20 settembre 2008

Mercenari: i media ...adesso



Si sono mosse in ritardo, le grandi testate, ma – seppure a modo loro – ci stanno arrivando. Ora – pure a denti stretti – lo ammettono pure loro: la guerra nel Caucaso dell'agosto 2008 non è stata un'invasione russa della Georgia. Nulla a che fare con l'invasione della Cecoslovacchia di quarant'anni prima. È stata viceversa un'operazione militare georgiana fallimentare fomentata da una corrente atlantista spregiudicata.
La verità dei fatti era troppo grossa persino per il mainstream che aveva iniziato – non nell'URSS degli anni settanta ma nell'Occidente degli anni duemila – una colossale operazione di disinformacija. Qui e lì si leggono ancora editoriali e reportage menzogneri, o le sfilze di panzane di un qualche Bernard-Henri Lévy, ma fanno figure barbine.
Perciò abbiamo visto sì che durante i primi giorni il TG1 di Gianni Riotta era capace persino di tacere l'aggressione perpetrata da Saakashvili a danno dell'Ossezia del Sud, ma poche settimane dopo lo stesso Riotta si sobbarcava un volo a Mosca per una pettinatissima e lunga intervista al presidente russo Medvedev.
Oppure abbiamo visto i buchi clamorosi della stampa anglosassone, che via via ha dovuto correggere il tiro.
In mezzo c'erano i fatti, la loro verità e la loro inaggirabile durezza. Gli stessi fatti che hanno impedito a Gordon Brown e Bernard Kouchner di esercitare definitivamente il loro mestiere preferito: allontanare l'Europa dai suoi interessi e completare irrevocabilmente la sua subalternità ai progetti atlantisti.
Abbiamo visto inoltre che è sbagliato vedere solo menzogne nel “racconto del mondo” che si fa a Mosca. Questo è per l'Occidente un errore tragico, ideologico, che intacca la capacità d'interpretare razionalmente i grandi fatti: la pace, la guerra, l'economia, l'energia, la notificazione degli interessi in gioco, il loro valore dichiarato, le conseguenti valutazioni.
Buon ultimo nella correzione di rotta è arrivato anche il «Financial Times», che il 6 settembre 2008 ha sostanzialmente confermato le affermazioni di Putin, il quale nell'intervista alla CNN aveva accusato gli USA di aver "orchestrato" la guerra nell'enclave georgiana.
Gli Stati Uniti avevano fornito un ricco addestramento (attraverso l'esercito e grandi società mercenarie) ai reparti speciali della Georgia. Una delle due corporation militari coinvolte risponde a un nome che a Mosca non poteva sfuggire: MPRI (Military Professional Resources Incorporated). Questa colossale e sinistra organizzazione (sotto l'occhio benevolo del Pentagono) aveva addestrato l'esercito della Croazia in occasione del micidiale attacco del 1994 alla regione della Krajina, cui seguì una tragica pulizia etnica che colpì la popolazione serba. I suoi uomini in seguito avevano posato i piedi anche nel piatto della guerra bosniaca e di quella del Kosovo. È lì che si incrementò il know-how dei tagliagole, compresi quelli che poi, mollata la mimetica da soldataglia malrasata, si sono messi la cravatta e il dopobarba Quisling per fare i presidenti di nuovi piccoli Stati atlantisti.
Nei Balcani avevano fatto il loro apprendistato – gomito a gomito con il sottobosco dei servizi segreti - molti jihadisti, compreso l'ampio segmento utilizzato nell'operazione dell'11 settembre 2001. Non c'è mossa strategica di questa accozzaglia terroristica che non abbia avuto sul collo il fiato dei servizi statunitensi e britannici, che ne hanno indirizzato la gittata.
Attraverso la porta girevole dei palazzi di governo di Sarajevo negli anni novanta passavano dunque sia il boss della MPRI, Carl Vuono, ex capo di stato maggiore dell'esercito USA, sia Osāma bin Lāden, che poteva esibire il passaporto diplomatico bosniaco. C'erano dei legami? Nella galassia delle forze “irregolari” che operano con i mezzi della guerra e del terrorismo, siano esse imprese mercenarie o cellule jihadiste, è inutile aspettarsi documenti in carta intestata che leghino direttamente fra di loro le singole costellazioni.
Un servizio segreto istituzionale non lo pizzichi per una sua firma.
