04 aprile 2009

Il caso Blackrock: scommesse contro la ripresa

US-PROPERTY-STUYVESANT TOWN
Oramai la febbre del gioco per i derivati porta a scommettere anche contro se stesso. Una vincita o una scommessa vinta come la vittoria di Pirro. A che serve?

Lo stato dell’arte, al netto dell’ottimismo per il piano Geithner e i rimbalzi da gatto morto delle Borse, è il seguente: l’amministrazione Obama, quella che usa come testa d’ariete il populismo della maxi-aliquota per i più ricchi, sta arricchendo a dismisura banche e fondi a spese dei contribuenti senza intervenire realmente verso quegli istituti i cui default potrebbero pregiudicare pesantemente l’intera economia mondiale.

Un esempio è quello di Blackrock, uno dei primi due enti privati che hanno aderito al piano di riacquisto degli assets tossici. Sapete qual è il motto di Blackrock? Aderire al piano Geithner per il bene dell'America e contemporaneamente scommettere contro la sua ripresa. Certo non lo troverete stampato sulla brochure informativa, ma è proprio questa la filosofia, tipica del fondo hedge, con cui Blackrock ha approcciato all’ultima mossa del Tesoro Usa per cercare di eliminare dai bilanci di banche e assicurazione gli assets tossici che continuano a regalare perdite e svalutazioni a ogni trimestre, con conseguente necessità di intervento della Fed.

Il fondo globale macro di BlackRock Inc, il secondo miglior fondo hedge al mondo in termini di performance nell’ultimo biennio tra i fondi che puntano sui trend macroeconomici, sta infatti scommettendo contro il rally che in queste ultime settimane ha fatto recuperare dal 20 al 25 per cento ai principali listini azionari mondiali. L’Asset Allocation Alpha Fund (questo il nome del prodotto), che nel 2008 ha guadagnato il 41% contro il 19% in media registrato dai fondi hedge, sia “corto” di azioni sui mercati statunitense, inglese, australiano e canadese oltre che di bond britannici, come confermato dal gestore, David Hudson.

Il gestore ha spiegato a Bloomberg che «il rischio è che nel secondo semestre dell’anno l’andamento economico risulti molto deludente e costringa i mercati a toccare nuovamente i minimi entro pochi mesi e forse a calare ulteriormente». Insomma, da un lato la casamadre istituzionale sposa la politica governativa e contemporaneamente il fondo speculativo di famiglia scommette contro: esattamente come i trader che operano on-line sui Cft - contratti per differenza, ovvero basati su un sottostante che replica l’andamento di un’azione, una commodities o una valuta senza acquistarla - che automaticamente si pongono in posizione contraria a quella scelta dall’investitore come copertura, se va long ci si posizione short e viceversa.

Blackrock nasce negli Stati Uniti nel 1988 come gestore indipendente altamente specializzato nel reddito fisso e dedicato esclusivamente al segmento istituzionale. Nell’ottobre 2006 si fonde con Merrill Lynch Investment Managers - società leader nel business retail e con team di gestione azionaria tra i più apprezzati nell’industria del risparmio gestito - e solo dopo un anno, nell’ottobre 2007, chiude l’acquisizione di Quellos Group, una delle maggiori piattaforme globali di fondi che offre soluzioni d’investimento hedge, private equity e real estate a clienti sia istituzionali sia privati di tutto il mondo.

Con un patrimonio in gestione di oltre 1.250 miliardi di dollari, BlackRock è il primo gestore indipendente quotato al NYSE in termini di attivi in gestione: la società opera con diverse opzioni d’investimento nel reddito fisso, nel segmento azionario e monetario, investimenti alternativi e real estate, settore che dopo il crollo dovuto ai subprime potrebbe diventare la prossima gallina dalle uova d’oro poiché quei derivati ridotti a pezzi di carta senza valore che BlackRock si impegna a comprare sottendono comunque degli immobili, ovvero un bene reale su cui investire per il futuro.

