania.

Scorrendo l'elenco, le sorprese non mancano: a segnalare i 'comandati' non erano solo i Ds, la Margherita, l'Udeur. Ci davano dentro pure Forza Italia e Alleanza nazionale. Negli uffici del Commissariato erano per esempio di casa Antonio e Flavio Martuscello, i due dioscuri azzurri del napoletano, rispettivamente deputato ed ex sottosegretario all'Ambiente il primo, consigliere regionale più votato d'Italia, il secondo. I Martuscello avevano sponsorizzato sei diversi nomi. Altri due erano invece stati proposti dal consigliere regionale azzurro Giuseppe Sagliocco, il quale, dopo aver inviato tecnici di suo fiducia al Commissariato, tre anni fa non si è trovato in imbarazzo a capeggiare, assieme a un bel gruppo di parlamentari del centrodestra, le proteste della popolazione che chiedeva il blocco dell'unica discarica ancora disponibile quella di Parco Saurino 2, a Santa Maria La Fossa. Una segnalazione era poi arrivata tramite Francesco Bianco, fino a due anni fa in Regione nelle fila del partito di Berlusconi, e ora capogruppo in Comune per l'Udeur.

Lì Bianco si è ritrovato accanto ai professionisti delle nomine: gli iscritti del partito di Clemente Mastella (nell'elenco compare pure una sua sponsorizzazione diretta) che al Commissariato piazzavano personale per intervento del segretario regionale Antonio Fantini, di Pasquale Giuditta, un deputato sposato con la sorella di lady Mastella, dell'ex assessore regionale all'Ambiente Ugo De Flaviis poi cacciato dal Campanile ("Pago per le nomine non fatte", disse De Flaviis) e dell'ex sottosegretario all'Agricoltura nel governo D'Alema, Nello Di Nardo, dal 2006 cordinatore nazionale degli eletti dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ancora più folta ovviamente è la pattuglia dei raccomandati dal Partito democratico (Ds e Margherita). A parte i nomi che recano vicino la dicitura 'Presidenza' (leggi Bassolino), dietro ai quali si celano non solo tecnici considerati di area di centrosinistra, ma anche raccomandati dal centrodestra (tra i dipendenti c'è per esempio la nipote di un consigliere regionale di Alleanza nazionale), nella colonna degli sponsor appare il nome del ministro dell'Innovazione Luigi Nicolais, del sindaco di Ercolano (politicamente uomo di Nicolais), Nino Daniele, del leader dei rutelliani in Campania, Antonio Villari e dell'ex subcommissario ai rifiuti ed ex assessore al Comune, Massimo Paulucci. Non è tutto. La lista prosegue citando spesso il capogruppo dei Ds in Regione, Antonio Amato, il fedelissimo di De Mita Antonio Valiante, l'assessore comunale Giorgio Nugnes e Andrea Losco, oggi eurodeputato rutelliano, ma un tempo commissario ai rifiuti e presidente di Regione, dopo l'esponente di An, Antonio Rastrelli (i nomi degli uomini di Rastrelli vengono indicati nell'elenco con la dicitura '99').