La boscaglia di cooperazioni fra queste entità è in gran parte impenetrabile perché un grande impegno viene dedicato a occultare i legami fra segmenti autonomi, singoli individui, mediatori, provocatori, militari “a riposo” in realtà indaffaratissimi, cani sciolti e cani legati con funi lunghissime, impegnati su progetti a termine di cui non rimane traccia, doppi agenti, interessati a sapere solo dell'ingranaggio in cui operano, non della macchina intera. Le responsabilità nelle alte sfere non si scoprono in modo diretto.
Dall'11 settembre 2008 sappiamo, grazie a dei documenti declassificati, che pochi giorni dopo il golpe del Cile del 1973 il presidente Nixon chiedeva a Kissinger: «La nostra mano è rimasta nascosta?». Kissinger lo rassicurava: «Non abbiamo fatto noi il colpo di stato. Li abbiamo aiutati. Abbiamo creato le migliori condizioni.» Ora sappiamo con documenti di prova quel che sapevamo con l'uso del cervello. Ma sono passati trentacinque anni.
Il «Financial Times» - nel riferire del Caucaso di oggi - non va certo a queste profondità, ma rivela particolari comunque interessanti. Possiamo leggerli anche grazie alla puntuale traduzione fornita dal blog «Mirumir»:
«L'addestramento è stato fornito da ufficiali statunitensi e da due compagnie mercenarie. Non ci sono prove che i contractor o il Pentagono che li ha assoldati sapessero della probabilità che i reparti che stavano addestrando potessero essere impiegati nell'aggressione contro l'Ossezia del Sud.».
Non ci sono prove, ma sappiamo che questo addestramento è stato a ridosso degli eventi.
«Un portavoce dell'esercito degli Stati Uniti ha dichiarato che l'obiettivo del programma era di addestrare i commando in vista del loro impiego in Afghanistan, come parte dell'International Security Assistance Force NATO. Il programma, tuttavia, mette in luce le conseguenze spesso involontarie dei programmi train and equip degli Stati Uniti in paesi stranieri.»
Le giustificazioni discolpanti abbondano e ‘puzzano'. Però non possiamo pretendere troppo, date le circostanze e la tribuna. Quel che conta è che si illumini una relazione diretta e pesante fra la preparazione pianificata dalle corporation mercenarie e i fatti di agosto.
«I contractor – MPRI e American Systems, entrambi con sede in Virginia – avevano reclutato una squadra composta da 15 ex-soldati delle forze speciali per addestrare i georgiani alla base di Vashlijvari, nei dintorni di Tbilisi, nell'ambito di un programma del ministero della difesa degli Stati Uniti.».
Putin non le manda a dire, e alla CNN dichiara: «La questione non è semplicemente che gli americani non hanno impedito alla dirigenza georgiana di commettere questo crimine [di intervenire in Ossezia del Sud]. Gli americani hanno in effetti armato e addestrato l'esercito georgiano».
I reparti speciali, fra gennaio e aprile 2008, hanno ricevuto la prima formazione base. Gli istruttori sono poi tornati in Georgia quattro giorni prima dell'inizio delle ostilità.
MPRI e soci non hanno voluto fornire dettagli al «Financial Times». Lasciano la patata bollente ad addestratori più ‘istituzionali', quelli della Security Assistance Training Management Organisation (Satmo) di Fort Bragg, inserita nella Special Warfare Center School dell'esercito USA. Ma anche da loro, stesso muro del silenzio, come i “privati”.
Le truppe servivano per l'Afghanistan oppure per l'Ossezia e l'Abkhazia? I dubbi sono ineludibili. «Benché il programma non sia secretato, le circostanze che lo riguardano mancano di trasparenza, anche se secondo le fonti dell'esercito statunitense questa mancanza di trasparenza non era intesa a mantenere segreto il programma. Altri programmi di addestramento militare degli Stati Uniti in Georgia dispongono di siti internet e gallerie fotografiche». I casi sono numerosi, fin dal 2003, con grandi investimenti in reparti speciali impegnati a difendere da fantomatici “terroristi ceceni”i grandi trivellatori orientati a sfruttare l'Eldorado petrolifero tra Caucaso e Caspio .
