21 aprile 2008

Armi di banalizzazione di massa


Benvenuti a Hollywood. Hollywood non esiste, ecco la tua prima illusione. Tu non sei mai stato a Hollywood. Sei sempre e solo stato davanti alla tua televisione. Ed anche se e quando non sei stato davanti alla televisione, sei stato in mezzo a persone che erano appena state davanti alla loro televisione. Non hai modo di sfuggire a quel flusso di informazioni omogeneizzate. Buttare via la televisione non serve. Ti fanno gli altri il riassunto di quello che ti sei perso. Allora tanto vale guardarla.

La realtà è infinitamente complessa e di questa gigantesca torta il nostro cervello riesce a gustarne meno di una minuscola fetta – qualche briciola nel migliore dei casi. Tuttavia, anche queste briciole di lucida comprensione possono generare confusione ed instabilità. La società umana è un meccanismo troppo complesso per continuare a funzionare se tutti gli ingranaggi che ne fanno parte un bel giorno iniziano a porsi dubbi filosofici sul significato del proprio ruolo. Un idraulico che, riparando il tuo cesso, s’interrogasse sul reale significato dell’esistenza delle onde gravitazionali anziché sull’occlusione delle onde del tuo sciacquone, difficilmente giungerebbe a risolvere il tuo problema in tempo utile per il tuo prossimo bisogno corporale.

Affinché la società funzioni, tutti devono occuparsi esclusivamente delle attività inerenti al proprio ruolo specifico e specialistico e, per tutto ciò che riguarda i grandi problemi, condividere a somme linee una stessa visione del mondo. Sui piccoli dettagli trascurabili è bene litigare – la mia squadra di calcio è più forte della tua, la mia squadra politica è più buona della tua, la mia musica è più figa della tua –, dato che queste pantomime servono a fornire agli individui l’illusione di un’identità di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro, necessità evidentemente codificata nel nostro DNA e che in qualche modo deve trovare una propria realizzazione all’interno di ciascuno di noi. Ma per quello che riguarda le cose davvero importanti, tutti, per evitare che la comunità smetta di funzionare, devono più o meno condividere le stesse nozioni essenziali, se necessario predigerite, preconfezionate, presemplificate, prebanalizzate, in modo da renderle assimilabili da parte di chiunque.

Vi piaccia o no, questo è il mondo nel quale viviamo. Probabilmente, il migliore dei mondi possibile. Ciò non toglie che per molti aspetti faccia parecchio schifo, tuttavia se un mondo migliore fosse possibile, probabilmente esso già esisterebbe. Ciò non vuol dire che non si possa lottare per un mondo migliore, ma questa è un’altra faccenda nella quale adesso non entriamo perché ci porterebbe fuori tema.

Tutto sommato questo libro non ha la presunzione di nutrire la nobile – ma, ahinoi, probabilmente irrealistica nonché folle – ambizione di rendere il mondo un luogo sensibilmente migliore, ma si limita a perseguire il ben più umile e modesto traguardo di fornire ai pochi che hanno un po’ di tempo da perdere qualche elegante utensile in più per godersi in piena coscienza e sino in fondo i nuovi curiosi orrori del mondo. Accontentiamoci ancora una volta di quel che passa il convento!

In uno splendido libro, Elogio dell’imbecille, che in Spagna è meritatamente divenuto un bestseller, lo scrittore e giornalista italiano Pino Aprile dimostra quanto la stupidità sia importante per preservare a tutti i livelli il buon funzionamento della nostra società. La stupidità non sarebbe affatto una carenza di qualcosa – l’intelligenza –, bensì una funzione vera e propria, indispensabile a garantire che uno faccia ciò che deve fare senza porsi tanti perché.

Tuttavia, tanta sana stupidità da sola potrebbe anche non bastare, a volte, per impedire al Grande Giocattolo di rompersi. Bisogna venirle in soccorso, prenderla per mano e condurla con pazienza nella direzione voluta. Perché, se tutte le pecorelle si muovono a casaccio, capirete bene che non si giunge mai da nessuna parte e tanta preziosa stupidità va inutilmente sprecata, il sistema crolla e tanti saluti a tutti.

