04 giugno 2008

Il Pil è un'ideologia per ricchi


Il Pil è fermo. L'Italia non cresce. E' un disastro. Oppure no. Per tutti quelli che credono nella decrescita, misurare la ricchezza di un paese in base al Pil è pura ideologia. La teoria del filosofo francese Serge Latouche è innanzitutto una pratica che in Italia ha prodotto diverse esperienze concrete e che si è tradotta nel Movimento per la decrescita felice e nella Rete per la decrescita, oltre che in mille esperienze, basta pensare ai i gruppi di acquisto e a qualche battuta di Grillo. Ma che significa decrescita, quali pratiche vengono attuate in Italia e in Europa? Non è un'utopia non compatibile con la macroeconmia mondiale? Socialismo e liberismo hanno creduto entrambi nel progresso del mercato, scontrandosi sulla diversa distribuzione della ricchezza ma avendo come comune denominatore la merce, ovvero oggetti e servizi monetizzabili. Adesso che la contraddizione del capitalismo si misura anche con la questione ambientale il mito della crescita infinita in un mondo finito presenta tutti i suoi limiti, e colpisce al cuore non solo il capitalismo ma il centro delle teorie anticapitaliste dividendole tra sviluppiste e anti-sviluppiste, queste ultime spesso accusate di essere velleitarie o territoriali (quelle dei «no», dalla Tav agli inceneritori, quelle che operano nel micro ma non riescono ad avere un respiro globale, o addirittura conservatrici, autarchiche, per un ritorno quasi mistico alla natura). La realtà è più complessa. I teorici della decrescita distinguono merci da beni. Un bene è, per esempio, lo yogurt fatto in casa, ma anche l'abbattimento di spreco energetico. La decrescita non è una teoria anti-mercantile, piuttosto è una critica all'invasività del mercato, tende a ridurre la sfera di influenza delle merci. Produrre e consumare meno significa sfruttare meno materie prime, lavorare meno, produrre meno rifiuti, abbattere i consumi per il trasporto delle merci. I rifiuti, a Napoli e non solo, sono prima di tutto il risultato della crescita. Meno lavoro vuol dire meno incidenti sul lavoro (per i credenti del Pil, anche il lavoro è solo merce). Meno trasporti vuol dire meno smog e meno morti sulle strade. Senza citare le guerre per le materie prime. Anche le armi sono merci e contribuiscono al Pil. Il Pil misura la quantità di ricchezza totale senza calcolare la sua distribuzione, ma soprattutto non calcola ciò che non si vende. Per questo sono stati studiati altri indici, il Bil (Benessere interno lordo), oppurre il Quars (Qualità regionale di sviluppo) persino il fantasioso Fil (indice di Felicità interna lorda). «Il difetto di questi indici - è dubbioso Maurizio Pallante, presidente del Movimento della decrescita felice - è che affiancano il Pil ma non lo superano e che i parametri qualitativi che tentano di misurare restano soggettivi». La bestemmia della decrescita pretende di partire dal basso e di agire per gradi senza contrapposizione frontale con il sistema capitalista. «Bisogna agire su tre livelli - spiega Pallante - gli stili di vita, la tecnologica non per aumentare la produttività ma per ridurre rifiuti e energia, e la politica. Per esempio, se un comune delibera che le case devono essere coibentate, si spreca meno per il riscaldamento; in Alto Adige bastano 7 litri di gas per metro quadro all'anno contro i 20 litri della media nazionale. In Francia la decrescita ha prodotto un ricco dibattito teorico, in Italia tendiamo a metterla in pratica e sono in atto molti progetti». Ma è praticabile anche al di là di microesperienze? Problema: meno produzione e consumo significa meno posti di lavoro. «Non sempre, per coibentare le case si lavora». Ma si può sperare nella decrescita senza fare la rivoluzione? «E' chiaro che un petroliere sarà contro, ma un imprenditore che opera con energie alternative a favore». Eppure se il mercato si riduce qualcuno dovrà pur pagarne le conseguenze. Le rendite, i ricchi. Mica semplice.

Giorgio Salvetti

03 giugno 2008

Il trionfo del capitale e la deformazione della realtà


Che il denaro abbia determinato una deformazione del corpo comunitario ed una alterazione dei rapporti tra i suoi membri è cosa nota e studiata da tempo. Correva l’anno 1500 quando Lutero – il monaco delle 95 tesi sulle indulgenze – definiva il denaro sterco del Demonio e creatore del mondo, in opposizione a Dio creatore di verità attraverso la parola. Quindi, nessuna novità sul fronte della seduzione mercantile.
La ricerca del guadagno, la volontà dell’incentivazione degli utili, la pulsione all’accumulo, la manifestazione di avidità sono condizioni presenti nella struttura antropologica, ma sempre e comunque considerate come tendenze da limitare o deviazioni da condannare.

Il problema nasce nel momento in cui il denaro diventa componente psichica, una larva che mobilita le forze infere dell’uomo, la sua ombra più invadente, la motivazione più pervasiva. Da strumento di benessere e di sussistenza si trasforma in fine, una fonte tanto insoddisfacente quanto velleitaria di felicità e di riconoscimento.

L’economia – il metodo di gestione del denaro – è sempre esistita. Aristotele definisce bene il fenomeno dello scambio e della sua equità: “Per questo, tutto ciò di cui si dà scambio deve essere in qualche modo commensurabile. A questo scopo è stata inventata la moneta, che è divenuta in un certo modo un intermedio, dato che misura tutto, cosicché misura sia l’eccesso che il difetto (…)” (2) , quindi una semplice unità di misura che – attraverso dei riferimenti condivisi – permette di definire il giusto e di controllare l’abuso. Ma altrettanto bene circoscrive il paradigma unitario dello scambio e della moneta: “Questo è, in verità, il bisogno, che tiene unite tutte le cose (…)” (3) , perché se tutti avessero tutto a sufficienza nessuno scambio potrebbe essere possibile per mancanza di una necessità reciproca.
La moneta, perciò, quale strumento di reciprocità materiale e quale oggetto simbolico, codificava un sistema di uguaglianza, di commensurabilità e di lecita contrattazione.
Naturalmente gli oggetti di trattativa dovevano essere stimati secondo una specifica natura, e la stima doveva essere condivisa; ed in questo dispositivo si definiva la produzione dell’oggetto in questione: quello per l’uso e quello per lo scambio. Nel primo caso la necessità era funzionale, nel secondo puramente simbolica. (Questa differenza è particolarmente accentuata e facilmente esemplificabile in due oggetti del nostro tempo come l’automobile e il telefonino, che sono diventati da mezzi di trasporto e di comunicazione a segni di potere e di stato sociale, o almeno di sovvertita classe sociale).
Fino a qui nulla di scandaloso, e niente fa presagire la devastazione morale della quale saremmo stati vittime e spettatori tanti secoli dopo. La normalità di questo pensiero è tutta legata alla presenza di una misura materiale, di una entità concreta e palpabile, di un prodotto costruito dall’uomo per una sua facilità comparativa: la moneta; quella moneta che assumeva importanza diversa a seconda del suo materiale di costituzione, e sulla quale si riproducevano teste di imperatori e commemorazioni memorabili; ma non solo, una moneta che poteva anche essere, semplicemente, sostituita con “merci durevoli di generale utilità”(4) .