Tra questi contractor ritroviamo la Blackwater, la più potente e inquietante delle corporation mercenarie, un soggetto da solo in grado di non farci considerare paranoiche o veterosovietiche le denunce di Putin.
Per quanto si avverta una correzione di rotta mediatica sui fatti della Georgia, ogni giorno abbiamo tuttavia continue conferme della scadente copertura giornalistica occidentale sulla cruciale vicenda che si gioca al centro dell'Eurasia. Nessun giornale ha parlato ad esempio delle nette dichiarazioni sulla responsabilità della guerra in Caucaso formulate da un parlamentare statunitense, per giunta repubblicano, esperto di politica internazionale. Si tratta di Dana Rohrabacher. Tra le tante cose, si era occupato di Afghanistan dai primi anni ottanta in qualità di assistente speciale del presidente Ronald Reagan. Per leggere le sue dichiarazioni sul Caucaso dobbiamo andare a cercare i dispacci dell'agenzia russa “RIA Novosti".
Rohrabacher, vice presidente della sottocommissione per le organizzazioni internazionali della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, ha dichiarato che – stando ai dati dello spionaggio USA - la recente guerra in Ossezia del Sud è stata iniziata dalla Georgia.
«Tutte le fonti dell'intelligence con cui ho parlato - e ho parlato con molti di loro durante le vacanze parlamentari - confermano che la recenti azioni di guerra in Georgia e nella sue province separatiste sono state iniziate dalla Georgia», ha detto il parlamentare il 9 settembre in occasione di un'audizione del Congresso USA.
Ad avviso di Rohrabacher, così come citato dalla “RIA Novosti”, «i georgiani, non i russi, avevano rotto l'armistizio, e nessuna ciancia su provocazioni e altre cose può cambiare questo dato di fatto.»
Rohrabacher ha definito una "foglia di fico" tutti i tentativi di attrribuire la colpa sullo scatenamento della guerra a Ossezia del Sud. «Sì, alcune persone useranno questa foglia di fico e diranno che i sud-osseti potrebbero aver provocato azioni militari, lanciato un missile o sparato cannonate», ha detto Dana Rohrabacher, dopo aver ricordato l'incidente del Golfo del Tonchino, che venne utilizzato dagli Stati Uniti per avviare la guerra del Vietnam, e che più tardi si rivelò essere una provocazione. Per Rohrabacher la questione è semplice: «I russi hanno ragione, e noi torto. I georgiani avevano iniziato tutto questo, e i russi vi hanno posto fine», ha detto il vice presidente della sottocommissione parlamentare.
Una dichiarazione clamorosa di Rohrabacher era apparsa anche nel libro di Nafeez Mosaddeq Ahmed Guerra alla libertà (Fazi, 2002). Di fronte alla commissione esteri del Senato USA, nel 1999, Rohrabacher aveva detto: «Sono stato coinvolto a fondo nella politica americana in Afghanistan per circa vent'anni, e mi sono chiesto se questa amministrazione abbia o no messo in atto una politica segreta che ha rafforzato i talebani e consentito al loro feroce movimento di assumere il potere. Anche se il presidente e il segretario di Stato hanno espresso chiaramente il loro disprezzo per le efferatezze compiute dai talebani, e specialmente per la repressione delle donne, nei fatti la politica adottata dagli Stati Uniti ha ripetutamente avuto l'effetto opposto. […] Affermo che questa amministrazione ha messo in atto una politica segreta per offrire sostegno al governo dei talebani affinché assumessero il controllo dell'Afghanistan. […] Questa scelta amorale, o immorale, si basava sull'ipotesi che i talebani avrebbero portato stabilità in Afghanistan e consentito la costruzione di un oleodotto dall'Asia centrale fino al Pakistan attraverso l'Afghanistan […] Credo che l'amministrazione abbia mantenuto segreto questo obiettivo, e tenuto all'oscuro il Congresso sulla sua politica di sostegno ai talebani, il regime più antioccidentale, più antifemminile e avverso ai diritti umani del mondo.»
Prima o poi qualcuno ci informerà di nuovo su queste cose tanto importanti. Di fronte alle operazioni segrete e alle terribili guerre che vi si collegano non potrà bastare una piccola correzione di rotta della corrente delle notizie. Servono nuovi punti di vista.
di Pino Cabras