Fino a cent’anni fa i mass media non esistevano e quelli che iniziavano ad esistere su carta stampata non erano poi tanto di massa, dato che gran parte della gente non sapeva leggere. Soprattutto negli ultimi decenni, però, l’esplosiva diffusione dei sistemi di comunicazione di massa ha interconnesso miliardi di persone in una rete capillare di comunicazioni pressoché istantanee. Per quasi tutta la storia dell’umanità, l’informazione è andata a passo di lumaca, quando circolava. In genere, l’informazione girava assai poco, rimanendo comunque circoscritta a ristrette aree geografiche, ed è proprio in virtù di questi isolamenti che nei millenni si sono differenziate le lingue. I vari popoli, tra loro, non si parlavano proprio, altro che cellulari satellitari e teleselezione! I popoli si frequentavano così poco, in passato, che anche le informazioni genetiche non circolavano tra un popolo e l’altro (a parte occasionali stupri qua e là ad opera dei vincitori delle guerre).

Oggi la musica è diversa. Nel campo delle comunicazioni la differenza rispetto al passato è incommensurabile e questa novità , ovviamente, è gravida di conseguenza importanti. I fenomeni di retroazione, diventati rapidissimi, rendono il sistema infinitamente più instabile. Come il noto «effetto farfalla» dei sistemi caotici (il battito d’ali di una farfalla in Giappone potrebbe innescare un concatenamento di eventi in grado di scatenare un uragano in America), una frase pronunciata a Pinerolo potrebbe innescare una reazione a catena che darà il via alla terza guerra mondiale. Lo so, sembra improbabile, ma molto dipenderebbe anche da chi pronunciasse la frase: mettiamo, ad esempio, che Bush vada una sera a cena a Pinerolo...

In effetti, c’è chi prevede che tra pochi anni questa crescente instabilità renderà il futuro completamente imprevedibile, ma di questo parleremo più avanti.

Per mantenere stabile un sistema caotico come quello dell’umanità attuale è necessario che la visione della realtà sia il più possibile omogenea. I mass media contribuiscono a questo risultato, e di ciò è stato già scritto di tutto, dai quasi dimenticati (o, piuttosto, rimossi) Gustave Le Bon (alla sua Psicologia delle folle non negavano di ispirarsi sia Hitler che Mussolini) ed Edward L. Bernays («padre della persuasione», nonché nipote di Freud) in poi.

I mass media vengono utilizzati moltissimo anche per vendere dentifrici, automobili, assorbenti e merendine, ma ciò che interessa qui è quando essi veicolano quelle che ho definito armi di banalizzazione di massa.

Avrete già sentito parlare delle armi di distrazione di massa. Si tratta di un’espressione di cui si è fatto molto uso, e con buona ragione. Tuttavia, le armi di distrazione di massa sono armi tattiche, finalizzate a distrarre l’attenzione collettiva nella contingenza del loro esercizio. Idealmente, il giorno in cui le armi di distrazione di massa smettessero di ruggire, i milioni di persone distratte potrebbero immediatamente tornare ad accorgersi degli eventi significativi che accadono intorno a loro. Le armi di banalizzazione di massa, diversamente, sono armi di tipo strategico e, una volta entrate efficacemente in azione, hanno un effetto duraturo e difficilmente reversibile. Esse provvedono ad installare nelle menti delle persone versioni ipersemplificate e banalizzate di qualsiasi cosa accada o possa accadere.

L’uomo oggi vive in perfetta simbiosi con i media. I concetti che egli pensa sono in linea di massima tutti stati preventivamente filtrati, selezionati, predigeriti, banalizzati e confezionati dal suo Grande Fratello di fiducia (ce n’è più di uno, ma sotto sotto sono tutti in combutta).

I media veicolano un panorama teatrale del mondo e degli eventi che in esso si succedono. Si tratta di illusioni stilizzate, alle quali gli stessi giornalisti finiscono per credere, almeno in parte. L’uomo accetta più o meno acriticamente questa frittata stilizzata di pseudorealtà, nello stesso modo in cui un bambino accetta ciò che gli raccontano i suoi genitori, credendolo vero.

Qualsiasi elemento di complessità della situazione viene semplificato dalle armi di banalizzazione sino al punto che non ha più alcuna relazione rilevante con il significato originario, al di fuori di una sottile assonanza, ovvero di una etichetta comune per significati ormai lontani anni luce.

Lo so cosa starà pensando il lettore a questo punto, e cioè che, tanto per cambiare, anche in questo libro si sta menando il can per l’aia con discorsi che non stanno né in cielo né in terra, ma che intendono solo portare acqua al mulino dell’autore. Io voglio bene al mio lettore e mi dispiace perderlo, tuttavia è molto tempo che scrivo roba astratta e stravagante ed è inevitabile che qualcosa (o più di qualcosa) mi scappi pure in questo libro. Cercherò di non eccedere.