Adesso con i rifiuti di nuovo per le strade, il clima di consociativismo politico che ha reso possibile l'ennesima emergenza non sfugge ai campani, che scendono in piazza per protestare. E a farne le spese sono un po' tutti. Chi tenta di bloccare la polizia e i funzionari di De Gennaro ormai non fa più differenze di colore di casacca. Ne sa qualcosa Pietro Diodato, consigliere regionale di An e membro della commissione Ambiente, celebre a Napoli per una serie di denunce contro gli sprechi della giunta comunale di Rosa Russo Iervolino. Diodato con la spazzatura ci è cresciuto. I suoi nonni fino a vent'anni fa trasportavano con i loro camion la monnezza nella discarica privata di Pianura, quella che De Gennaro avrebbe voluto riaprire e che invece ospiterà solo un sito di stoccaggio per ecoballe. Oggi Diodato nel quartiere dove è nato e cresciuto ci può mettere piede solo a suo rischio e pericolo. Ai primi di febbraio la folla inferocita ha bruciato un grande distributore di benzina a forma di camion da poco aperto da sua nipote e la sua sede elettorale. Agli abitanti, che inizialmente si muovevano in massa assieme a ultras del Napoli e gruppi di figli di camorristi in motorino, non era andata giù un'intervista in cui Diodato si mostrava possibilista sull'utilizzo della discarica e soprattuto un emendamento da lui presentato in occasione della discussione della legge regionale sui rifiuti. Cosa proponeva Diodato? Semplicemente che i capannoni vicini alla discarica potessero essere utilizzati per ospitare impianti per la separazione della spazzatura. "La mia intenzione era solo quella di creare dei nuovi posti di lavoro", assicura il consigliere di An. Ma per i manifestanti il fatto che sulla strada diretta ai capannoni, dove ci sono già altri distributori, i famigliari di Diodato avessero aperto una pompa proprio della marca di carburanti con cui è convenzionata l'azienda comunale della nettezza urbana, era diventata la prova di come anche lui sulla monnezza ci volesse marciare. Diodato, ovviamente nega, ma intanto si trova a fare i conti con il nemico in casa.

Il vero leader della protesta di Pianura è infatti il consigliere comunale Marco Nonno, un fascista di altri tempi che sull'auto tiene appiccicato un adesivo che avverte: 'Balilla a bordo'. Suo fratello è stato condannato a 14 anni di carcere per aver sprangato a morte, sul finire degli anni '70, un ambientalista, lui però è fatto di altra pasta e anche se adesso è nei guai per aver tentato di vendere via Internet una vecchia mitragliatrice da guerra, respinge le accuse di chi lo segnala come uno dei fomentatori degli scontri: "Non ho pagato nessuno dei manifestanti e soprattuto non ho fatto affari loschi. Con quelli che hanno costruito intorno alla discarica non ho niente da vedere". Una precisazione d'obbligo, visto che tra i primi nemici della discarica, oltre che gli abitanti, ci sono gli imprenditori legati alla camorra che hanno edificato palazzine abusive il cui valore crollerebbe se qui arrivassero i rifiuti.

In Campania del resto funziona così. Pensi alla monnezza e spunta il politico. Anche quello che non ti aspetti. Persino Paolo Russo, il parlamentare di Forza Italia che insieme al senatore di Rifondazione Tommaso Sodano nella passata legislatura fece luce su molti degli affari sporchi legati alla gestione del business ambientale, ha vicino a lui chi fa soldi con la spazzatura. Il fratello del suo assistente parlamentare compare nella compagine societaria di tre aziende interessate nella gestione del ciclo dei rifiuti. Mentre la Ecocampania, specializzata in raccolta, faceva capo al segretario provinciale dell'Udeur di Caserta, Nicola Ferraro, poi arrestato dalla Procura di Santa Maria Capua a Vetere. Sempre di rifiuti, tramite quattro società al quale è stata tolta la certificazione antimafia per condizionamenti da parte del clan dei Casalesi, si occupa anche il fratello di Nicola Marrazzo, consigliere regionale e segretario provinciale di Napoli dell'Italia dei Valori.

Ma è andando a Caserta che il continuo conflitto d'interessi, o meglio gli interessi che intrecciano il business ambientale con la politica, diventano ancora più evidenti. Qui, secondo i pm antimafia, la facevano da padrone aziende di smaltimento dei fratelli Orsi, due imprenditori legatissimi al presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, Mario Landolfi, e al deputato di Forza Italia Nicola Cosentino, un ex socialdemocratico più volte candidato dagli azzurri nonostante la parentela acquisita con il boss Peppe Russo, detto ''o Padrino'. Gli Orsi erano in costante contatto con il segretario particolare di Landolfi, ora arrestato, ma visto che si trattava di gente dai forti ideali, quando al governo c'era finita la sinistra si erano iscritti ai Ds per intercessione del consigliere regionale Angelo Brancaccio. Poi anche Brancaccio è finito in manette. E una volta scarcerato, l'ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, lo ha voluto con sé come vice segretario regionale dell'Udeur. Il riciclaggio, almeno a livello politico, in Campania, nonostante tutto funziona.
fonte: L'Espresso