In questo quadro di economia primitiva esistono delle parole-chiave che inquadrano il sistema economico all’interno di una dinamica di concretezza, di una relazione di realtà: equità, necessità, sussistenza, mezzo, scambio, bisogno. La moneta rappresentava – nelle sue specifiche rappresentazioni – la fiducia che la merce avesse il valore prescritto e che lo scambio avvenisse sulla base dell’onestà. Nulla era concesso ad una possibile speculazione né c’era spazio per traffici disonesti o per trattative equivoche. Basti pensare, per usare un esempio infantile, l’avvertenza dei maestri elementari quando spiegavano la metodologia delle addizioni e delle sottrazioni: “Mele con mele e pere con pere”; in altre parole, ogni operazione doveva essere valutata e conclusa per concretezza e analogia di genere. Solo il simile con il simile, o il diverso condiviso, potevano entrare in rapporto matematico e in valutazione di scambio.

“Il vero uomo d’affari non guadagna il denaro né per i godimenti che procura né per vivere con splendore, non lavora per sé né per i suoi: il denaro è guadagnato per essere investito, deve essere impiegato solo perché aumenti, avendo valore e senso solo l’arricchimento senza fine che esso induce”.(5) (Georges Bataille)
Il cambiamento di mentalità e di prassi avvenne nel momento in cui la moneta perse la sua caratteristica di concretezza di uso, di mezzo, per diventare denaro, quindi un concetto astratto, una ipotesi mercantile, una promessa – secondo una felice definizione di Massimo Fini. È sulla speranza, sull’impegno, sulla garanzia, sull’assicurazione che si gioca il potere del denaro. Il denaro si trasformò in una entità che permise una costruzione proiettata nel futuro. E da questa opzione che si fonda la pulsione all’accumulo. Si investe per accaparrarsi più futuro possibile, si risparmia per avere più potere possibile, ci si assicura per avere più garanzie possibili. Il denaro assume la valenza di un amuleto, e il suo accaparramento un rito esorcistico in nome del “Non si sa mai…”: non è la paura della malattia, il rischio incombente della morte, l’incognita di un evento esistenziale a pervadere di ansia la quotidianità, ma l’angoscia di mancanza di denaro. Non si parla, in questo caso, della ormai famosa “quarta settimana”, della difficoltà di far fronte alle necessità primarie in una crisi sempre più pressante, ma del sovrappiù, dell’eccedente, del superfluo.
Ed è proprio questa spinta ansiogena all’opulenza – spesso virtuale e precaria – che fa perdere all’uomo il senso essenziale di questa questione: che il denaro è un mezzo per vivere, e la vita non può essere sacrificata per esso invertendo in maniera perversa i termini del discorso.

Il lavoro con il quale ci si dovrebbe procurare il benessere non può diventare fonte di malattia per una affannosa rincorsa alle seduzioni di mercato, né è salutare il famoso invito di “lavorare di più-guadagnare di più-comperare di più”, in un cortocircuito patologico di fatica e di insoddisfazione.
Del resto, è il denaro nella sua valenza di finalità fine a se stessa che ha “inventato” la speculazione finanziaria, ossia quel dispositivo autoreferenziale ed autoregenerantesi che sganciando la sua funzione dal valore della merce è diventato merce esso stesso: “Il denaro finanziario è denaro che opera su se stesso, è denaro che compra altro denaro”(6 ). È da questa perversione che nasce quel fenomeno moralmente ributtante e penalmente punibile – in continua espansione e con punti franchi istituzionali quali le banche – che ha magistralmente reso in poesia il grande Ezra Pound: l’usura. È inutile gridare allo scandalo quando si denunciano le banche per i tassi di interesse da strozzinaggio. Le banche sono di per sé – e a maggior ragione nell’anomalia di una Banca di Italia ghermita dalle grinfie dei privati – un apparato riconosciuto legalmente e preposto alla usura: “La banca trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla. Istigazione semiprivata / disse il sig. Rothschild, uno dei tanti Roth-schild / verso il 1861 o ’64, Saranno in pochi a capirlo. / Quelli che lo capiscono saranno intenti a trarne profitto. / Il grosso pubblico forse non vedrà mai / che è contro il suo interesse.”(7) .
Nasce così il capitale, dalla smaterializzazione (8) del denaro, dal dissolvimento della sua concretezza; e in un circuito scellerato, più diventa impalpabile la sua presenza attraverso la finanza telematica, più le transazioni diventano virtuali, anonime, irreali e più la sua presenza si fa pervasiva a corrodere uomini, società e stati, imponendo la sua spettrale presenza sui destini fisici, morali e spirituali di intere comunità.

“[Il] capitale (…) è un movimento di rapacità impersonale dominato nel suo sviluppo da un’estrema indifferenza per gli interessi privati e per l’interesse pubblico”.(9)(Georges Bataille)
Sembrerebbe una banalità, ma è il capitale che fonda il capitalismo: senza il primo presupposto non esisterebbe il conseguente dispositivo. E in sé anche il capitalismo potrebbe apparire come un semplice “sistema economico-sociale fondato sulla separazione tra capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione dal cui impiego ricavano un profitto, e lavoratori che vendono la propria forza-lavoro in cambio di un salario”(10) . In realtà, alla fatuità del capitale corrisponde un’infiltrazione metastatica del capitalismo, diventato una vera e propria visione del mondo, un omologante stile di vita. Il suo trionfo confermato con la vittoria sulle potenze dell’Asse nella seconda guerra civile europea (1940-1945) – perché di affermazione militare del capitale si è trattato, e non della democrazia come mistificano i maggiordomi del pensiero unico – ha invaso ogni aspetto della vita personale e societaria, alterando stili di vita, comportamenti interpersonali, destini, rapporti con il mondo circostante e la natura come habitat originario. Attraverso la sua opzione filosofica – il materialismo – e la sua prassi meccanicistica – la tecnocrazia –, il capitalismo ha creato dal nulla quella chimera seduttiva che si chiama progresso indefinito.
Esso ha reificato la natura rendendola oggetto passivo di sfruttamento e di manomissione, determinando la devastazione ambientale che si va lamentando attraverso due strategie convergenti e sinergiche: lo sfruttamento selvaggio delle risorse e l’implementazione incontrollata dei consumi.
Ha ridotto l’uomo ad animale produttivo, a fenomeno di marketing, ad argomento di manipolazione, il tutto deformando i parametri stessi della vita: da un lato, ha scombinato i rapporti vita morte con la manipolazione della prima e la meccanizzazione della seconda; d’altro ha invertito fini e modalità lavorative, contraendo il tempo creativo e dilatando il tempo della prestazione, il tutto con la minaccia della precarietà e il capestro dell’insicurezza.
Ha scardinato i legami comunitari rendendoli precari accordi utilitaristici tra soci, ha alterato la stessa concezione del limite e delle opportunità, con la conseguenza di contrattualizzare relazioni sentimentali e rapporti educativi. Ha isterilito la politica degradandola a comitato di affari e riducendola a miserevole ancella dell’economia, in una organizzazione transnazionale senza identità, senza radici, senza destini.
E potremmo continuare nell’elencazione delle derive del mercantilismo e delle infezioni del capitalismo. Perché il capitalismo, prima ancora di essere una concezione economica, è una vera e propria visione del mondo, una dispositivo creatore di irrealtà.