Il primo obiettivo delle armi di banalizzazione di massa è la semplificazione estrema del processo con cui la gente distingue il bene dal male. Al di là del bene e del male, queste armi si curano di semplificare tutto, ma proprio tutto, ciò che ci viene comunicato per via televisiva.
Il risultato è una specie di disneyzzazione della realtà percepita. I Buoni sono sempre buoni ed i Cattivi sono sempre cattivi con riconoscibilità analoga a quella che i Buoni ed i Cattivi hanno in un cartone animato. Questo destino non tocca solo al Bene ed al Male, ma anche a personaggi ed eventi di qualsiasi genere, i quali, spogliati nelle rappresentazioni massmediatiche di qualsiasi complessità, finiscono inevitabilmente per assomigliarsi al punto da essere intercambiabili. In effetti, vengono tutti ridotti ad una manciata di personaggi stereotipati che compiono azioni comuni, anche quando superficialmente appaiano bizzarre.

Fateci caso, socchiudete metaforicamente gli occhi quando vi guardate in giro e parlate con gli altri o siete davanti alla televisione, e vedrete come la nebbia delle illusioni si diraderà per brevi istanti, permettendovi di scorgere l’autentica natura degli stereotipi che sostituiscono la realtà; il mondo apparirà allora come una sorta di pacchiano cartone animato senza uscita, reso folle dal fatto che a tutti sembra qualcosa di autentico e naturale. Pensate che le mie parole siano state troppo astratte? Aspettate a leggere le prossime!

Qualsiasi cosa oggi avvenga, noi non possiamo evitare di paragonarla istantaneamente con la «mappa» di un avvenimento analogo che già abbiamo nel nostro cervello – un’esperienza fittizia di quell’avvenimento che risiede dentro alla nostra materia grigia anche se non l’abbiamo mai fatta. Quella pseudo-esperienza è entrata nel nostro cervello attraverso il Cavallo di Troia di un film, due film, mille film e diecimila telegiornali che abbiamo visto ed assorbito dalla televisione. Qualsiasi cosa avvenga nel mondo, noi siamo quindi in grado di «comprenderlo» perché lo riconosciamo. Il problema è che in realtà non riconosciamo l’avvenimento in sé, dato che in genere non l’abbiamo vissuto, bensì la rappresentazione stilizzata e semplificata che di esso c’è nel nostro cervello. Quest’ultimo, allenato a semplificare tutto da migliaia e migliaia di ore di devota osservazione televisiva, non si prende la briga di decodificare davvero le informazioni in entrata. A che scopo tanta fatica? Gli basta riconoscere la classe di informazioni in ingresso per balzare immediatamente allo stereotipo mentale, cioè il «pacchetto» di consapevolezza ipersemplificata, corrispondente a quell’argomento.

Anziché la nostra vita, ci ritroviamo quindi grottescamente a vivere una sorta di metafora di essa, dove gran parte di ciò che ci succede lo comprendiamo e rappresentiamo nel nostro teatro mentale sostituendolo con il corrispondente surrogato cliché televisivo.

Un esempio eclatante di questo processo si è avuto proprio con gli attentati dell’11 settembre, vissuti da tutti – addirittura anche dalle stesse persone che si trovavano nelle Torri Gemelle e sono riuscite a scappare – come se si trattasse di un film. Il grande tarlo che cova invisibile nei nostri cervelli è brevemente apparso in tutta la sua potenza proprio quel giorno. Im­magina: tu sei in una delle torri colpite, c’è un incendio e devi scappare per salvarti la vita, e il tuo cervello non trova di meglio che credere che stiano girando un remake de L’inferno di cristallo. Per fortuna zone più profonde ed animali del cervello, forgiate da milioni di anni di evoluzione e selezione naturale, non cascano nell’inganno e ti portano in salvo ugualmente, nonostante quell’altro pezzo di cervello malato insista contro ogni evidenza sul fatto che si tratti di un film. Intrappolati senza scampo nelle metafore hollywoodiane che hanno occupato le nostre menti, ecco la nostra condizione psichica di oggi. Ecco la vittoria finale conseguita dalle armi di banalizzazione di massa. Nessuno è immune. Tranne che in rari momenti di lucidità, non ci accorgiamo di nulla. Il Mostro è dentro di noi e si scatena solo quando serve a lui o agli ingegneri che lo hanno programmato.

Un’esemplare rappresentazione cinematografica di questo stato delle cose la troviamo nel film Natural Born Killers, di Oliver Stone. Mickey e Mallory, gli sballati protagonisti della storia, altro non sono che l’esasperazione dei malati di mente che siamo tutti diventati dopo migliaia di ore di esposizione alle armi di banalizzazione di massa. Per questo film Oliver Stone avrebbe meritato un Nobel – un Oscar non sarebbe stato abbastanza – ed invece gli sono giunte critiche su critiche perché migliaia di normalissimi malati di mente si sarebbero coerentemente riconosciuti nei personaggi del film, mettendosi a scimmiottarne le gesta in giro per gli Stati Uniti.