Alla sede principale di New York, qualcuno, ha fiutato l’affare “coprendosi” comunque dal rischio di brutte sorprese ponendosi al ribasso sugli indici: speculazione pura. Ma non è certo il primo caso, visto che questa crisi per alcuni è stata un’enorme opportunità. Già dalla scorsa primavera nessuno comprava più le obbligazioni emesse dalle banche e dalle imprese, ma c’era qualcuno che sfidava il trend: il gruppo Carlyle (il fondo privato della famiglia Bush) nel mese di aprile lanciò un’emissione da mezzo miliardo di dollari - di obbligazioni «garantite» da prestiti, cosa quasi incredibile in questo momento di generale insolvenza dei debitori - e lo fece allo scopo di comprare, coi soldi che sarebbe riuscita a raccogliere, «i debiti ad alto rischio e ad alto rendimento che le banche stanno cedendo a prezzi scontati»: parola di Bloomberg, l’agenzia finanziaria del sindaco di New York.

Passata la buriana - che passerà esattamente come sono passate tutte le altre crisi - quelle case torneranno appetibili, soprattutto perché comprate a prezzi ridicoli e ora pronte a essere rimesse sul mercato a dieci volte tanto. Insomma, Geithner non ha fatto altro che istituzionalizzare l’intuizione speculativa del fondo di George W. Bush ponendo al servizio della stessa denaro dei contribuenti al fine di attirare i privati e rendere meno respingente il fattore di rischio insito nell’operazione.

D’altronde non sarà sfuggito a nessuno di voi come da qualche giorno a questa parte la Borsa Usa riesca a risorgere dopo la pubblicazione di sorprendenti dati riguardo il mercato immobiliare: vendite di case in aumento ovunque negli States e anche numeri record per la costruzione di nuovi immobili. Gli speculatori saranno anche antipatici ma non sono stupidi, scommettono soldi ma lo fanno a ragion veduta.

Politicamente, però, non è questa la risposta. E non è questo il vero problema, almeno in questo momento. Ora la vera, grande questione è la Cina. Secondo i dati del Tesoro Usa, la Repubblica Popolare (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine. Di questi, 107 miliardi erano «agency bonds», ossia pacchetti formati da mutui «garantiti» (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense.

La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei sub-prime e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack subprime erano ormai note a tutti. Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui. Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento.
v A questo accumulo di debito Usa va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli Usa, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati. Il perché di questa politica apparentemente suicida è semplice: Pechino non aveva altra scelta che questo gioco pericoloso per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre contemporaneamente stava accumulando troppi dollari con le sue esportazioni. Ora la camera di compensazione sembra pronta alla chiusura. È dell’altro giorno, infatti, la notizia in base alla quale Pechino avrebbe chiesto di sostituire il dollaro come moneta di riferimento globale con un paniere di monete comprendente dollaro, euro, sterlina e yen: immediato il no degli Usa e anche di Joaquin Almunia.
v La guerra - commerciale, finanziaria e valutaria - è stata dichiarata: è la crisi potrebbe offrire ottime opportunità a chi intende rivedere gli equilibri globali. Non guardate la Borsa, guardate il Forex.
di Mauro Bottarelli

03 aprile 2009

Dirigenti made in Italy,Uomini e senza laurea

manager

È tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?

Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente, licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?

Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie, accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea. Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria italiano nomina i suoi ufficiali.

Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa, esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121 amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.



Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).

Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina (benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica (solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è lontana dalla lode.

Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)". Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso per l'azienda.

Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più, sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.

Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un manager? Dei 121 a cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in "riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro, eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa. Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti, investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale della propria azienda?
Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy", appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.
manager

È tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?

Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente, licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?

Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie, accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea. Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria italiano nomina i suoi ufficiali.

Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa, esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121 amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.



Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).

Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina (benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica (solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è lontana dalla lode.

Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)". Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso per l'azienda.

Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più, sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.

Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un manager? Dei 121 a cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in "riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro, eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa. Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti, investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale della propria azienda?
Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy", appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.

04 aprile 2009

Il caso Blackrock: scommesse contro la ripresa

US-PROPERTY-STUYVESANT TOWN
Oramai la febbre del gioco per i derivati porta a scommettere anche contro se stesso. Una vincita o una scommessa vinta come la vittoria di Pirro. A che serve?

Lo stato dell’arte, al netto dell’ottimismo per il piano Geithner e i rimbalzi da gatto morto delle Borse, è il seguente: l’amministrazione Obama, quella che usa come testa d’ariete il populismo della maxi-aliquota per i più ricchi, sta arricchendo a dismisura banche e fondi a spese dei contribuenti senza intervenire realmente verso quegli istituti i cui default potrebbero pregiudicare pesantemente l’intera economia mondiale.

Un esempio è quello di Blackrock, uno dei primi due enti privati che hanno aderito al piano di riacquisto degli assets tossici. Sapete qual è il motto di Blackrock? Aderire al piano Geithner per il bene dell'America e contemporaneamente scommettere contro la sua ripresa. Certo non lo troverete stampato sulla brochure informativa, ma è proprio questa la filosofia, tipica del fondo hedge, con cui Blackrock ha approcciato all’ultima mossa del Tesoro Usa per cercare di eliminare dai bilanci di banche e assicurazione gli assets tossici che continuano a regalare perdite e svalutazioni a ogni trimestre, con conseguente necessità di intervento della Fed.

Il fondo globale macro di BlackRock Inc, il secondo miglior fondo hedge al mondo in termini di performance nell’ultimo biennio tra i fondi che puntano sui trend macroeconomici, sta infatti scommettendo contro il rally che in queste ultime settimane ha fatto recuperare dal 20 al 25 per cento ai principali listini azionari mondiali. L’Asset Allocation Alpha Fund (questo il nome del prodotto), che nel 2008 ha guadagnato il 41% contro il 19% in media registrato dai fondi hedge, sia “corto” di azioni sui mercati statunitense, inglese, australiano e canadese oltre che di bond britannici, come confermato dal gestore, David Hudson.

Il gestore ha spiegato a Bloomberg che «il rischio è che nel secondo semestre dell’anno l’andamento economico risulti molto deludente e costringa i mercati a toccare nuovamente i minimi entro pochi mesi e forse a calare ulteriormente». Insomma, da un lato la casamadre istituzionale sposa la politica governativa e contemporaneamente il fondo speculativo di famiglia scommette contro: esattamente come i trader che operano on-line sui Cft - contratti per differenza, ovvero basati su un sottostante che replica l’andamento di un’azione, una commodities o una valuta senza acquistarla - che automaticamente si pongono in posizione contraria a quella scelta dall’investitore come copertura, se va long ci si posizione short e viceversa.

Blackrock nasce negli Stati Uniti nel 1988 come gestore indipendente altamente specializzato nel reddito fisso e dedicato esclusivamente al segmento istituzionale. Nell’ottobre 2006 si fonde con Merrill Lynch Investment Managers - società leader nel business retail e con team di gestione azionaria tra i più apprezzati nell’industria del risparmio gestito - e solo dopo un anno, nell’ottobre 2007, chiude l’acquisizione di Quellos Group, una delle maggiori piattaforme globali di fondi che offre soluzioni d’investimento hedge, private equity e real estate a clienti sia istituzionali sia privati di tutto il mondo.

Con un patrimonio in gestione di oltre 1.250 miliardi di dollari, BlackRock è il primo gestore indipendente quotato al NYSE in termini di attivi in gestione: la società opera con diverse opzioni d’investimento nel reddito fisso, nel segmento azionario e monetario, investimenti alternativi e real estate, settore che dopo il crollo dovuto ai subprime potrebbe diventare la prossima gallina dalle uova d’oro poiché quei derivati ridotti a pezzi di carta senza valore che BlackRock si impegna a comprare sottendono comunque degli immobili, ovvero un bene reale su cui investire per il futuro.