09 febbraio 2008

La costituente? La rampa di lancio per Grillo


La casta ha i suoi privilegi e, naturalmente fa di tutto per mantenerli. Non c'è un metodo "legale" per diminuire i loro privilegi. Quindi, una sola idea la butta giù il Blondet sul suo spazio virtuale. La raccolgo e la giro....

Qualcuno (Montezomolo, Casini…) nei giorni scorsi ha buttato là l’auspicio che la prossima sia «una legislatura costituente».
L’idea, ammesso che fosse un’idea, appare di nuovo sepolta nel frenetico nullismo della «politica», in vista delle elezioni anticipate.
Invece è l’idea giusta.

L’idea rivoluzionaria: non una vaga «legislatura costituente», bensì una vera e propria Assemblea Costituente, come quella del 1946 che scrisse la Costituzione oggi decrepita.
Su questo dobbiamo mobilitare il popolo di internet.
Se qualcuno conosce Beppe Grillo, glielo gridi: Beppe, è questa la tua battaglia!
Raccogli le firme per la nuova Costituente!
Sicuramente sarebbe eletto lui e le persone che indicherà.
La «gente» potrebbe eleggere per una volta persone non indicate dai partiti, per cambiare davvero le cose.

Perché questo, pensateci, sarebbe rivoluzionario: per i 18-24 mesi della sua esistenza, l’Assemblea Costituente sarebbe un organo eletto antagonista del Parlamento partitico, e più legittimo di esso. Con possibilità straordinarie in funzione anti-Casta.
Perché più legittima?

La sua maggiore legittimità dipenderebbe dalla maggiore indipendenza dei costituenti dai partiti. Ovviamente, i partiti presenteranno i «loro» candidati, che proporranno ai loro elettorati-robot: se avessero pieno successo, la Costituente sarebbe la fotocopia del marcio parlamento, ci troveremmo Mastella padre della costituzione nuova.
Nulla di rivoluzionario.
Per contrastare questo, occorrono due provvedimenti.

Primo: elezione dei candidati non per circoscrizioni (che producono solo delegati che sono espressioni delle clientele locali, ossia della corruzione di Casta), bensì per collegio unico nazionale: in questo modo, sarebbero elette personalità con idee.
Sarebbe eletto sicuramente Grillo e le persone da lui indicate.
Sarebbero eletti opinion leader, personalità note per i loro scritti e pensieri (buoni o cattivi, importa meno), note sul piano nazionale, non manovratori di denaro pubblico a Ceppaloni.
Sarei forse eletto persino io, modesto sottoscritto: che forse ho 200 mila voti tra chi mi conosce nell’intera Italia, ma ben pochi in una sola circoscrizione, non avendo foraggiato clientele nè potuto distribuire favori e posti.

Secondo provvedimento necessario: i candidati alla Costituente devono essere esclusi da ogni altra futura candidatura.
Se eletti, lavoreranno per 18-24 mesi a correggere la Costituzione attuale vecchia e marcia, poi tutta a casa.
Per sempre.
Mai più potranno candidarsi deputati o consiglieri regionali o comunali.
E’ facile capire che, con questo limite, i politici professionali, da Mastella a Casini, da D’Alema ad Alfredo Biondi (che due giorni fa ha detto «il parlamento è casa mia») non avranno nessun interesse a farsi costituenti, perché poi non potrebbe fare il loro lucroso mestiere di politici a vita, non sapendo fare altro.