L’effetto utile del costante uso delle armi di banalizzazione è la stabilizzazione delle grandi masse, le quali, perdute in un mondo fittizio, oppure ancorate ad esso (è una questione di interpretazione), un mondo fatto di illusioni televisive, si comportano in modo abbastanza prevedibile perché il sistema si mantenga stabile.

Poiché le armi di banalizzazione di massa dispensano anche grandi quantità di rappresentazioni del Male, esse inevitabilmente finiscono anche per generare un Male stilizzato, esemplificato, stereotipato e quindi meglio gestibile di un Male esercitato da criminali realmente fantasiosi.

Se queste armi consentono ad una società di essere più stabile, la stessa cosa non si può sempre dire degli individui che di tale società fanno parte.

L’effetto secondario e negativo di questo processo, nel quale le nostre esperienze non riescono più ad essere realmente nostre poiché in effetti si associano dentro le nostre teste a stereotipi, è che al giorno d’oggi gran parte della gente si ritrova ad affrontare grossi problemi di identità.

Qualche neurone intelligente rimane, nel profondo del cervello di tutti noi, ed esso urla la propria disperazione per la carenza di distinzione che le nostre vite palesano. Alla convenienza sociale di conformarci gli uni agli altri si contrappone intimamente un bisogno di affermazione e distinzione individuale. Ciò è alla base delle profonde crisi di identità delle nuove generazioni nella società occidentale e del conseguente emergere di nuove forme di tribalismo metropolitano, argomenti sui quali da anni i sociologi discutono e si guadagnano il pane.

Tutti questi paroloni per dire in sintesi estrema che ci hanno fritto il cervello fin dal primo momento in cui un televisore si è acceso nelle nostre case ed ormai che la frittura è completa, globale ed irreversibile, l’unica forma di parziale e residua sanità mentale perseguibile da un povero cristo è la scelta di una forma di follia alternativa, più personale (o tribale), rispetto alla noiosissima follia in voga nella maggioranza indistinta dei membri della società. In parole povere, l’unico modo per non essere completamente pazzi è – paradossalmente – proprio quello di uscire fuori di testa. Naturalmente anche ciò ha i propri inconvenienti. Talvolta questi prendono la forma di 42 piercing facciali ed un paio di corna subcutanee sul cranio, altre volte le manifestazioni sono meno palesi, ma non meno distintive.

Tornando al nostro tema principale, è perfettamente credibile che il condizionamento alla sospensione dell’incredulità operato sulla popolazione americana da anni ed anni di film catastrofisti hollywoodiani sia alla base della sconcertante attitudine della maggior parte degli americani a non interrogarsi in merito alle stranezze ed inverosimiglianze di cui trabocca la storia ufficiale dell’11 settembre. Essi crederebbero alla consistenza di una realtà inverosimile così come farebbero se stessero guardando il solito film pieno di banalità ed inverosimiglianze. In parte, non credo all’esistenza di un complotto per conseguire questo genere di effetti. Il meccanismo è troppo geniale perché essere umano abbia potuto concepirlo a tavolino. Ritengo piuttosto che il sistema si sia autoorganizzato così.

Tuttavia, anche se gran parte del risultato è spontaneamente conseguito dall’autoorganizzazione della società, un’altra parte è indubbiamente pianificata a tavolino.

Roberto Quaglia

20 aprile 2008

Strapagati: Perchè solo loro?


Consiglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza

Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti. Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".

"siglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza" [FIRMA]MARCO SODANO Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti.

Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".
Marco Sodano

19 aprile 2008

NOI, I FORZATI DEL DESIDERIO


Che bella cosa fare il giornalista,si scrive un articolo per altro condivisibile,e chi lo legge pensa come bravo che mente ,ecc..ma poi nella realtà il giornalista fà il contrario di cio che si scrive.

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?

Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla porta di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi?

E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita di elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?

Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si “prodotto”.

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta della distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come i suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la garanzia della sua immortalità.

Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo forzato”, comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo “un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un‘umanità da buttar via”.

3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.

In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.

E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente” inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell’assurdo, anche per gli armamenti.

Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi “migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento” in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di “meglio”?

5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.

Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.

6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.

Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le “relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.

Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una “deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre una efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

Umberto Galimberti

21 aprile 2008

Armi di banalizzazione di massa


Benvenuti a Hollywood. Hollywood non esiste, ecco la tua prima illusione. Tu non sei mai stato a Hollywood. Sei sempre e solo stato davanti alla tua televisione. Ed anche se e quando non sei stato davanti alla televisione, sei stato in mezzo a persone che erano appena state davanti alla loro televisione. Non hai modo di sfuggire a quel flusso di informazioni omogeneizzate. Buttare via la televisione non serve. Ti fanno gli altri il riassunto di quello che ti sei perso. Allora tanto vale guardarla.

La realtà è infinitamente complessa e di questa gigantesca torta il nostro cervello riesce a gustarne meno di una minuscola fetta – qualche briciola nel migliore dei casi. Tuttavia, anche queste briciole di lucida comprensione possono generare confusione ed instabilità. La società umana è un meccanismo troppo complesso per continuare a funzionare se tutti gli ingranaggi che ne fanno parte un bel giorno iniziano a porsi dubbi filosofici sul significato del proprio ruolo. Un idraulico che, riparando il tuo cesso, s’interrogasse sul reale significato dell’esistenza delle onde gravitazionali anziché sull’occlusione delle onde del tuo sciacquone, difficilmente giungerebbe a risolvere il tuo problema in tempo utile per il tuo prossimo bisogno corporale.

Affinché la società funzioni, tutti devono occuparsi esclusivamente delle attività inerenti al proprio ruolo specifico e specialistico e, per tutto ciò che riguarda i grandi problemi, condividere a somme linee una stessa visione del mondo. Sui piccoli dettagli trascurabili è bene litigare – la mia squadra di calcio è più forte della tua, la mia squadra politica è più buona della tua, la mia musica è più figa della tua –, dato che queste pantomime servono a fornire agli individui l’illusione di un’identità di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro, necessità evidentemente codificata nel nostro DNA e che in qualche modo deve trovare una propria realizzazione all’interno di ciascuno di noi. Ma per quello che riguarda le cose davvero importanti, tutti, per evitare che la comunità smetta di funzionare, devono più o meno condividere le stesse nozioni essenziali, se necessario predigerite, preconfezionate, presemplificate, prebanalizzate, in modo da renderle assimilabili da parte di chiunque.

Vi piaccia o no, questo è il mondo nel quale viviamo. Probabilmente, il migliore dei mondi possibile. Ciò non toglie che per molti aspetti faccia parecchio schifo, tuttavia se un mondo migliore fosse possibile, probabilmente esso già esisterebbe. Ciò non vuol dire che non si possa lottare per un mondo migliore, ma questa è un’altra faccenda nella quale adesso non entriamo perché ci porterebbe fuori tema.

Tutto sommato questo libro non ha la presunzione di nutrire la nobile – ma, ahinoi, probabilmente irrealistica nonché folle – ambizione di rendere il mondo un luogo sensibilmente migliore, ma si limita a perseguire il ben più umile e modesto traguardo di fornire ai pochi che hanno un po’ di tempo da perdere qualche elegante utensile in più per godersi in piena coscienza e sino in fondo i nuovi curiosi orrori del mondo. Accontentiamoci ancora una volta di quel che passa il convento!

In uno splendido libro, Elogio dell’imbecille, che in Spagna è meritatamente divenuto un bestseller, lo scrittore e giornalista italiano Pino Aprile dimostra quanto la stupidità sia importante per preservare a tutti i livelli il buon funzionamento della nostra società. La stupidità non sarebbe affatto una carenza di qualcosa – l’intelligenza –, bensì una funzione vera e propria, indispensabile a garantire che uno faccia ciò che deve fare senza porsi tanti perché.

Tuttavia, tanta sana stupidità da sola potrebbe anche non bastare, a volte, per impedire al Grande Giocattolo di rompersi. Bisogna venirle in soccorso, prenderla per mano e condurla con pazienza nella direzione voluta. Perché, se tutte le pecorelle si muovono a casaccio, capirete bene che non si giunge mai da nessuna parte e tanta preziosa stupidità va inutilmente sprecata, il sistema crolla e tanti saluti a tutti.