E, la crisi continua


E' di questa mattina del fallimento della quarta banca americana Lehman Brothers. I libri contabili sono stati portati in tribunale e 20.000 persone sono rimaste senza lavoro e senza soldi. E' questo il destino della finanza globale? Dove sono i paladini della globalità?


Non più tardi di una settimana fa le Borse europee sono crollate in media ben oltre i due punti percentuali, bruciando in una sola seduta più di 140 miliardi di euro. Una cifra che in realtà non fa grande notizia di per sè, perchè quello che preoccupa i mercati è l'andazzo generale. Di tutta l'economia, non solo della finanza.
Sono stati diffusi i dati sulla disoccupazione americana: la bolla della crisi subprime con la sua ondata di fallimenti non solo di grandi finanziarie ma anche di piccole realtà ad esse legate, in questi mesi ha incrementato il numero di disoccupati, come era prevedibile. E' l'effetto domino che si ripete ogni volta durante le crisi economiche.
Tutto ciò richiede costanti iniezioni di finto ottimismo: sono mesi che si tenta disperatamente di intravedere una ripresa laddove invece non c'è niente, al massimo qualche sporadico miglioramento momentaneo. Poco tempo fa si diceva che le esportazioni Usa stavano riprendendo: era vero, ma in realtà era solo una conseguenza riflessa del dollaro debole, niente più. Non è certo sufficiente a ridare fiducia ai mercati. E tutti lo sapevano bene. Inoltre il dollaro adesso si sta rafforzando, quindi anche le esportazioni si smorzeranno.
Adesso l'ottimismo programmato riguarda il petrolio. Il petrolio dopo il massimo a 147 dollari al barile raggiunto un paio di mesi fa, adesso è a quota 105. Si dice che può essere un aiuto all'economia. Ma si tratta di una illusione: il petrolio sta calando di prezzo proprio perchè si prevede che la domanda di materie prime e di energia nei prossimi mesi calerà in seguito alla recessione economica. Quindi paradossalmente il calo del prezzo del greggio potrebbe essere un dato negativo, non positivo.
Un altro elemento di grande instabilità è la massiccia presenza presso le banche europee dei titoli spazzatura, che si basano sui mutui concessi con facilità e quindi non sicuri: le banche americane non ne hanno quasi più perchè o sono fallite o se ne sono sbarazzate vendendoli alle colleghe del vecchio continente. La stretta del credito da parte delle banche centrali avrebbe dovuto portare alla loro scomparsa. Invece i titoli spazzatura sono ancora lì, solo che non riuscendo le banche a collocarli sul mercato, la Bce si trova costretta ad accettarli. Se la Bce rifiutasse di farlo, le banche europee potrebbero andare in crisi. La Bce così fa da garante. Pero’ c'è un limite: concedere loro prestito facile in cambio di titoli a rischio rimanda la crisi e la aggrava, perchè rischia di minare la solidità delle Bce. La quale così ha deciso di dare una stretta a questa operazione, accettando i titoli rischiosi, ma solo svalutandone il valore.
In definitiva, comunque si agisca, da una parte o dall'altra, la crisi è talmente diffusa e profonda che è ben lungi da essere finita.
di Massimiliano Viviani

Bombe e spazio aereo, "no di Washington a Tel Aviv"

L'autorizzazione a impiegare un corridoio aereo attraverso l'Iraq, un gran numero di bombe anti-bunker, sistemi per il rifornimento in volo dei caccia bombardieri. C'è soprattutto questo nel pacchetto di aiuti che da settimane l'alleato statunitense nega a Israele. La rivelazione arriva dal quotidiano israeliano Ha'aretz , che sul numero in edicola ieri titolava in maniera inequivocabile: «Israele chiede agli Stati Uniti armi e un corridoio aereo per attaccare l'Iran».


Ogni anno Israele riceve circa tre miliardi di dollari di aiuti diretti dagli Stati Uniti, il 75% dei quali viene impiegato da Tel Aviv per spese militari. Nella «lista della spesa», di cui i più alti funzionari di Washington e Tel Aviv avrebbero discusso senza trovare un accordo nel maggio e nel luglio scorso, c'erano le bombe Gbu-28, ordigni di 2,2 tonnellate - utilizzati nel corso dell'ultima guerra contro il Libano - capaci di penetrare fino a sei metri di cemento. Bush avrebbe detto di no anche all'utilizzo dello spazio aereo dell'Iraq. Secondo le testimonianze raccolte da Ha'aretz , l'Amministrazione repubblicana ha risposto agli israeliani di rivolgersi al premier iracheno al-Maliki: «Se volete, prendete accordi con lui». L'israeliano Canale 10 ha poi riferito la scorsa settimana che Washington avrebbe risposto picche anche alla richiesta di nuovi aerei da rifornimento: quelli dell'aviazione di Tel Aviv sono obsoleti e non garantirebbero il successo di un raid aereo contro le installazioni nucleari iraniane.


Come contentino, durante la visita a Washington del luglio scorso del ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, sarebbe stata garantita a Tel Aviv l'installazione nel deserto del Negev di un sistema di radar anti-missile di ultima generazione. Se confermate, le rivelazioni di Ha'aretz evidenzierebbero la determinazione di Israele a fermare il programma di arricchimento dell'uranio di Tehran mediante un attacco militare alla repubblica islamica. L'Iran ha sempre negato che i suoi progetti atomici mirino alla fabbricazione della bomba. Nello stesso tempo la ricostruzione fatta dal quotidiano confermerebbe l'intenzione dell'Amministrazione Bush di concentrarsi sull'Iraq nelle ultime settimane che precedono l'elezione presidenziale, frenando sull'attacco a Tehran e puntando sulla diplomazia.