Allora, la domanda che ci si pone è: potrà manifestarsi una crisi del capitalismo se la sua stessa esistenza è fondata dalla creazione di un’entità-altra, da un delirio di onnipotenza che pervade ogni espressione della sua presenza, da una realtà-altra entro la quale l’uomo e la natura sono completamente immersi? I miei dubbi sono fortissimi in proposito.
Lucidamente non credo che in maniera atraumatica si possa intervenire su questo fenomeno metastatico, per altro stupido come tutte le cellule del cancro che nella loro folle ed incontrollata riproduzione portano alla morte il corpo che colonizzano e, nello stesso tempo, si autoeliminano alla morte di questo.
Sono convinto, però, che attraverso due strategie – il comunitarismo e la decrescita –si possa intervenire su settori sociali e dispositivi collettivi in maniera mirata e circoscritta. Le avanguardie di questa scommessa hanno un compito educativo di primaria importanza: rendere consapevole la massa della condizione di passività e di anestesia nella quale si trova e nella quale i poteri forti esigono che rimanga; rianimare quel senso di appartenenza e di destino che, solo, può rendere credibile ed attuabile un processo di decrescita (11) salutare.

Questa impostazione di pensiero va ben oltre la semplice programmazione economica, l’applicazione dei correttivi di mercato, il ripensamento delle basi capitalistiche: essa implica una vera e propria rivoluzione culturale che ridisegni creativamente gli stili di vita e, con essi, le modalità di stare al mondo. Si tratta di rimettere in discussione il tempo nella sua percezione e nella sua suddivisione quotidiana, la logica del lavoro nella sua minuziosa organizzazione, il significato della produzione e del consumo nell’efficientismo della prima e nella mistificazione del secondo, il senso della vita dell’uomo e della sua comunità di appartenenza. È, nel principio e nella prassi, la consapevolezza di un altro mondo possibile, quindi la volontà di un progetto politico nuovo e radicale che creda e combatta per “il cambiamento dei valori [che] dà luogo a una visione diversa del mondo e dunque ad un altro modo di vedere la realtà” (12) . Un processo rivoluzionario, questo, di destrutturazione della realtà deformata in cui siamo immersi e la restituzione delle vita alla realtà vera ed autentica.
E se questa realistica utopia non potrà essere goduta dai presenti rimarrà a testimonianza di chi non si è arreso e di chi, almeno, ha avuto il buon senso di attrezzarsi in vista di una catastrofe annunciata.
Note

1 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano, 2000, p. 26.
2 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2005, V, 1333a, p. 191.
3 Ivi, 1333a, p. 193.
4 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
5 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., pp. 60-61.
6 M. FINI, Il denaro , Marsilio, Venezia, 1988, p. 196.
7 E. POUND, I Cantos, Mondadori, Milano, 1999, XLVI, p. 453.
8 M. FINI, Il denaro , cit., p. 201.
9 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., p. 78.
10 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
11 Cfr. A. de BENOIST, Comunità e decrescita, Arianna, Bologna, 2006.
12 S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 46-47.

Adriano Segatori

Il Trattato di Lisbona deve essere respinto


Il Parlamento italiano è chiamato a ratificare il Trattato di Lisbona, che conferirà poteri straordinari alla Commissione dell’Unione Europea in quasi tutti gli aspetti della vita dei cittadini, e soprattutto su questioni di politica economica e di difesa, privando il nostro Paese della propria sovranità e vanificando in questo senso la Costituzione italiana, a partire dall’Articolo 1 che recita “la sovranità appartiene al popolo”. In altri paesi, tra cui Francia e Germania, esso è stato ratificato benchè il testo non fosse ancora stato reso noto, e risultasse del tutto incomprensibile, inducendo molti parlamentari ad approvarlo senza neanche averlo letto. Il Presidente della Repubblica tedesco non ha firmato la ratifica perché sono immediatamente scattati tre ricorsi alla Corte Costituzionale. In Irlanda è previsto un referendum contro il Trattato che, secondo le previsioni, lo boccerà il 12 giugno esattamente come fecero i referendum contro la Costituzione europea in Francia e Olanda nel 2005. Lo stesso testo, con alcune modifiche, è stato riproposto col nome di Trattato, benchè si tratti di un progetto costituzionale, con l’intento di vanificare alcuna iniziativa referendaria in paesi come l’Italia che non prevedono referendum sui trattati. Negli ultimi mesi si sono tenute numerose manifestazioni contro la ratifica del Trattato a Vienna, Berlino, e in tutta la Francia, manifestazioni in cui eminenti costituzionalisti hanno sottolineato la violazione di numerose norme costituzionali, tra cui quella della neutralità prevista dalla Costituzione austriaca.

La politica di difesa del Trattato prevede infatti, oltre alle missioni di pace, anche missioni offensive, che violano l’Art. 11 della nostra Costituzione, che recita “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Attraverso il potenziamento delle forze militari messe a disposizione dell'Unione Europea, è in atto un tentativo di fare dell'Europa un braccio della NATO. Con la creazione di un gruppo ristretto di paesi a cui verrebbero demandate le iniziative militari, sarebbe più facile aggirare l'opposizione di chi vorrebbe evitare lo scontro strategico portato avanti da Londra e Washington nei confronti di Russia e Cina[1].

Ma è in politica economica che si sentiranno di più gli effetti nefasti di quella che molti definiscono una vera e propria “dittatura dell’Unione e della Banca Centrale Europea”. Grazie al Trattato di Lisbona, infatti, i burocrati dell’Unione Europea avranno pieno titolo a bocciare qualunque misura decisa dal nostro governo, e dagli altri governi europei, per difendere la propria economia, l’occupazione, i redditi, l’industria e l’agricoltura, ed intervenire sui prezzi.

La crisi alimentare è un esempio del problema, che verrà aggravato dal Trattato di Lisbona. Mentre in tutto il mondo si moltiplicano gli appelli a intervenire per frenare la corsa al rialzo dei prezzi delle derrate alimentari, e mettere fine alla folle politica di sussidi ai “biofuels” che ne è tra le cause, l’Unione Europea, nella persona del Commissario Agricolo Mariann Fischer Boel, continua ad insistere nell'abolire la PAC (Politica Agricola Comune) che difende gli agricoltori, e nel mantenere l’obiettivo del 10% di consumi energetici coperti dai biocarburanti, il che significa che riceveranno sussidi solo gli agricoltori che producono per i biofuels, e non per nutrire il mondo, benchè da più parti (il Ministro dell’Agricoltura francese Michel Barnier, il ministro Tremonti e l’ex ministro del Commercio Estero Emma Bonino) questa sia stata definita una politica “criminale” che aumenterà le carestie in tutto il mondo e provocherà rivolte non solo nei paesi poveri ma anche in quelli “intermedi”, quali Egitto, Indonesia e Pakistan. Nel nome del “mercatismo” e del “libero commercio”, Unione Europea e WTO impediscono ai governi di intervenire contro la speculazione finanziaria sui prezzi, non solo delle derrate alimentari, ma anche del petrolio, su cui si arricchiscono i grandi speculatori, mentre la gente comune non arriva a fine mese. Interventi come quello del ministro dell’Agricoltura francese Barnier in difesa dei pescatori, o del governo italiano in difesa dell’Alitalia, potranno essere vietati dalla burocrazia di Bruxelles nel nome del Trattato di Lisbona, che dà la precedenza a delibere europee.

Ci sono almeno 2 articoli della Costituzione italiana che prevedono tali interventi dello Stato, e che dovrebbero avere la precedenza sul diktat europeo:

Art. 3.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 43.