Una attenuazione di questa misura sarebbe: i candidati s’impegnano con giuramento a non presentarsi ad elezioni, né politiche né amministrative, prima di cinque anni dalla chiusura dei lavori della Costituente.
Anche così, i Mastella e D’Alema non si candiderebbero a questa assemblea, perché non riuscirebbero a stare lontani dall’altra – quella del malaffare e dello stipendio – per cinque anni.
Sarebbero così eletti costituenti dei cittadini che, dopo aver reso questo servizio alla patria, se ne tornano a casa da normali privati.

Già questa è una selezione: di persone disinteressate, più onorevoli degli «onorevoli».
E questo aumenta la loro legittimità rispetto al parlamento.
Pensate: per uno-due anni, un’assemblea di questo genere esisterebbe a fianco del Parlamento, più legittimata delle Camere.
Un organo legislativo supremo più onorabile e potente del cosiddetto «potere legislativo».
Le occasioni rivoluzionarie di una simile assemblea sarebbero molte e straordinarie, a cominciare da un effettivo «controllo» delle peggiori magagne del legislativo, fino ad interventi imprevedibili: esattamente come nel 1789 gli Stati Generali (l’assemblea convocata dal re rovinato dai debiti, per chiedere i soldi al popolo) si autoproclamò Assemblea Nazionale costituente, e cominciò la Révolution.

S’intende che una Costituente non si occupa della politica giorno-per-giorno.
Si occupa di correggere la vecchia Costituzione là dove (come ha detto abbastanza precisamente Montezemolo) essa «non tiene conto dei problemi veri del paese», e copre una «politica sempre più lontana dalla realtà».
Questo significa che, di per sé, la Costituente si erge contro la Casta.

Perché infatti, come la prima Costituente del 1946 si preccupò di formulare una Costituzione che impedisse il ritorno improbabile del fascismo, della «oppresione» e della «dittatura», è chiaro che oggi, per questa generazione, il nemico della democrazia non è il fascismo, bensì la Casta.
Quella Costituzione si volle «antifascista».
Questa, deve volersi «anti-castista».
Deve studiare e promulgare una Costituzione che debelli la Casta e ne impedisca durevolmente il ritorno al potere.
Come?

Questo lo stabilirà la Costituente stessa, nel pubblico aperto dibattito.
Certo occorrerà studiare bene tutti gli uncini, i tentacoli e le ventose con cui la Casta si aggrappa al potere reale – alla cassa del denaro pubblico – onde strapparglieli ad uno ad uno.
In questo senso, la proposta di Grillo – di escludere dalle cariche elettive i condannati penali, anche in primo grado – segna una via praticabile.
E così l’altra proposta, quella di vietare di ripresentarsi dopo due mandati.
Si vede bene che Grillo ha un animo costituente, che sta cercando di spezzare la politica come mestiere lucroso, di sbatter fuori i deputati che sono deputati da 60 anni.
Grillo costituente!

Ma quelle sono solo prime indicazioni, che devono trovare posto in un quadro complessivo e coerente.
Butto giù un paio di idee, da esporre al giudizio e al dibattito.

Lo scopo essenziale di una nuova Costituzione deve essere quello di ricreare il sano antagonismo tra «camere» e «governo» (tra legislativo ed esecutivo) che presiedette alla nascita dei parlamenti.
I primi parlamenti non nacquero per sfornare leggi a capocchia, come oggi.
Nacquero come controllori, a nome del popolo, delle eccessive spese pubbliche del re (il governo), e quindi dell’eccessivo peso tributario imposto ai cittadini.
I parlamenti erano dunque «contro» il governo.
Assemblee di cittadini elette da cittadini per tenere sotto controllo l’esecutivo, e vietargli di imporre troppe tasse.
Discutendo ad uno ad uno, gelosamente, occhiutamente, i progetti di spesa: un’altra guerra?
Non sia mai!
Un nuovo fastoso Palazzo di Versailles?
Pagatelo tu!