Una diplomazia che però sta mettendo alle corde il regime iraniano. Washington e Tel Aviv sono riuscite a convincere la Comunità internazionale che Tehran miri all'arma atomica e le Nazioni Unite hanno già approvato tre round di sanzioni contro gli ayatollah. Continuano poi le sanzioni unilaterali da parte degli Usa, l'ultima delle quali varata l'altro ieri, contro la compagnia di navigazione statale iraniana Irisl e 18 sue affiliate. Ieri la missione iraniana all'Onu ha dichiarato che «queste azioni da parte degli Usa sono controproducenti, non aiuteranno a trovare una soluzione ad alcun problema e renderanno la soluzione anche più complicata».

di Michelangelo Cocco

20 settembre 2008

Mercenari: i media ...adesso



Si sono mosse in ritardo, le grandi testate, ma – seppure a modo loro – ci stanno arrivando. Ora – pure a denti stretti – lo ammettono pure loro: la guerra nel Caucaso dell'agosto 2008 non è stata un'invasione russa della Georgia. Nulla a che fare con l'invasione della Cecoslovacchia di quarant'anni prima. È stata viceversa un'operazione militare georgiana fallimentare fomentata da una corrente atlantista spregiudicata.
La verità dei fatti era troppo grossa persino per il mainstream che aveva iniziato – non nell'URSS degli anni settanta ma nell'Occidente degli anni duemila – una colossale operazione di disinformacija. Qui e lì si leggono ancora editoriali e reportage menzogneri, o le sfilze di panzane di un qualche Bernard-Henri Lévy, ma fanno figure barbine.
Perciò abbiamo visto sì che durante i primi giorni il TG1 di Gianni Riotta era capace persino di tacere l'aggressione perpetrata da Saakashvili a danno dell'Ossezia del Sud, ma poche settimane dopo lo stesso Riotta si sobbarcava un volo a Mosca per una pettinatissima e lunga intervista al presidente russo Medvedev.
Oppure abbiamo visto i buchi clamorosi della stampa anglosassone, che via via ha dovuto correggere il tiro.
In mezzo c'erano i fatti, la loro verità e la loro inaggirabile durezza. Gli stessi fatti che hanno impedito a Gordon Brown e Bernard Kouchner di esercitare definitivamente il loro mestiere preferito: allontanare l'Europa dai suoi interessi e completare irrevocabilmente la sua subalternità ai progetti atlantisti.
Abbiamo visto inoltre che è sbagliato vedere solo menzogne nel “racconto del mondo” che si fa a Mosca. Questo è per l'Occidente un errore tragico, ideologico, che intacca la capacità d'interpretare razionalmente i grandi fatti: la pace, la guerra, l'economia, l'energia, la notificazione degli interessi in gioco, il loro valore dichiarato, le conseguenti valutazioni.
Buon ultimo nella correzione di rotta è arrivato anche il «Financial Times», che il 6 settembre 2008 ha sostanzialmente confermato le affermazioni di Putin, il quale nell'intervista alla CNN aveva accusato gli USA di aver "orchestrato" la guerra nell'enclave georgiana.
Gli Stati Uniti avevano fornito un ricco addestramento (attraverso l'esercito e grandi società mercenarie) ai reparti speciali della Georgia. Una delle due corporation militari coinvolte risponde a un nome che a Mosca non poteva sfuggire: MPRI (Military Professional Resources Incorporated). Questa colossale e sinistra organizzazione (sotto l'occhio benevolo del Pentagono) aveva addestrato l'esercito della Croazia in occasione del micidiale attacco del 1994 alla regione della Krajina, cui seguì una tragica pulizia etnica che colpì la popolazione serba. I suoi uomini in seguito avevano posato i piedi anche nel piatto della guerra bosniaca e di quella del Kosovo. È lì che si incrementò il know-how dei tagliagole, compresi quelli che poi, mollata la mimetica da soldataglia malrasata, si sono messi la cravatta e il dopobarba Quisling per fare i presidenti di nuovi piccoli Stati atlantisti.
Nei Balcani avevano fatto il loro apprendistato – gomito a gomito con il sottobosco dei servizi segreti - molti jihadisti, compreso l'ampio segmento utilizzato nell'operazione dell'11 settembre 2001. Non c'è mossa strategica di questa accozzaglia terroristica che non abbia avuto sul collo il fiato dei servizi statunitensi e britannici, che ne hanno indirizzato la gittata.