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. (enfasi nostra)

Il Presidente Schifani ha annunciato che il voto sul trattato è prioritario. Ma anche da noi si levano autorevoli voci di critica. L'ex ministro e insigne giurista Giuseppe Guarino, ordinario di diritto amministrativo all'Università di Roma, ha diffidato dal ratificare il trattato così com'è, perché esso codificherebbe un sistema di "governo di un organo" o "organocrazia". Il prof. Guarino ha esposto la sua critica in una conferenza pubblica a Firenze il 19 maggio, alla presenza di costituzionalisti, esperti e amministratori. Il trattato viola almeno due articoli della Costituzione italiana, l'Art. 1 ("La sovranità appartiene al popolo") e l'Art. 11 (L'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie"). Riguardo a quest'ultimo, le condizioni di parità sono violate dal fatto che paesi come la Gran Bretagna e la Danimarca, membri del trattato, sono esonerati dalla partecipazione all'Euro. Così essi possono, ad esempio, fissare il tasso d'interesse in modo vantaggioso per loro ma svantaggioso per gli altri firmatari del trattato.

Inoltre, osserva Guarino, il Trattato di Lisbona aumenta sensibilmente i poteri della Commissione Europea. Ad esempio, nel caso della procedura di infrazione del Patto di Stabilità, stabilita dall'Art. 104, la Commissione finora aveva solo il potere di notificare l'avvenuta infrazione al Consiglio dei Ministri dell'EU, che poi decideva se avviare la procedura o meno. Nella nuova versione, sono stati introdotti tre piccoli cambiamenti che spostano quei poteri in seno alla Commissione. Non sarebbe saggio approvare il trattato, riproponendosi di cambiare in seguito le sue parti sbagliate, ha osservato il prof. Guarino. Ciò sarebbe di fatto impossibile, dato che occorre l'unanimità.

Un altro eminente costituzionalista tedesco, il prof. Schachtschneider, ha sviluppato una lezione dal titolo “La legittimazione della pena di morte e dell'omicidio” in cui sostiene che il Trattato di Lisbona nel suo continuo sostenere una cosa e rimandare ad altra contraria attraverso il richiamo alle “Spiegazioni della Carta dei Diritti Fondamentali” legittima la pena di morte e l’omicidio “per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione” e “per atti commessi in tempo di guerra o in caso di pericolo imminente di guerra” (ben 14 Stati dell’Unione europea sono impegnati nella guerra in Iraq). A queste tesi ovviamente se ne contrappongono di contrarie. Ma mentre la “battaglia delle opinioni” incalza, la politica deve decidere.

Ci appelliamo dunque al Parlamento italiano affinchè eviti approcci settoriali, e veda il contesto generale in cui si inserisce il Trattato di Lisbona: una crisi sistemica in cui si è pronti a scelte anti-democratiche pur di tenere in piedi una bolla speculativa destinata comunque ad esplodere. Se il dato giuridico è importante, esso deve essere contestualizzato al particolare momento storico. La considerazione del momento storico non può prescindere dalla lettura economica intesa come capacità relazionale dell’umanità con la biosfera.

Se già dalla semplice lettura e contestualizzazione storica del Trattato di Maastricht, era comprensibile che il processo avviatosi nel ’92 non era altro che una tappa di un sovraprocesso oligarchico-imperiale, oggi, a distanza di 16 anni, abbiamo l’evidenza della tardiva percezione dei sensi a dimostrarcelo. E pensare che avremmo evitato alla popolazione europea 16 anni di progressive difficoltà, rimettendoci alla lungimirante luce della ragione piuttosto che attendere il tardivo verdetto della percezione sensoria!

Come sostiene giustamente il Prof. Guarino, occorre distinguere tra euromercato (nel senso di mercato europeo) ed eurosistema (nel senso di sistema composto di istituzioni europee). L’euromercato esisteva già prima dell’eurosistema. L’euromercato non necessitava dunque dell’eurosistema. Questo eurosistema è una costruzione evidentemente oligarchica. Il cuore dello stesso non è la Corte di Giustizia europea, tanto meno il Parlamento europeo o il Consiglio d’Europa. Il cuore e dominus della costituzione materiale europea, dei processi all’interno della quale si sviluppano, è la Banca centrale europea (Bce).

Non ci si deve confondere. La Bce non è un ente democratico. La Bce è formalmente un ente di diritto pubblico, ma nella sostanza è un ente dominato dalle banche private. La Bce decide la politica monetaria e finanziaria, e conseguentemente decide la politica economica dell’Europa. Guarino mette al centro del suo discorso il trattato stesso con i suoi meccanismi. Tuttavia Guarino stesso riconosce che dei due parametri fondamentali della struttura dell’Unione monetaria europea, si è prestato attenzione al rapporto defitic/pil ma non a quello debito pubblico/pil. Quest’ultimo è di anno in anno progressivamente peggiorato non solo per l’Italia, ma anche per la Germania e la Francia; le violazioni di questo europarametro non sono state sanzionate in alcun modo. Dunque è subentrato nella costituzione materiale un elemento discrezionale. Questa discrezionalità è esercitata appunto dalla Bce[2].

Ratificare il Trattato di Lisbona rappresenterebbe un’ulteriore legittimazione di questo sistema oligarchico che già troppo a lungo è durato ed i cui disastrosi risultati, in termini di tenore di vita reale della popolazione europea, sono sotto gli occhi di tutti. Ratificare il Trattato di Lisbona vorrebbe dire rafforzare ancor più un eurosistema oligarchico.

Il disegno dei padri fondatori dell’Europa, De Gasperi, De Gaulle e Adenauer, era quello di un’Europa dei Popoli non di un’Europa delle banche.

Facciamo dunque appello al Parlamento italiano ed al Presidente Napolitano affinchè non ratifichino il Trattato di Lisbona, e promuovano piuttosto presso le sedi internazionali un nuovo sistema monetario e creditizio, una Nuova Bretton Woods, che metta fine alla speculazione e rilanci l’economia reale, come viene ormai chiesto a viva voce da più parti.

Liliana Gorini

(presidente del Movimento Solidarietà, Milano)

v. Sant’Alessandro Sauli 24

20127 Milano

tel. 02-2613058

[1] In questo contesto Helga Zepp-LaRouche, presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BueSo) fa riferimento ad un documento politico sul conto dell’Alleanza che circola in ambienti neo-conservatori transatlantici. Il documento è intitolato “Verso una grande strategia per un mondo nell’incertezza” ed è stato redatto da cinque generali in congedo che espongono una nuova strategia per la NATO, secondo cui la nuova struttura di difesa composta da USA, UE e NATO ha il compito di affrontare una serie di sfide, tra cui: crescita demografica (!), cambiamento del clima, sicurezza energetica, aumento dell’irrazionale e declino della ragionevolezza (!), indebolimento degli stati nazionali e delle istituzioni mondiali (come l’ONU, l’UE, la NATO), terrorismo internazionale, crimine organizzato, proliferazione di armi di distruzione di massa, “abuso della leva finanziaria ed energetica”, migrazioni, HIV/AIDS e SARS. I firmatari sono: gen. Klaus Naumann (Germania), feldmaresciallo lord Inge (Regno Unito), gen. John Shalikashvili (USA), amm. Jacques Lanxade (Francia), e gen. Henk van den Bremen (Olanda).

[2] La Bce ha puntato ad essere rigida sul primo rapporto e non sul secondo, perché è la spesa che di anno in anno uno stato può effettuare che potrebbe distrarre troppe risorse finanziarie dal costante rifinanziamento della bolla speculativa globale ed arrestare quel processo di distruzione controllata dell’economia. Ed è proprio perché si è rigidi su questo rapporto che il secondo rapporto è sempre più non rispettato. Impedire la spesa pubblica annuale come massicciamente orientata ai processi produttivi, fa sì che l’economia reale si impoverisca sempre più e che conseguentemente i saldi finanziari peggiorino.