Oggi, accade il contrario.
I governi sono espressione del parlamento, ossia dei partiti e dei politici di mestiere.
Se c’è un governo di «sinistra», è perché il parlamento ha una maggioranza di sinistra, interessata a partecipare alle malefatte del governo e a coprirne le ruberie e gli sbagli o le iniquità.
Lo stesso vale per la «destra».
Non c’è da stupirsi se la spesa pubblica è aumentata mostruosamente.
Nessuno controlla la spesa pubblica.
Né il legislativo né il «suo» esecutivo hanno interesse a frenarla.
Governo e parlamento sono pappa e ciccia.
Ed è qui il cancro, la malattia centrale della democrazia.

La Costituente dovrà concentrarsi dunque sui metodi legali, da inserire nella Costituzione, per impedire il pappa e ciccia.
Come?
Secondo me, c’è un solo modo.
Separare per Costituzione il modo di formazione del governo dal modo di formazione delle Camere.

Per esempio: il popolo vota per suffragio universale e diretto il capo del governo.
Questo è obbligato a scegliere i suoi ministri fra i non-parlamentari, né quelli in carica (soprattutto) né quelli passati.
Deve scegliere dei tecnici non eletti, che rispondono a lui (e possono essere chiamati dal parlamento per essere interrogati), ma di cui lui è essenzialmente il solo chiaro responsabile politico.
Il capo del governo (che può essere anche capo dello stato come in USA, oppure no) è votato dal «popolo» in quanto tale, e si offre al giudizio del popolo perché esprima un parere sul suo primo mandato di governo, con un secondo mandato.
Anche il parlamento viene eletto dal »popolo», sia pure organizzato in fazioni, in partiti, in categorie, in clientele.
Questo allo stato attuale è probabilmente inevitabile.
Come evitare il pappa-e-ciccia?

Facile e già applicato in vari paesi: con la sfasatura nel tempo delle elezioni parlamentari e di quelle del capo del governo.
In tal modo, almeno nel secondo mandato, il capo si trova generalmente un parlamento d’opposizione.
Come Bush repubblicano, che ha un congresso democratico.
Naturalmente questo mezzo non è risolutivo, come dimostra i caso americano: il Congresso democratico è servilissimo verso Bush repubblicano disastroso.
L’ideale sarebbe che i cittadini votassero per ceti (gli «stati» della Francia), e più precisamente per categorie socio-fiscali: lavoratori dipendenti privati tassati alla fonte, dipendenti pubblici, lavoratori autonomi, professionisti, capitalisti.
Invece di «far politica» i rappresentanti di ogni categoria fiscale controllerebbero non solo la spesa del governo, ma le altre categorie fiscali, le loro elusioni e i privilegi loro accordati eventualmente dal governo a danno delle altre categorie.
Sarebbe un bel parlamento, che «tiene conto dei problemi veri del paese», litigioso all’interno (com’è l’Italia fino nelle riunioni di condominio) ed apolitico.
Ma mi rendo conto di proporre un’utopia.

L’altra utopia – ma la propongo alla discussione – sarebbe: per Costituzione, il parlamento si riunisce in due sessioni, di un mese ciascuna, per approvare o respingere il bilancio di previsione e per approvare o respingere il consuntivo del governo.
Per dieci mesi all’anno, a casa a lavorare da privati: ancora una volta, l’elezione andrebbe trasformata in una corvèe, in un sacrificio al servizio del paese, non in un lucroso mestiere.
E ciò limiterebbe la proliferazione legislativa, attività malefica dell’attuale parlamento.
Precise norme costituzionali dovrebbero «vietare» la proposizione di leggine a scopo clientelare, e in generale limitare il numero di nuove leggi a non più di due all’anno per fazione o partito.

Nell’antica Roma, in 500 anni furono promulgate 300 leggi, e per lo più pessime: liste di proscrizione, «non licet esse christianos» eccetera.
La società non ha bisogna di leggi, ma di codici e giurisprudenza.
E ovviamente, la Costituente dovrebbe stabilire con estrema precisione restrittiva le «incompatibilità».
Non solo fra cariche locali e nazionali; anche i magistrati dovrebbero essere non-eleggibili se non dopo cinque anni dall’aver lasciato la toga
I funzionari pubblici d’alto livello, i grand commis (come Prodi e Ciampi e Draghi), dovrebbero essere parimenti ineleggibili; e così i giornalisti della Rai, per esempio.