Fino a cent’anni fa i mass media non esistevano e quelli che iniziavano ad esistere su carta stampata non erano poi tanto di massa, dato che gran parte della gente non sapeva leggere. Soprattutto negli ultimi decenni, però, l’esplosiva diffusione dei sistemi di comunicazione di massa ha interconnesso miliardi di persone in una rete capillare di comunicazioni pressoché istantanee. Per quasi tutta la storia dell’umanità, l’informazione è andata a passo di lumaca, quando circolava. In genere, l’informazione girava assai poco, rimanendo comunque circoscritta a ristrette aree geografiche, ed è proprio in virtù di questi isolamenti che nei millenni si sono differenziate le lingue. I vari popoli, tra loro, non si parlavano proprio, altro che cellulari satellitari e teleselezione! I popoli si frequentavano così poco, in passato, che anche le informazioni genetiche non circolavano tra un popolo e l’altro (a parte occasionali stupri qua e là ad opera dei vincitori delle guerre).

Oggi la musica è diversa. Nel campo delle comunicazioni la differenza rispetto al passato è incommensurabile e questa novità , ovviamente, è gravida di conseguenza importanti. I fenomeni di retroazione, diventati rapidissimi, rendono il sistema infinitamente più instabile. Come il noto «effetto farfalla» dei sistemi caotici (il battito d’ali di una farfalla in Giappone potrebbe innescare un concatenamento di eventi in grado di scatenare un uragano in America), una frase pronunciata a Pinerolo potrebbe innescare una reazione a catena che darà il via alla terza guerra mondiale. Lo so, sembra improbabile, ma molto dipenderebbe anche da chi pronunciasse la frase: mettiamo, ad esempio, che Bush vada una sera a cena a Pinerolo...

In effetti, c’è chi prevede che tra pochi anni questa crescente instabilità renderà il futuro completamente imprevedibile, ma di questo parleremo più avanti.

Per mantenere stabile un sistema caotico come quello dell’umanità attuale è necessario che la visione della realtà sia il più possibile omogenea. I mass media contribuiscono a questo risultato, e di ciò è stato già scritto di tutto, dai quasi dimenticati (o, piuttosto, rimossi) Gustave Le Bon (alla sua Psicologia delle folle non negavano di ispirarsi sia Hitler che Mussolini) ed Edward L. Bernays («padre della persuasione», nonché nipote di Freud) in poi.

I mass media vengono utilizzati moltissimo anche per vendere dentifrici, automobili, assorbenti e merendine, ma ciò che interessa qui è quando essi veicolano quelle che ho definito armi di banalizzazione di massa.

Avrete già sentito parlare delle armi di distrazione di massa. Si tratta di un’espressione di cui si è fatto molto uso, e con buona ragione. Tuttavia, le armi di distrazione di massa sono armi tattiche, finalizzate a distrarre l’attenzione collettiva nella contingenza del loro esercizio. Idealmente, il giorno in cui le armi di distrazione di massa smettessero di ruggire, i milioni di persone distratte potrebbero immediatamente tornare ad accorgersi degli eventi significativi che accadono intorno a loro. Le armi di banalizzazione di massa, diversamente, sono armi di tipo strategico e, una volta entrate efficacemente in azione, hanno un effetto duraturo e difficilmente reversibile. Esse provvedono ad installare nelle menti delle persone versioni ipersemplificate e banalizzate di qualsiasi cosa accada o possa accadere.

L’uomo oggi vive in perfetta simbiosi con i media. I concetti che egli pensa sono in linea di massima tutti stati preventivamente filtrati, selezionati, predigeriti, banalizzati e confezionati dal suo Grande Fratello di fiducia (ce n’è più di uno, ma sotto sotto sono tutti in combutta).

I media veicolano un panorama teatrale del mondo e degli eventi che in esso si succedono. Si tratta di illusioni stilizzate, alle quali gli stessi giornalisti finiscono per credere, almeno in parte. L’uomo accetta più o meno acriticamente questa frittata stilizzata di pseudorealtà, nello stesso modo in cui un bambino accetta ciò che gli raccontano i suoi genitori, credendolo vero.

Qualsiasi elemento di complessità della situazione viene semplificato dalle armi di banalizzazione sino al punto che non ha più alcuna relazione rilevante con il significato originario, al di fuori di una sottile assonanza, ovvero di una etichetta comune per significati ormai lontani anni luce.

Lo so cosa starà pensando il lettore a questo punto, e cioè che, tanto per cambiare, anche in questo libro si sta menando il can per l’aia con discorsi che non stanno né in cielo né in terra, ma che intendono solo portare acqua al mulino dell’autore. Io voglio bene al mio lettore e mi dispiace perderlo, tuttavia è molto tempo che scrivo roba astratta e stravagante ed è inevitabile che qualcosa (o più di qualcosa) mi scappi pure in questo libro. Cercherò di non eccedere.