04 giugno 2008

Il Pil è un'ideologia per ricchi


Il Pil è fermo. L'Italia non cresce. E' un disastro. Oppure no. Per tutti quelli che credono nella decrescita, misurare la ricchezza di un paese in base al Pil è pura ideologia. La teoria del filosofo francese Serge Latouche è innanzitutto una pratica che in Italia ha prodotto diverse esperienze concrete e che si è tradotta nel Movimento per la decrescita felice e nella Rete per la decrescita, oltre che in mille esperienze, basta pensare ai i gruppi di acquisto e a qualche battuta di Grillo. Ma che significa decrescita, quali pratiche vengono attuate in Italia e in Europa? Non è un'utopia non compatibile con la macroeconmia mondiale? Socialismo e liberismo hanno creduto entrambi nel progresso del mercato, scontrandosi sulla diversa distribuzione della ricchezza ma avendo come comune denominatore la merce, ovvero oggetti e servizi monetizzabili. Adesso che la contraddizione del capitalismo si misura anche con la questione ambientale il mito della crescita infinita in un mondo finito presenta tutti i suoi limiti, e colpisce al cuore non solo il capitalismo ma il centro delle teorie anticapitaliste dividendole tra sviluppiste e anti-sviluppiste, queste ultime spesso accusate di essere velleitarie o territoriali (quelle dei «no», dalla Tav agli inceneritori, quelle che operano nel micro ma non riescono ad avere un respiro globale, o addirittura conservatrici, autarchiche, per un ritorno quasi mistico alla natura). La realtà è più complessa. I teorici della decrescita distinguono merci da beni. Un bene è, per esempio, lo yogurt fatto in casa, ma anche l'abbattimento di spreco energetico. La decrescita non è una teoria anti-mercantile, piuttosto è una critica all'invasività del mercato, tende a ridurre la sfera di influenza delle merci. Produrre e consumare meno significa sfruttare meno materie prime, lavorare meno, produrre meno rifiuti, abbattere i consumi per il trasporto delle merci. I rifiuti, a Napoli e non solo, sono prima di tutto il risultato della crescita. Meno lavoro vuol dire meno incidenti sul lavoro (per i credenti del Pil, anche il lavoro è solo merce). Meno trasporti vuol dire meno smog e meno morti sulle strade. Senza citare le guerre per le materie prime. Anche le armi sono merci e contribuiscono al Pil. Il Pil misura la quantità di ricchezza totale senza calcolare la sua distribuzione, ma soprattutto non calcola ciò che non si vende. Per questo sono stati studiati altri indici, il Bil (Benessere interno lordo), oppurre il Quars (Qualità regionale di sviluppo) persino il fantasioso Fil (indice di Felicità interna lorda). «Il difetto di questi indici - è dubbioso Maurizio Pallante, presidente del Movimento della decrescita felice - è che affiancano il Pil ma non lo superano e che i parametri qualitativi che tentano di misurare restano soggettivi». La bestemmia della decrescita pretende di partire dal basso e di agire per gradi senza contrapposizione frontale con il sistema capitalista. «Bisogna agire su tre livelli - spiega Pallante - gli stili di vita, la tecnologica non per aumentare la produttività ma per ridurre rifiuti e energia, e la politica. Per esempio, se un comune delibera che le case devono essere coibentate, si spreca meno per il riscaldamento; in Alto Adige bastano 7 litri di gas per metro quadro all'anno contro i 20 litri della media nazionale. In Francia la decrescita ha prodotto un ricco dibattito teorico, in Italia tendiamo a metterla in pratica e sono in atto molti progetti». Ma è praticabile anche al di là di microesperienze? Problema: meno produzione e consumo significa meno posti di lavoro. «Non sempre, per coibentare le case si lavora». Ma si può sperare nella decrescita senza fare la rivoluzione? «E' chiaro che un petroliere sarà contro, ma un imprenditore che opera con energie alternative a favore». Eppure se il mercato si riduce qualcuno dovrà pur pagarne le conseguenze. Le rendite, i ricchi. Mica semplice.

Giorgio Salvetti

03 giugno 2008

Il trionfo del capitale e la deformazione della realtà


Che il denaro abbia determinato una deformazione del corpo comunitario ed una alterazione dei rapporti tra i suoi membri è cosa nota e studiata da tempo. Correva l’anno 1500 quando Lutero – il monaco delle 95 tesi sulle indulgenze – definiva il denaro sterco del Demonio e creatore del mondo, in opposizione a Dio creatore di verità attraverso la parola. Quindi, nessuna novità sul fronte della seduzione mercantile.
La ricerca del guadagno, la volontà dell’incentivazione degli utili, la pulsione all’accumulo, la manifestazione di avidità sono condizioni presenti nella struttura antropologica, ma sempre e comunque considerate come tendenze da limitare o deviazioni da condannare.

Il problema nasce nel momento in cui il denaro diventa componente psichica, una larva che mobilita le forze infere dell’uomo, la sua ombra più invadente, la motivazione più pervasiva. Da strumento di benessere e di sussistenza si trasforma in fine, una fonte tanto insoddisfacente quanto velleitaria di felicità e di riconoscimento.

L’economia – il metodo di gestione del denaro – è sempre esistita. Aristotele definisce bene il fenomeno dello scambio e della sua equità: “Per questo, tutto ciò di cui si dà scambio deve essere in qualche modo commensurabile. A questo scopo è stata inventata la moneta, che è divenuta in un certo modo un intermedio, dato che misura tutto, cosicché misura sia l’eccesso che il difetto (…)” (2) , quindi una semplice unità di misura che – attraverso dei riferimenti condivisi – permette di definire il giusto e di controllare l’abuso. Ma altrettanto bene circoscrive il paradigma unitario dello scambio e della moneta: “Questo è, in verità, il bisogno, che tiene unite tutte le cose (…)” (3) , perché se tutti avessero tutto a sufficienza nessuno scambio potrebbe essere possibile per mancanza di una necessità reciproca.
La moneta, perciò, quale strumento di reciprocità materiale e quale oggetto simbolico, codificava un sistema di uguaglianza, di commensurabilità e di lecita contrattazione.
Naturalmente gli oggetti di trattativa dovevano essere stimati secondo una specifica natura, e la stima doveva essere condivisa; ed in questo dispositivo si definiva la produzione dell’oggetto in questione: quello per l’uso e quello per lo scambio. Nel primo caso la necessità era funzionale, nel secondo puramente simbolica. (Questa differenza è particolarmente accentuata e facilmente esemplificabile in due oggetti del nostro tempo come l’automobile e il telefonino, che sono diventati da mezzi di trasporto e di comunicazione a segni di potere e di stato sociale, o almeno di sovvertita classe sociale).
Fino a qui nulla di scandaloso, e niente fa presagire la devastazione morale della quale saremmo stati vittime e spettatori tanti secoli dopo. La normalità di questo pensiero è tutta legata alla presenza di una misura materiale, di una entità concreta e palpabile, di un prodotto costruito dall’uomo per una sua facilità comparativa: la moneta; quella moneta che assumeva importanza diversa a seconda del suo materiale di costituzione, e sulla quale si riproducevano teste di imperatori e commemorazioni memorabili; ma non solo, una moneta che poteva anche essere, semplicemente, sostituita con “merci durevoli di generale utilità”(4) .