Parimenti occhiuta, minuziosa e gelosa dovrebbe essere la definizione dei «conflitti d’interesse», che non sono solo quelli di Berlusconi.
Se Prodi mette ai posti del sottogoverno i suoi ex-dipendenti di Nomisma, anche quello è un conflitto d’interessi di prima grandezza.

La faccio finita, per non essere noioso.
Ho buttato giù in fretta due idee.
Ma l’idea centrale è: ci vuole una Costituente, e questo sarebbe già un atto rivoluzionario, anti-Casta.
Qualcuno lo dica a Beppe Grillo, che ha i mezzi per raccogliere le firme: è la nostra ultima speranza.

Maurizio Blondet

08 febbraio 2008

I derivati in mano ad aziende inconsapevoli


Un industriale strangolato dai derivati ha video-registrato di nascosto i suoi incontri con i funzionari di Unicredit che gli hanno fatto firmare quei contratti finanziari ad altissimo rischio. "Mi hanno rovinato. Ho dovuto chiudere l'azienda e licenziare tutti i miei 430 operai", denuncia Francesco Saverio Parisi, titolare di Divania, una fabbrica di divani che prima del 2003 era una delle prime industrie esportatrici della Puglia, con 65 milioni di euro di fatturato.
"Ci ho messo un anno a capire come i banchieri hanno distrutto la mia impresa. Ora li ho denunciati, per truffa e usura, e li ho citati a giudizio davanti al tribunale civile. Come tutte le vittime dei derivati, posso sembrare Davide che sfida Golia. Ma invece della fionda ho la telecamera". La causa civile è tanto pesante che il colosso del credito ha dovuto avvisare tutti i risparmiatori: "Divania ha chiesto la condanna di Unicredit al pagamento di 276 milioni di euro più gli interessi", spiega la banca nel prospetto informativo della fusione con Capitalia. Unicredit avverte di "non avere effettuato, per ora, alcun accantonamento", perché la citazione è "recente" e comunque "sproporzionata": la perdita netta per Divania, secondo la banca, non supera i 20 milioni. E gli altri danni sono tutti da provare.

Toccherà ai giudici misurare torti e ragioni. Ma di certo prima d'ora non si era mai visto un cliente che cerca di incastrare la banca con due video, per documentare 'in diretta' i veri rapporti di forza sulla spinosa questione dei derivati. Cioè quelle 'scommesse' finanziarie per cui la Consob ha appena inflitto clamorose multe a tutto il vertice di Unicredit.

Cos'era Divania, lo testimonia il sindacato. "Era una delle più belle realtà industriali del Sud", dichiara Lorenzo Gullì, dirigente dei tessili Cisl, "non abbiamo mai avuto problemi di lavoro nero né di evasione fiscale o contributiva.
Fino al 2002 era un'azienda forte, che esportava soprattutto negli Usa. La crisi è stata imprevista e improvvisa. L'unica nostra contestazione a Parisi era che pagava troppo gli operai". Scusi? "Sì, era un po' paternalista: versava gratifiche senza contrattarle con noi".

Oggi i 40 mila metri quadrati dello stabilimento sono una desolata distesa di macchinari spenti, cumuli di pellame, camion sgonfi, muletti impolverati, computer scollegati e capannoni deserti. Fino al 2002 il fatturato cresceva a ritmi da primato: più 37 per cento. Le cause della crisi le stabilirà il processo. Di certo la bolla dei derivati, che ora fa tremare le economie di tutto il mondo, qui è scoppiata già nel 2003. E dalle oltre mille pagine di atti della causa civile si può ricavare un nocciolo duro di ricostruzione dei fatti che nessuno contesta.