Attraverso la porta girevole dei palazzi di governo di Sarajevo negli anni novanta passavano dunque sia il boss della MPRI, Carl Vuono, ex capo di stato maggiore dell'esercito USA, sia Osāma bin Lāden, che poteva esibire il passaporto diplomatico bosniaco. C'erano dei legami? Nella galassia delle forze “irregolari” che operano con i mezzi della guerra e del terrorismo, siano esse imprese mercenarie o cellule jihadiste, è inutile aspettarsi documenti in carta intestata che leghino direttamente fra di loro le singole costellazioni.
Un servizio segreto istituzionale non lo pizzichi per una sua firma.
La boscaglia di cooperazioni fra queste entità è in gran parte impenetrabile perché un grande impegno viene dedicato a occultare i legami fra segmenti autonomi, singoli individui, mediatori, provocatori, militari “a riposo” in realtà indaffaratissimi, cani sciolti e cani legati con funi lunghissime, impegnati su progetti a termine di cui non rimane traccia, doppi agenti, interessati a sapere solo dell'ingranaggio in cui operano, non della macchina intera. Le responsabilità nelle alte sfere non si scoprono in modo diretto.
Dall'11 settembre 2008 sappiamo, grazie a dei documenti declassificati, che pochi giorni dopo il golpe del Cile del 1973 il presidente Nixon chiedeva a Kissinger: «La nostra mano è rimasta nascosta?». Kissinger lo rassicurava: «Non abbiamo fatto noi il colpo di stato. Li abbiamo aiutati. Abbiamo creato le migliori condizioni.» Ora sappiamo con documenti di prova quel che sapevamo con l'uso del cervello. Ma sono passati trentacinque anni.
Il «Financial Times» - nel riferire del Caucaso di oggi - non va certo a queste profondità, ma rivela particolari comunque interessanti. Possiamo leggerli anche grazie alla puntuale traduzione fornita dal blog «Mirumir»:
«L'addestramento è stato fornito da ufficiali statunitensi e da due compagnie mercenarie. Non ci sono prove che i contractor o il Pentagono che li ha assoldati sapessero della probabilità che i reparti che stavano addestrando potessero essere impiegati nell'aggressione contro l'Ossezia del Sud.».
Non ci sono prove, ma sappiamo che questo addestramento è stato a ridosso degli eventi.
«Un portavoce dell'esercito degli Stati Uniti ha dichiarato che l'obiettivo del programma era di addestrare i commando in vista del loro impiego in Afghanistan, come parte dell'International Security Assistance Force NATO. Il programma, tuttavia, mette in luce le conseguenze spesso involontarie dei programmi train and equip degli Stati Uniti in paesi stranieri.»
Le giustificazioni discolpanti abbondano e ‘puzzano'. Però non possiamo pretendere troppo, date le circostanze e la tribuna. Quel che conta è che si illumini una relazione diretta e pesante fra la preparazione pianificata dalle corporation mercenarie e i fatti di agosto.
«I contractor – MPRI e American Systems, entrambi con sede in Virginia – avevano reclutato una squadra composta da 15 ex-soldati delle forze speciali per addestrare i georgiani alla base di Vashlijvari, nei dintorni di Tbilisi, nell'ambito di un programma del ministero della difesa degli Stati Uniti.».
Putin non le manda a dire, e alla CNN dichiara: «La questione non è semplicemente che gli americani non hanno impedito alla dirigenza georgiana di commettere questo crimine [di intervenire in Ossezia del Sud]. Gli americani hanno in effetti armato e addestrato l'esercito georgiano».
I reparti speciali, fra gennaio e aprile 2008, hanno ricevuto la prima formazione base. Gli istruttori sono poi tornati in Georgia quattro giorni prima dell'inizio delle ostilità.
MPRI e soci non hanno voluto fornire dettagli al «Financial Times». Lasciano la patata bollente ad addestratori più ‘istituzionali', quelli della Security Assistance Training Management Organisation (Satmo) di Fort Bragg, inserita nella Special Warfare Center School dell'esercito USA. Ma anche da loro, stesso muro del silenzio, come i “privati”.
Le truppe servivano per l'Afghanistan oppure per l'Ossezia e l'Abkhazia? I dubbi sono ineludibili. «Benché il programma non sia secretato, le circostanze che lo riguardano mancano di trasparenza, anche se secondo le fonti dell'esercito statunitense questa mancanza di trasparenza non era intesa a mantenere segreto il programma. Altri programmi di addestramento militare degli Stati Uniti in Georgia dispongono di siti internet e gallerie fotografiche». I casi sono numerosi, fin dal 2003, con grandi investimenti in reparti speciali impegnati a difendere da fantomatici “terroristi ceceni”i grandi trivellatori orientati a sfruttare l'Eldorado petrolifero tra Caucaso e Caspio .