In questo quadro di economia primitiva esistono delle parole-chiave che inquadrano il sistema economico all’interno di una dinamica di concretezza, di una relazione di realtà: equità, necessità, sussistenza, mezzo, scambio, bisogno. La moneta rappresentava – nelle sue specifiche rappresentazioni – la fiducia che la merce avesse il valore prescritto e che lo scambio avvenisse sulla base dell’onestà. Nulla era concesso ad una possibile speculazione né c’era spazio per traffici disonesti o per trattative equivoche. Basti pensare, per usare un esempio infantile, l’avvertenza dei maestri elementari quando spiegavano la metodologia delle addizioni e delle sottrazioni: “Mele con mele e pere con pere”; in altre parole, ogni operazione doveva essere valutata e conclusa per concretezza e analogia di genere. Solo il simile con il simile, o il diverso condiviso, potevano entrare in rapporto matematico e in valutazione di scambio.

“Il vero uomo d’affari non guadagna il denaro né per i godimenti che procura né per vivere con splendore, non lavora per sé né per i suoi: il denaro è guadagnato per essere investito, deve essere impiegato solo perché aumenti, avendo valore e senso solo l’arricchimento senza fine che esso induce”.(5) (Georges Bataille)
Il cambiamento di mentalità e di prassi avvenne nel momento in cui la moneta perse la sua caratteristica di concretezza di uso, di mezzo, per diventare denaro, quindi un concetto astratto, una ipotesi mercantile, una promessa – secondo una felice definizione di Massimo Fini. È sulla speranza, sull’impegno, sulla garanzia, sull’assicurazione che si gioca il potere del denaro. Il denaro si trasformò in una entità che permise una costruzione proiettata nel futuro. E da questa opzione che si fonda la pulsione all’accumulo. Si investe per accaparrarsi più futuro possibile, si risparmia per avere più potere possibile, ci si assicura per avere più garanzie possibili. Il denaro assume la valenza di un amuleto, e il suo accaparramento un rito esorcistico in nome del “Non si sa mai…”: non è la paura della malattia, il rischio incombente della morte, l’incognita di un evento esistenziale a pervadere di ansia la quotidianità, ma l’angoscia di mancanza di denaro. Non si parla, in questo caso, della ormai famosa “quarta settimana”, della difficoltà di far fronte alle necessità primarie in una crisi sempre più pressante, ma del sovrappiù, dell’eccedente, del superfluo.
Ed è proprio questa spinta ansiogena all’opulenza – spesso virtuale e precaria – che fa perdere all’uomo il senso essenziale di questa questione: che il denaro è un mezzo per vivere, e la vita non può essere sacrificata per esso invertendo in maniera perversa i termini del discorso.

Il lavoro con il quale ci si dovrebbe procurare il benessere non può diventare fonte di malattia per una affannosa rincorsa alle seduzioni di mercato, né è salutare il famoso invito di “lavorare di più-guadagnare di più-comperare di più”, in un cortocircuito patologico di fatica e di insoddisfazione.
Del resto, è il denaro nella sua valenza di finalità fine a se stessa che ha “inventato” la speculazione finanziaria, ossia quel dispositivo autoreferenziale ed autoregenerantesi che sganciando la sua funzione dal valore della merce è diventato merce esso stesso: “Il denaro finanziario è denaro che opera su se stesso, è denaro che compra altro denaro”(6 ). È da questa perversione che nasce quel fenomeno moralmente ributtante e penalmente punibile – in continua espansione e con punti franchi istituzionali quali le banche – che ha magistralmente reso in poesia il grande Ezra Pound: l’usura. È inutile gridare allo scandalo quando si denunciano le banche per i tassi di interesse da strozzinaggio. Le banche sono di per sé – e a maggior ragione nell’anomalia di una Banca di Italia ghermita dalle grinfie dei privati – un apparato riconosciuto legalmente e preposto alla usura: “La banca trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla. Istigazione semiprivata / disse il sig. Rothschild, uno dei tanti Roth-schild / verso il 1861 o ’64, Saranno in pochi a capirlo. / Quelli che lo capiscono saranno intenti a trarne profitto. / Il grosso pubblico forse non vedrà mai / che è contro il suo interesse.”(7) .
Nasce così il capitale, dalla smaterializzazione (8) del denaro, dal dissolvimento della sua concretezza; e in un circuito scellerato, più diventa impalpabile la sua presenza attraverso la finanza telematica, più le transazioni diventano virtuali, anonime, irreali e più la sua presenza si fa pervasiva a corrodere uomini, società e stati, imponendo la sua spettrale presenza sui destini fisici, morali e spirituali di intere comunità.

“[Il] capitale (…) è un movimento di rapacità impersonale dominato nel suo sviluppo da un’estrema indifferenza per gli interessi privati e per l’interesse pubblico”.(9)(Georges Bataille)
Sembrerebbe una banalità, ma è il capitale che fonda il capitalismo: senza il primo presupposto non esisterebbe il conseguente dispositivo. E in sé anche il capitalismo potrebbe apparire come un semplice “sistema economico-sociale fondato sulla separazione tra capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione dal cui impiego ricavano un profitto, e lavoratori che vendono la propria forza-lavoro in cambio di un salario”(10) . In realtà, alla fatuità del capitale corrisponde un’infiltrazione metastatica del capitalismo, diventato una vera e propria visione del mondo, un omologante stile di vita. Il suo trionfo confermato con la vittoria sulle potenze dell’Asse nella seconda guerra civile europea (1940-1945) – perché di affermazione militare del capitale si è trattato, e non della democrazia come mistificano i maggiordomi del pensiero unico – ha invaso ogni aspetto della vita personale e societaria, alterando stili di vita, comportamenti interpersonali, destini, rapporti con il mondo circostante e la natura come habitat originario. Attraverso la sua opzione filosofica – il materialismo – e la sua prassi meccanicistica – la tecnocrazia –, il capitalismo ha creato dal nulla quella chimera seduttiva che si chiama progresso indefinito.
Esso ha reificato la natura rendendola oggetto passivo di sfruttamento e di manomissione, determinando la devastazione ambientale che si va lamentando attraverso due strategie convergenti e sinergiche: lo sfruttamento selvaggio delle risorse e l’implementazione incontrollata dei consumi.
Ha ridotto l’uomo ad animale produttivo, a fenomeno di marketing, ad argomento di manipolazione, il tutto deformando i parametri stessi della vita: da un lato, ha scombinato i rapporti vita morte con la manipolazione della prima e la meccanizzazione della seconda; d’altro ha invertito fini e modalità lavorative, contraendo il tempo creativo e dilatando il tempo della prestazione, il tutto con la minaccia della precarietà e il capestro dell’insicurezza.
Ha scardinato i legami comunitari rendendoli precari accordi utilitaristici tra soci, ha alterato la stessa concezione del limite e delle opportunità, con la conseguenza di contrattualizzare relazioni sentimentali e rapporti educativi. Ha isterilito la politica degradandola a comitato di affari e riducendola a miserevole ancella dell’economia, in una organizzazione transnazionale senza identità, senza radici, senza destini.
E potremmo continuare nell’elencazione delle derive del mercantilismo e delle infezioni del capitalismo. Perché il capitalismo, prima ancora di essere una concezione economica, è una vera e propria visione del mondo, una dispositivo creatore di irrealtà.