Parisi, un imprenditore che si è fatto da sé, ha avuto Unicredit come banca di riferimento fin dagli anni '80. Nel 2000 i dirigenti di Bari lo hanno convinto a lanciarsi nei derivati: contratti complicatissimi, che in teoria sono un'assicurazione contro i rischi di cambio del dollaro. In pratica sono una scommessa che ha per controparte la stessa banca: ogni euro perduto dal cliente finisce a Unicredit, con provvigioni e commissioni. "Io non avevo nessun rischio di cambio", protesta ora Parisi, "perché proprio Unicredit mi anticipava, il giorno stesso dell'emissione, il 100 per cento delle mie fatture con gli Stati Uniti. Un dirigente della banca, però, mi confidò che le filiali avevano ricevuto l'ordine di 'fare budget con i derivati' e che mi conveniva accettare per non compromettere i normali fidi. I funzionari dicevano che non correvo rischi, perché loro avrebbero azzerato ogni perdita con nuovi contratti".

Dopo i primi anticipi (up-front) a Divania,le scadenze annuali si chiudono con buchi crescenti. La banca li tappa con altri up-front, che però corrispondono a nuovi contratti sempre più rovinosi. In cinque anni Divania punta sui derivati l'incredibile cifra lorda di 219 milioni di euro: il quadruplo del suo fatturato massimo. Il giro di scommesse regge finché è pareggiato dagli utili industriali. Nel 2003, alle prime difficoltà di mercato ("Crollo del dollaro, concorrenza sottocosto cinese, una partita difettosa di pellami"), i debiti finanziari schiacciano l'impresa. Unicredit segnala le perdite e tutte le altre banche tagliano i fidi. L'imprenditore chiede copia di tutti i contratti, ma Unicredit ne trasmette solo una parte. Il 10 marzo 2004 Parisi, esasperato, nasconde una telecamera in un raccoglitore, lo sistema sulla mensola del suo ufficio e riprende di nascosto la riunione, durata un'ora, con il direttore della filiale Unicredit e il suo tecnico di derivati.

Stando ai contratti, è l'imprenditore che dovrebbe ordinare alla banca cosa, come e quando comprare. Anzi, Unicredit gli ha fatto firmare un'autocertificazione che lo identifica come "operatore qualificato", insomma un mago dei derivati. Il video tuttavia mostra che Parisi non ne capisce nulla: "Io, queste operazioni, non so di che cavolo parliamo... Io ho firmato, per carità, però almeno posso capire? (...) Io potevo sapere che tu mi dai 1.300.000 e per cinque anni devo pagare?". Neppure il direttore sa spiegargli i derivati: "Scusami, Saverio... ti ho fatto firmare una cosa che non era del mio settore...". Stando al video, il cliente viene invitato a "regolarizzare", cioè a "firmare dopo", speculazioni già concluse dalla banca.

Parisi protesta: "Ora mi ritrovo tutta una serie di operazioni che l'ok chi l'ha dato? Io non ho mai dato nessun ok". Anche la responsabile della contabilità di Divania, Anna Armenise, è furibonda: "Ci sono contratti che noi non abbiamo proprio... Li ho chiesti un sacco di volte... A me non è mai capitato di dover registrare a posteriori delle cose che non conosco". Replica del tecnico: "Le facciamo per postergare le operazioni in perdita". Parisi teme "un'altra mazzata di morte a fine anno" e insiste: "Non sarebbe stato opportuno che qualcuno mi avvisava?". Direttore: "Ho già chiesto scusa".

Nel 2004 i debiti strozzano Divania. Il fatturato crolla a 8 milioni. Per evitare il fallimento, Parisi invoca una convenzione-transazione, garantita da ipoteche milionarie, che la banca gli concede solo nel giugno 2005. Sarà un caso, ma negli stessi giorni si chiudeva l'ispezione segreta di Banca d'Italia su Unicredit. Nel 2007 la Consob accuserà la banca di aver piazzato derivati "geneticamente privi della funzione dichiarata di copertura dei rischi" danneggiando ben 12.700 imprese. "Ma io l'ho saputo da 'L'espresso'", dice Parisi, "le autorità di controllo non ci dissero nulla".