Tra questi contractor ritroviamo la Blackwater, la più potente e inquietante delle corporation mercenarie, un soggetto da solo in grado di non farci considerare paranoiche o veterosovietiche le denunce di Putin.
Per quanto si avverta una correzione di rotta mediatica sui fatti della Georgia, ogni giorno abbiamo tuttavia continue conferme della scadente copertura giornalistica occidentale sulla cruciale vicenda che si gioca al centro dell'Eurasia. Nessun giornale ha parlato ad esempio delle nette dichiarazioni sulla responsabilità della guerra in Caucaso formulate da un parlamentare statunitense, per giunta repubblicano, esperto di politica internazionale. Si tratta di Dana Rohrabacher. Tra le tante cose, si era occupato di Afghanistan dai primi anni ottanta in qualità di assistente speciale del presidente Ronald Reagan. Per leggere le sue dichiarazioni sul Caucaso dobbiamo andare a cercare i dispacci dell'agenzia russa “RIA Novosti".
Rohrabacher, vice presidente della sottocommissione per le organizzazioni internazionali della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, ha dichiarato che – stando ai dati dello spionaggio USA - la recente guerra in Ossezia del Sud è stata iniziata dalla Georgia.
«Tutte le fonti dell'intelligence con cui ho parlato - e ho parlato con molti di loro durante le vacanze parlamentari - confermano che la recenti azioni di guerra in Georgia e nella sue province separatiste sono state iniziate dalla Georgia», ha detto il parlamentare il 9 settembre in occasione di un'audizione del Congresso USA.
Ad avviso di Rohrabacher, così come citato dalla “RIA Novosti”, «i georgiani, non i russi, avevano rotto l'armistizio, e nessuna ciancia su provocazioni e altre cose può cambiare questo dato di fatto.»
Rohrabacher ha definito una "foglia di fico" tutti i tentativi di attrribuire la colpa sullo scatenamento della guerra a Ossezia del Sud. «Sì, alcune persone useranno questa foglia di fico e diranno che i sud-osseti potrebbero aver provocato azioni militari, lanciato un missile o sparato cannonate», ha detto Dana Rohrabacher, dopo aver ricordato l'incidente del Golfo del Tonchino, che venne utilizzato dagli Stati Uniti per avviare la guerra del Vietnam, e che più tardi si rivelò essere una provocazione. Per Rohrabacher la questione è semplice: «I russi hanno ragione, e noi torto. I georgiani avevano iniziato tutto questo, e i russi vi hanno posto fine», ha detto il vice presidente della sottocommissione parlamentare.
Una dichiarazione clamorosa di Rohrabacher era apparsa anche nel libro di Nafeez Mosaddeq Ahmed Guerra alla libertà (Fazi, 2002). Di fronte alla commissione esteri del Senato USA, nel 1999, Rohrabacher aveva detto: «Sono stato coinvolto a fondo nella politica americana in Afghanistan per circa vent'anni, e mi sono chiesto se questa amministrazione abbia o no messo in atto una politica segreta che ha rafforzato i talebani e consentito al loro feroce movimento di assumere il potere. Anche se il presidente e il segretario di Stato hanno espresso chiaramente il loro disprezzo per le efferatezze compiute dai talebani, e specialmente per la repressione delle donne, nei fatti la politica adottata dagli Stati Uniti ha ripetutamente avuto l'effetto opposto. […] Affermo che questa amministrazione ha messo in atto una politica segreta per offrire sostegno al governo dei talebani affinché assumessero il controllo dell'Afghanistan. […] Questa scelta amorale, o immorale, si basava sull'ipotesi che i talebani avrebbero portato stabilità in Afghanistan e consentito la costruzione di un oleodotto dall'Asia centrale fino al Pakistan attraverso l'Afghanistan […] Credo che l'amministrazione abbia mantenuto segreto questo obiettivo, e tenuto all'oscuro il Congresso sulla sua politica di sostegno ai talebani, il regime più antioccidentale, più antifemminile e avverso ai diritti umani del mondo.»
Prima o poi qualcuno ci informerà di nuovo su queste cose tanto importanti. Di fronte alle operazioni segrete e alle terribili guerre che vi si collegano non potrà bastare una piccola correzione di rotta della corrente delle notizie. Servono nuovi punti di vista.
di Pino Cabras