Il primo obiettivo delle armi di banalizzazione di massa è la semplificazione estrema del processo con cui la gente distingue il bene dal male. Al di là del bene e del male, queste armi si curano di semplificare tutto, ma proprio tutto, ciò che ci viene comunicato per via televisiva.
Il risultato è una specie di disneyzzazione della realtà percepita. I Buoni sono sempre buoni ed i Cattivi sono sempre cattivi con riconoscibilità analoga a quella che i Buoni ed i Cattivi hanno in un cartone animato. Questo destino non tocca solo al Bene ed al Male, ma anche a personaggi ed eventi di qualsiasi genere, i quali, spogliati nelle rappresentazioni massmediatiche di qualsiasi complessità, finiscono inevitabilmente per assomigliarsi al punto da essere intercambiabili. In effetti, vengono tutti ridotti ad una manciata di personaggi stereotipati che compiono azioni comuni, anche quando superficialmente appaiano bizzarre.

Fateci caso, socchiudete metaforicamente gli occhi quando vi guardate in giro e parlate con gli altri o siete davanti alla televisione, e vedrete come la nebbia delle illusioni si diraderà per brevi istanti, permettendovi di scorgere l’autentica natura degli stereotipi che sostituiscono la realtà; il mondo apparirà allora come una sorta di pacchiano cartone animato senza uscita, reso folle dal fatto che a tutti sembra qualcosa di autentico e naturale. Pensate che le mie parole siano state troppo astratte? Aspettate a leggere le prossime!

Qualsiasi cosa oggi avvenga, noi non possiamo evitare di paragonarla istantaneamente con la «mappa» di un avvenimento analogo che già abbiamo nel nostro cervello – un’esperienza fittizia di quell’avvenimento che risiede dentro alla nostra materia grigia anche se non l’abbiamo mai fatta. Quella pseudo-esperienza è entrata nel nostro cervello attraverso il Cavallo di Troia di un film, due film, mille film e diecimila telegiornali che abbiamo visto ed assorbito dalla televisione. Qualsiasi cosa avvenga nel mondo, noi siamo quindi in grado di «comprenderlo» perché lo riconosciamo. Il problema è che in realtà non riconosciamo l’avvenimento in sé, dato che in genere non l’abbiamo vissuto, bensì la rappresentazione stilizzata e semplificata che di esso c’è nel nostro cervello. Quest’ultimo, allenato a semplificare tutto da migliaia e migliaia di ore di devota osservazione televisiva, non si prende la briga di decodificare davvero le informazioni in entrata. A che scopo tanta fatica? Gli basta riconoscere la classe di informazioni in ingresso per balzare immediatamente allo stereotipo mentale, cioè il «pacchetto» di consapevolezza ipersemplificata, corrispondente a quell’argomento.

Anziché la nostra vita, ci ritroviamo quindi grottescamente a vivere una sorta di metafora di essa, dove gran parte di ciò che ci succede lo comprendiamo e rappresentiamo nel nostro teatro mentale sostituendolo con il corrispondente surrogato cliché televisivo.

Un esempio eclatante di questo processo si è avuto proprio con gli attentati dell’11 settembre, vissuti da tutti – addirittura anche dalle stesse persone che si trovavano nelle Torri Gemelle e sono riuscite a scappare – come se si trattasse di un film. Il grande tarlo che cova invisibile nei nostri cervelli è brevemente apparso in tutta la sua potenza proprio quel giorno. Im­magina: tu sei in una delle torri colpite, c’è un incendio e devi scappare per salvarti la vita, e il tuo cervello non trova di meglio che credere che stiano girando un remake de L’inferno di cristallo. Per fortuna zone più profonde ed animali del cervello, forgiate da milioni di anni di evoluzione e selezione naturale, non cascano nell’inganno e ti portano in salvo ugualmente, nonostante quell’altro pezzo di cervello malato insista contro ogni evidenza sul fatto che si tratti di un film. Intrappolati senza scampo nelle metafore hollywoodiane che hanno occupato le nostre menti, ecco la nostra condizione psichica di oggi. Ecco la vittoria finale conseguita dalle armi di banalizzazione di massa. Nessuno è immune. Tranne che in rari momenti di lucidità, non ci accorgiamo di nulla. Il Mostro è dentro di noi e si scatena solo quando serve a lui o agli ingegneri che lo hanno programmato.

Un’esemplare rappresentazione cinematografica di questo stato delle cose la troviamo nel film Natural Born Killers, di Oliver Stone. Mickey e Mallory, gli sballati protagonisti della storia, altro non sono che l’esasperazione dei malati di mente che siamo tutti diventati dopo migliaia di ore di esposizione alle armi di banalizzazione di massa. Per questo film Oliver Stone avrebbe meritato un Nobel – un Oscar non sarebbe stato abbastanza – ed invece gli sono giunte critiche su critiche perché migliaia di normalissimi malati di mente si sarebbero coerentemente riconosciuti nei personaggi del film, mettendosi a scimmiottarne le gesta in giro per gli Stati Uniti.