Il capitolo finale è da romanzo giallo. Nel maggio 2006 l'avvocato Giuseppe Tucci, che assiste Divania, chiede a Unicredit la documentazione completa. I contratti vengono depositati in novembre. Ma si rivelano "manipolati". Le "alterazioni documentali" riguardano addirittura i "contratti normativi": gli accordi-quadro che regolano le singole catene di derivati. Tra Unicredit e Divania si contano 206 operazioni in derivati che si appoggiano su otto contratti normativi. Ebbene, il primo porta il timbro del "9 giugno 1998", eppure richiama un "regolamento Consob del primo luglio '98", cioè di 21 giorni dopo. O l'ha scritto Nostradamus, o la data è falsa.

Il secondo del '98, oltre al regolamento futuro, attribuisce a Divania l'indirizzo (via dei Gladioli 19) e i telefoni che la società avrà solo due anni dopo. Altri cinque contratti normativi non sono mai stati depositati da Unicredit, secondo Divania perché "non sono mai esistititi", visto che la banca non sostiene di averli smarriti (e tantomeno distrutti). L'unico contratto esistente e con data vera è del 10 luglio 2003, ma è quello del video. Secondo il professor Tucci, a questo punto Unicredit va punita per tutto il valore lordo dei derivati (219 milioni e 61 di interessi): la banca infatti avrebbe perso il diritto di sottrarre i dollari accreditati a Divania per quelle "scommesse", giuridicamente "indebite" appunto perché fondate su "contratti falsi, inesistenti o distrutti".

La difesa di Unicredit, elaborata dall'avvocato Paolo Dalmartello, "non nega il fatto" dei contratti-fantasma, ma solo "le conclusioni di Divania": "Risulta per tabulas", conferma infatti l'avvocato, che la banca ha commesso "deprecabili imprecisioni" e "reiterate disattenzioni", in particolare sulle date del '98 aggiunte "con ogni probabilità nel 2001". "Poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi", scrive sempre Unicredit, "per sistemare le prime incongruenze documentali" la banca "ha posto in essere ancora più deprecabili imprecisioni", su cui "sono in corso approfondimenti". Ma questo non cambia nulla: il cliente ha "tollerato tale prassi", accettando l'esecuzione dei derivati "imprecisi". E anche "la mancata corrispondenza al vero" dell'autocertificazione di Parisi come mago della finanza "è un falso problema": se il cliente si dichiara "operatore qualificato", questo è "necessario e sufficiente" a esonerare la banca. A conti fatti, secondo Unicredit, Divania può lamentare solo una perdita netta di 15 milioni. Ma Parisi ha firmato la famosa transazione. Per cui ha perso il diritto di contestare i derivati. Anzi è lui a dover pagare altri 4,5 milioni.

Sul caso indaga anche la Procura di Bari. L'inchiesta del pm Isabella Ginefra è iscritta al modello 21: significa che ci sono già i primi indagati. In questi giorni la Finanza ha acquisito un secondo video, girato da Parisi nel 2006 con una microcamera nascosta nella giacca. Questo spiega l'immagine tremolante, che immortala un funzionario di Unicredit mentre confida all'imprenditore quale sarebbero i veri ordini sui derivati, diramati dai "capi" della banca alle reti periferiche, in barba ai proclami scritti. Domanda Parisi: "Ti ricordi quando mi dicesti che se non fai i derivati ti tolgono l'affidamento?". Risposta del funzionario: "E va bè, ma... se tu vai a leggere le comunicazioni che noi abbiamo sempre memorizzate sui nostri capi... La compliance, l'attenzione al cliente, la trasparenza, l'etica, la professionalità... 'Sto cazzo! Allora tu lo scrivi e stai a posto... E poi dici alla rete di fare ben altro".

fonte: espresso