E, la crisi continua


E' di questa mattina del fallimento della quarta banca americana Lehman Brothers. I libri contabili sono stati portati in tribunale e 20.000 persone sono rimaste senza lavoro e senza soldi. E' questo il destino della finanza globale? Dove sono i paladini della globalità?


Non più tardi di una settimana fa le Borse europee sono crollate in media ben oltre i due punti percentuali, bruciando in una sola seduta più di 140 miliardi di euro. Una cifra che in realtà non fa grande notizia di per sè, perchè quello che preoccupa i mercati è l'andazzo generale. Di tutta l'economia, non solo della finanza.
Sono stati diffusi i dati sulla disoccupazione americana: la bolla della crisi subprime con la sua ondata di fallimenti non solo di grandi finanziarie ma anche di piccole realtà ad esse legate, in questi mesi ha incrementato il numero di disoccupati, come era prevedibile. E' l'effetto domino che si ripete ogni volta durante le crisi economiche.
Tutto ciò richiede costanti iniezioni di finto ottimismo: sono mesi che si tenta disperatamente di intravedere una ripresa laddove invece non c'è niente, al massimo qualche sporadico miglioramento momentaneo. Poco tempo fa si diceva che le esportazioni Usa stavano riprendendo: era vero, ma in realtà era solo una conseguenza riflessa del dollaro debole, niente più. Non è certo sufficiente a ridare fiducia ai mercati. E tutti lo sapevano bene. Inoltre il dollaro adesso si sta rafforzando, quindi anche le esportazioni si smorzeranno.
Adesso l'ottimismo programmato riguarda il petrolio. Il petrolio dopo il massimo a 147 dollari al barile raggiunto un paio di mesi fa, adesso è a quota 105. Si dice che può essere un aiuto all'economia. Ma si tratta di una illusione: il petrolio sta calando di prezzo proprio perchè si prevede che la domanda di materie prime e di energia nei prossimi mesi calerà in seguito alla recessione economica. Quindi paradossalmente il calo del prezzo del greggio potrebbe essere un dato negativo, non positivo.
Un altro elemento di grande instabilità è la massiccia presenza presso le banche europee dei titoli spazzatura, che si basano sui mutui concessi con facilità e quindi non sicuri: le banche americane non ne hanno quasi più perchè o sono fallite o se ne sono sbarazzate vendendoli alle colleghe del vecchio continente. La stretta del credito da parte delle banche centrali avrebbe dovuto portare alla loro scomparsa. Invece i titoli spazzatura sono ancora lì, solo che non riuscendo le banche a collocarli sul mercato, la Bce si trova costretta ad accettarli. Se la Bce rifiutasse di farlo, le banche europee potrebbero andare in crisi. La Bce così fa da garante. Pero’ c'è un limite: concedere loro prestito facile in cambio di titoli a rischio rimanda la crisi e la aggrava, perchè rischia di minare la solidità delle Bce. La quale così ha deciso di dare una stretta a questa operazione, accettando i titoli rischiosi, ma solo svalutandone il valore.
In definitiva, comunque si agisca, da una parte o dall'altra, la crisi è talmente diffusa e profonda che è ben lungi da essere finita.
di Massimiliano Viviani

Bombe e spazio aereo, "no di Washington a Tel Aviv"

L'autorizzazione a impiegare un corridoio aereo attraverso l'Iraq, un gran numero di bombe anti-bunker, sistemi per il rifornimento in volo dei caccia bombardieri. C'è soprattutto questo nel pacchetto di aiuti che da settimane l'alleato statunitense nega a Israele. La rivelazione arriva dal quotidiano israeliano Ha'aretz , che sul numero in edicola ieri titolava in maniera inequivocabile: «Israele chiede agli Stati Uniti armi e un corridoio aereo per attaccare l'Iran».


Ogni anno Israele riceve circa tre miliardi di dollari di aiuti diretti dagli Stati Uniti, il 75% dei quali viene impiegato da Tel Aviv per spese militari. Nella «lista della spesa», di cui i più alti funzionari di Washington e Tel Aviv avrebbero discusso senza trovare un accordo nel maggio e nel luglio scorso, c'erano le bombe Gbu-28, ordigni di 2,2 tonnellate - utilizzati nel corso dell'ultima guerra contro il Libano - capaci di penetrare fino a sei metri di cemento. Bush avrebbe detto di no anche all'utilizzo dello spazio aereo dell'Iraq. Secondo le testimonianze raccolte da Ha'aretz , l'Amministrazione repubblicana ha risposto agli israeliani di rivolgersi al premier iracheno al-Maliki: «Se volete, prendete accordi con lui». L'israeliano Canale 10 ha poi riferito la scorsa settimana che Washington avrebbe risposto picche anche alla richiesta di nuovi aerei da rifornimento: quelli dell'aviazione di Tel Aviv sono obsoleti e non garantirebbero il successo di un raid aereo contro le installazioni nucleari iraniane.


Come contentino, durante la visita a Washington del luglio scorso del ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, sarebbe stata garantita a Tel Aviv l'installazione nel deserto del Negev di un sistema di radar anti-missile di ultima generazione. Se confermate, le rivelazioni di Ha'aretz evidenzierebbero la determinazione di Israele a fermare il programma di arricchimento dell'uranio di Tehran mediante un attacco militare alla repubblica islamica. L'Iran ha sempre negato che i suoi progetti atomici mirino alla fabbricazione della bomba. Nello stesso tempo la ricostruzione fatta dal quotidiano confermerebbe l'intenzione dell'Amministrazione Bush di concentrarsi sull'Iraq nelle ultime settimane che precedono l'elezione presidenziale, frenando sull'attacco a Tehran e puntando sulla diplomazia.

Una diplomazia che però sta mettendo alle corde il regime iraniano. Washington e Tel Aviv sono riuscite a convincere la Comunità internazionale che Tehran miri all'arma atomica e le Nazioni Unite hanno già approvato tre round di sanzioni contro gli ayatollah. Continuano poi le sanzioni unilaterali da parte degli Usa, l'ultima delle quali varata l'altro ieri, contro la compagnia di navigazione statale iraniana Irisl e 18 sue affiliate. Ieri la missione iraniana all'Onu ha dichiarato che «queste azioni da parte degli Usa sono controproducenti, non aiuteranno a trovare una soluzione ad alcun problema e renderanno la soluzione anche più complicata».

di Michelangelo Cocco