Allora, la domanda che ci si pone è: potrà manifestarsi una crisi del capitalismo se la sua stessa esistenza è fondata dalla creazione di un’entità-altra, da un delirio di onnipotenza che pervade ogni espressione della sua presenza, da una realtà-altra entro la quale l’uomo e la natura sono completamente immersi? I miei dubbi sono fortissimi in proposito.
Lucidamente non credo che in maniera atraumatica si possa intervenire su questo fenomeno metastatico, per altro stupido come tutte le cellule del cancro che nella loro folle ed incontrollata riproduzione portano alla morte il corpo che colonizzano e, nello stesso tempo, si autoeliminano alla morte di questo.
Sono convinto, però, che attraverso due strategie – il comunitarismo e la decrescita –si possa intervenire su settori sociali e dispositivi collettivi in maniera mirata e circoscritta. Le avanguardie di questa scommessa hanno un compito educativo di primaria importanza: rendere consapevole la massa della condizione di passività e di anestesia nella quale si trova e nella quale i poteri forti esigono che rimanga; rianimare quel senso di appartenenza e di destino che, solo, può rendere credibile ed attuabile un processo di decrescita (11) salutare.

Questa impostazione di pensiero va ben oltre la semplice programmazione economica, l’applicazione dei correttivi di mercato, il ripensamento delle basi capitalistiche: essa implica una vera e propria rivoluzione culturale che ridisegni creativamente gli stili di vita e, con essi, le modalità di stare al mondo. Si tratta di rimettere in discussione il tempo nella sua percezione e nella sua suddivisione quotidiana, la logica del lavoro nella sua minuziosa organizzazione, il significato della produzione e del consumo nell’efficientismo della prima e nella mistificazione del secondo, il senso della vita dell’uomo e della sua comunità di appartenenza. È, nel principio e nella prassi, la consapevolezza di un altro mondo possibile, quindi la volontà di un progetto politico nuovo e radicale che creda e combatta per “il cambiamento dei valori [che] dà luogo a una visione diversa del mondo e dunque ad un altro modo di vedere la realtà” (12) . Un processo rivoluzionario, questo, di destrutturazione della realtà deformata in cui siamo immersi e la restituzione delle vita alla realtà vera ed autentica.
E se questa realistica utopia non potrà essere goduta dai presenti rimarrà a testimonianza di chi non si è arreso e di chi, almeno, ha avuto il buon senso di attrezzarsi in vista di una catastrofe annunciata.
Note

1 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano, 2000, p. 26.
2 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2005, V, 1333a, p. 191.
3 Ivi, 1333a, p. 193.
4 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
5 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., pp. 60-61.
6 M. FINI, Il denaro , Marsilio, Venezia, 1988, p. 196.
7 E. POUND, I Cantos, Mondadori, Milano, 1999, XLVI, p. 453.
8 M. FINI, Il denaro , cit., p. 201.
9 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., p. 78.
10 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
11 Cfr. A. de BENOIST, Comunità e decrescita, Arianna, Bologna, 2006.
12 S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 46-47.

Adriano Segatori

Il Trattato di Lisbona deve essere respinto


Il Parlamento italiano è chiamato a ratificare il Trattato di Lisbona, che conferirà poteri straordinari alla Commissione dell’Unione Europea in quasi tutti gli aspetti della vita dei cittadini, e soprattutto su questioni di politica economica e di difesa, privando il nostro Paese della propria sovranità e vanificando in questo senso la Costituzione italiana, a partire dall’Articolo 1 che recita “la sovranità appartiene al popolo”. In altri paesi, tra cui Francia e Germania, esso è stato ratificato benchè il testo non fosse ancora stato reso noto, e risultasse del tutto incomprensibile, inducendo molti parlamentari ad approvarlo senza neanche averlo letto. Il Presidente della Repubblica tedesco non ha firmato la ratifica perché sono immediatamente scattati tre ricorsi alla Corte Costituzionale. In Irlanda è previsto un referendum contro il Trattato che, secondo le previsioni, lo boccerà il 12 giugno esattamente come fecero i referendum contro la Costituzione europea in Francia e Olanda nel 2005. Lo stesso testo, con alcune modifiche, è stato riproposto col nome di Trattato, benchè si tratti di un progetto costituzionale, con l’intento di vanificare alcuna iniziativa referendaria in paesi come l’Italia che non prevedono referendum sui trattati. Negli ultimi mesi si sono tenute numerose manifestazioni contro la ratifica del Trattato a Vienna, Berlino, e in tutta la Francia, manifestazioni in cui eminenti costituzionalisti hanno sottolineato la violazione di numerose norme costituzionali, tra cui quella della neutralità prevista dalla Costituzione austriaca.

La politica di difesa del Trattato prevede infatti, oltre alle missioni di pace, anche missioni offensive, che violano l’Art. 11 della nostra Costituzione, che recita “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Attraverso il potenziamento delle forze militari messe a disposizione dell'Unione Europea, è in atto un tentativo di fare dell'Europa un braccio della NATO. Con la creazione di un gruppo ristretto di paesi a cui verrebbero demandate le iniziative militari, sarebbe più facile aggirare l'opposizione di chi vorrebbe evitare lo scontro strategico portato avanti da Londra e Washington nei confronti di Russia e Cina[1].

Ma è in politica economica che si sentiranno di più gli effetti nefasti di quella che molti definiscono una vera e propria “dittatura dell’Unione e della Banca Centrale Europea”. Grazie al Trattato di Lisbona, infatti, i burocrati dell’Unione Europea avranno pieno titolo a bocciare qualunque misura decisa dal nostro governo, e dagli altri governi europei, per difendere la propria economia, l’occupazione, i redditi, l’industria e l’agricoltura, ed intervenire sui prezzi.

La crisi alimentare è un esempio del problema, che verrà aggravato dal Trattato di Lisbona. Mentre in tutto il mondo si moltiplicano gli appelli a intervenire per frenare la corsa al rialzo dei prezzi delle derrate alimentari, e mettere fine alla folle politica di sussidi ai “biofuels” che ne è tra le cause, l’Unione Europea, nella persona del Commissario Agricolo Mariann Fischer Boel, continua ad insistere nell'abolire la PAC (Politica Agricola Comune) che difende gli agricoltori, e nel mantenere l’obiettivo del 10% di consumi energetici coperti dai biocarburanti, il che significa che riceveranno sussidi solo gli agricoltori che producono per i biofuels, e non per nutrire il mondo, benchè da più parti (il Ministro dell’Agricoltura francese Michel Barnier, il ministro Tremonti e l’ex ministro del Commercio Estero Emma Bonino) questa sia stata definita una politica “criminale” che aumenterà le carestie in tutto il mondo e provocherà rivolte non solo nei paesi poveri ma anche in quelli “intermedi”, quali Egitto, Indonesia e Pakistan. Nel nome del “mercatismo” e del “libero commercio”, Unione Europea e WTO impediscono ai governi di intervenire contro la speculazione finanziaria sui prezzi, non solo delle derrate alimentari, ma anche del petrolio, su cui si arricchiscono i grandi speculatori, mentre la gente comune non arriva a fine mese. Interventi come quello del ministro dell’Agricoltura francese Barnier in difesa dei pescatori, o del governo italiano in difesa dell’Alitalia, potranno essere vietati dalla burocrazia di Bruxelles nel nome del Trattato di Lisbona, che dà la precedenza a delibere europee.

Ci sono almeno 2 articoli della Costituzione italiana che prevedono tali interventi dello Stato, e che dovrebbero avere la precedenza sul diktat europeo:

Art. 3.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 43.