L’effetto utile del costante uso delle armi di banalizzazione è la stabilizzazione delle grandi masse, le quali, perdute in un mondo fittizio, oppure ancorate ad esso (è una questione di interpretazione), un mondo fatto di illusioni televisive, si comportano in modo abbastanza prevedibile perché il sistema si mantenga stabile.

Poiché le armi di banalizzazione di massa dispensano anche grandi quantità di rappresentazioni del Male, esse inevitabilmente finiscono anche per generare un Male stilizzato, esemplificato, stereotipato e quindi meglio gestibile di un Male esercitato da criminali realmente fantasiosi.

Se queste armi consentono ad una società di essere più stabile, la stessa cosa non si può sempre dire degli individui che di tale società fanno parte.

L’effetto secondario e negativo di questo processo, nel quale le nostre esperienze non riescono più ad essere realmente nostre poiché in effetti si associano dentro le nostre teste a stereotipi, è che al giorno d’oggi gran parte della gente si ritrova ad affrontare grossi problemi di identità.

Qualche neurone intelligente rimane, nel profondo del cervello di tutti noi, ed esso urla la propria disperazione per la carenza di distinzione che le nostre vite palesano. Alla convenienza sociale di conformarci gli uni agli altri si contrappone intimamente un bisogno di affermazione e distinzione individuale. Ciò è alla base delle profonde crisi di identità delle nuove generazioni nella società occidentale e del conseguente emergere di nuove forme di tribalismo metropolitano, argomenti sui quali da anni i sociologi discutono e si guadagnano il pane.

Tutti questi paroloni per dire in sintesi estrema che ci hanno fritto il cervello fin dal primo momento in cui un televisore si è acceso nelle nostre case ed ormai che la frittura è completa, globale ed irreversibile, l’unica forma di parziale e residua sanità mentale perseguibile da un povero cristo è la scelta di una forma di follia alternativa, più personale (o tribale), rispetto alla noiosissima follia in voga nella maggioranza indistinta dei membri della società. In parole povere, l’unico modo per non essere completamente pazzi è – paradossalmente – proprio quello di uscire fuori di testa. Naturalmente anche ciò ha i propri inconvenienti. Talvolta questi prendono la forma di 42 piercing facciali ed un paio di corna subcutanee sul cranio, altre volte le manifestazioni sono meno palesi, ma non meno distintive.

Tornando al nostro tema principale, è perfettamente credibile che il condizionamento alla sospensione dell’incredulità operato sulla popolazione americana da anni ed anni di film catastrofisti hollywoodiani sia alla base della sconcertante attitudine della maggior parte degli americani a non interrogarsi in merito alle stranezze ed inverosimiglianze di cui trabocca la storia ufficiale dell’11 settembre. Essi crederebbero alla consistenza di una realtà inverosimile così come farebbero se stessero guardando il solito film pieno di banalità ed inverosimiglianze. In parte, non credo all’esistenza di un complotto per conseguire questo genere di effetti. Il meccanismo è troppo geniale perché essere umano abbia potuto concepirlo a tavolino. Ritengo piuttosto che il sistema si sia autoorganizzato così.

Tuttavia, anche se gran parte del risultato è spontaneamente conseguito dall’autoorganizzazione della società, un’altra parte è indubbiamente pianificata a tavolino.

Roberto Quaglia

20 aprile 2008

Strapagati: Perchè solo loro?


Consiglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza

Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti. Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".

"siglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza" [FIRMA]MARCO SODANO Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti.

Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".
Marco Sodano

19 aprile 2008

NOI, I FORZATI DEL DESIDERIO


Che bella cosa fare il giornalista,si scrive un articolo per altro condivisibile,e chi lo legge pensa come bravo che mente ,ecc..ma poi nella realtà il giornalista fà il contrario di cio che si scrive.

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?

Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla porta di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi?

E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita di elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?

Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si “prodotto”.

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta della distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come i suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la garanzia della sua immortalità.

Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo forzato”, comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo “un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un‘umanità da buttar via”.

3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.

In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.

E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente” inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell’assurdo, anche per gli armamenti.

Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi “migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento” in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di “meglio”?

5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.

Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.

6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.

Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le “relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.

Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una “deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre una efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

Umberto Galimberti