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. (enfasi nostra)

Il Presidente Schifani ha annunciato che il voto sul trattato è prioritario. Ma anche da noi si levano autorevoli voci di critica. L'ex ministro e insigne giurista Giuseppe Guarino, ordinario di diritto amministrativo all'Università di Roma, ha diffidato dal ratificare il trattato così com'è, perché esso codificherebbe un sistema di "governo di un organo" o "organocrazia". Il prof. Guarino ha esposto la sua critica in una conferenza pubblica a Firenze il 19 maggio, alla presenza di costituzionalisti, esperti e amministratori. Il trattato viola almeno due articoli della Costituzione italiana, l'Art. 1 ("La sovranità appartiene al popolo") e l'Art. 11 (L'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie"). Riguardo a quest'ultimo, le condizioni di parità sono violate dal fatto che paesi come la Gran Bretagna e la Danimarca, membri del trattato, sono esonerati dalla partecipazione all'Euro. Così essi possono, ad esempio, fissare il tasso d'interesse in modo vantaggioso per loro ma svantaggioso per gli altri firmatari del trattato.

Inoltre, osserva Guarino, il Trattato di Lisbona aumenta sensibilmente i poteri della Commissione Europea. Ad esempio, nel caso della procedura di infrazione del Patto di Stabilità, stabilita dall'Art. 104, la Commissione finora aveva solo il potere di notificare l'avvenuta infrazione al Consiglio dei Ministri dell'EU, che poi decideva se avviare la procedura o meno. Nella nuova versione, sono stati introdotti tre piccoli cambiamenti che spostano quei poteri in seno alla Commissione. Non sarebbe saggio approvare il trattato, riproponendosi di cambiare in seguito le sue parti sbagliate, ha osservato il prof. Guarino. Ciò sarebbe di fatto impossibile, dato che occorre l'unanimità.

Un altro eminente costituzionalista tedesco, il prof. Schachtschneider, ha sviluppato una lezione dal titolo “La legittimazione della pena di morte e dell'omicidio” in cui sostiene che il Trattato di Lisbona nel suo continuo sostenere una cosa e rimandare ad altra contraria attraverso il richiamo alle “Spiegazioni della Carta dei Diritti Fondamentali” legittima la pena di morte e l’omicidio “per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione” e “per atti commessi in tempo di guerra o in caso di pericolo imminente di guerra” (ben 14 Stati dell’Unione europea sono impegnati nella guerra in Iraq). A queste tesi ovviamente se ne contrappongono di contrarie. Ma mentre la “battaglia delle opinioni” incalza, la politica deve decidere.

Ci appelliamo dunque al Parlamento italiano affinchè eviti approcci settoriali, e veda il contesto generale in cui si inserisce il Trattato di Lisbona: una crisi sistemica in cui si è pronti a scelte anti-democratiche pur di tenere in piedi una bolla speculativa destinata comunque ad esplodere. Se il dato giuridico è importante, esso deve essere contestualizzato al particolare momento storico. La considerazione del momento storico non può prescindere dalla lettura economica intesa come capacità relazionale dell’umanità con la biosfera.

Se già dalla semplice lettura e contestualizzazione storica del Trattato di Maastricht, era comprensibile che il processo avviatosi nel ’92 non era altro che una tappa di un sovraprocesso oligarchico-imperiale, oggi, a distanza di 16 anni, abbiamo l’evidenza della tardiva percezione dei sensi a dimostrarcelo. E pensare che avremmo evitato alla popolazione europea 16 anni di progressive difficoltà, rimettendoci alla lungimirante luce della ragione piuttosto che attendere il tardivo verdetto della percezione sensoria!

Come sostiene giustamente il Prof. Guarino, occorre distinguere tra euromercato (nel senso di mercato europeo) ed eurosistema (nel senso di sistema composto di istituzioni europee). L’euromercato esisteva già prima dell’eurosistema. L’euromercato non necessitava dunque dell’eurosistema. Questo eurosistema è una costruzione evidentemente oligarchica. Il cuore dello stesso non è la Corte di Giustizia europea, tanto meno il Parlamento europeo o il Consiglio d’Europa. Il cuore e dominus della costituzione materiale europea, dei processi all’interno della quale si sviluppano, è la Banca centrale europea (Bce).

Non ci si deve confondere. La Bce non è un ente democratico. La Bce è formalmente un ente di diritto pubblico, ma nella sostanza è un ente dominato dalle banche private. La Bce decide la politica monetaria e finanziaria, e conseguentemente decide la politica economica dell’Europa. Guarino mette al centro del suo discorso il trattato stesso con i suoi meccanismi. Tuttavia Guarino stesso riconosce che dei due parametri fondamentali della struttura dell’Unione monetaria europea, si è prestato attenzione al rapporto defitic/pil ma non a quello debito pubblico/pil. Quest’ultimo è di anno in anno progressivamente peggiorato non solo per l’Italia, ma anche per la Germania e la Francia; le violazioni di questo europarametro non sono state sanzionate in alcun modo. Dunque è subentrato nella costituzione materiale un elemento discrezionale. Questa discrezionalità è esercitata appunto dalla Bce[2].

Ratificare il Trattato di Lisbona rappresenterebbe un’ulteriore legittimazione di questo sistema oligarchico che già troppo a lungo è durato ed i cui disastrosi risultati, in termini di tenore di vita reale della popolazione europea, sono sotto gli occhi di tutti. Ratificare il Trattato di Lisbona vorrebbe dire rafforzare ancor più un eurosistema oligarchico.

Il disegno dei padri fondatori dell’Europa, De Gasperi, De Gaulle e Adenauer, era quello di un’Europa dei Popoli non di un’Europa delle banche.

Facciamo dunque appello al Parlamento italiano ed al Presidente Napolitano affinchè non ratifichino il Trattato di Lisbona, e promuovano piuttosto presso le sedi internazionali un nuovo sistema monetario e creditizio, una Nuova Bretton Woods, che metta fine alla speculazione e rilanci l’economia reale, come viene ormai chiesto a viva voce da più parti.

Liliana Gorini

(presidente del Movimento Solidarietà, Milano)

v. Sant’Alessandro Sauli 24

20127 Milano

tel. 02-2613058

[1] In questo contesto Helga Zepp-LaRouche, presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BueSo) fa riferimento ad un documento politico sul conto dell’Alleanza che circola in ambienti neo-conservatori transatlantici. Il documento è intitolato “Verso una grande strategia per un mondo nell’incertezza” ed è stato redatto da cinque generali in congedo che espongono una nuova strategia per la NATO, secondo cui la nuova struttura di difesa composta da USA, UE e NATO ha il compito di affrontare una serie di sfide, tra cui: crescita demografica (!), cambiamento del clima, sicurezza energetica, aumento dell’irrazionale e declino della ragionevolezza (!), indebolimento degli stati nazionali e delle istituzioni mondiali (come l’ONU, l’UE, la NATO), terrorismo internazionale, crimine organizzato, proliferazione di armi di distruzione di massa, “abuso della leva finanziaria ed energetica”, migrazioni, HIV/AIDS e SARS. I firmatari sono: gen. Klaus Naumann (Germania), feldmaresciallo lord Inge (Regno Unito), gen. John Shalikashvili (USA), amm. Jacques Lanxade (Francia), e gen. Henk van den Bremen (Olanda).

[2] La Bce ha puntato ad essere rigida sul primo rapporto e non sul secondo, perché è la spesa che di anno in anno uno stato può effettuare che potrebbe distrarre troppe risorse finanziarie dal costante rifinanziamento della bolla speculativa globale ed arrestare quel processo di distruzione controllata dell’economia. Ed è proprio perché si è rigidi su questo rapporto che il secondo rapporto è sempre più non rispettato. Impedire la spesa pubblica annuale come massicciamente orientata ai processi produttivi, fa sì che l’economia reale si impoverisca sempre più e che conseguentemente i saldi finanziari peggiorino.