Alla sede principale di New York, qualcuno, ha fiutato l’affare “coprendosi” comunque dal rischio di brutte sorprese ponendosi al ribasso sugli indici: speculazione pura. Ma non è certo il primo caso, visto che questa crisi per alcuni è stata un’enorme opportunità. Già dalla scorsa primavera nessuno comprava più le obbligazioni emesse dalle banche e dalle imprese, ma c’era qualcuno che sfidava il trend: il gruppo Carlyle (il fondo privato della famiglia Bush) nel mese di aprile lanciò un’emissione da mezzo miliardo di dollari - di obbligazioni «garantite» da prestiti, cosa quasi incredibile in questo momento di generale insolvenza dei debitori - e lo fece allo scopo di comprare, coi soldi che sarebbe riuscita a raccogliere, «i debiti ad alto rischio e ad alto rendimento che le banche stanno cedendo a prezzi scontati»: parola di Bloomberg, l’agenzia finanziaria del sindaco di New York.

Passata la buriana - che passerà esattamente come sono passate tutte le altre crisi - quelle case torneranno appetibili, soprattutto perché comprate a prezzi ridicoli e ora pronte a essere rimesse sul mercato a dieci volte tanto. Insomma, Geithner non ha fatto altro che istituzionalizzare l’intuizione speculativa del fondo di George W. Bush ponendo al servizio della stessa denaro dei contribuenti al fine di attirare i privati e rendere meno respingente il fattore di rischio insito nell’operazione.

D’altronde non sarà sfuggito a nessuno di voi come da qualche giorno a questa parte la Borsa Usa riesca a risorgere dopo la pubblicazione di sorprendenti dati riguardo il mercato immobiliare: vendite di case in aumento ovunque negli States e anche numeri record per la costruzione di nuovi immobili. Gli speculatori saranno anche antipatici ma non sono stupidi, scommettono soldi ma lo fanno a ragion veduta.

Politicamente, però, non è questa la risposta. E non è questo il vero problema, almeno in questo momento. Ora la vera, grande questione è la Cina. Secondo i dati del Tesoro Usa, la Repubblica Popolare (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine. Di questi, 107 miliardi erano «agency bonds», ossia pacchetti formati da mutui «garantiti» (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense.

La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei sub-prime e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack subprime erano ormai note a tutti. Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui. Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento.
v A questo accumulo di debito Usa va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli Usa, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati. Il perché di questa politica apparentemente suicida è semplice: Pechino non aveva altra scelta che questo gioco pericoloso per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre contemporaneamente stava accumulando troppi dollari con le sue esportazioni. Ora la camera di compensazione sembra pronta alla chiusura. È dell’altro giorno, infatti, la notizia in base alla quale Pechino avrebbe chiesto di sostituire il dollaro come moneta di riferimento globale con un paniere di monete comprendente dollaro, euro, sterlina e yen: immediato il no degli Usa e anche di Joaquin Almunia.
v La guerra - commerciale, finanziaria e valutaria - è stata dichiarata: è la crisi potrebbe offrire ottime opportunità a chi intende rivedere gli equilibri globali. Non guardate la Borsa, guardate il Forex.
di Mauro Bottarelli

03 aprile 2009

Dirigenti made in Italy,Uomini e senza laurea

manager

È tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?

Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente, licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?

Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie, accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea. Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria italiano nomina i suoi ufficiali.

Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa, esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121 amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.



Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).

Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina (benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica (solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è lontana dalla lode.

Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)". Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso per l'azienda.

Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più, sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.

Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un manager? Dei 121 a cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in "riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro, eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa. Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti, investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale della propria azienda?
Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy", appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.
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È tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?

Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente, licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?

Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie, accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea. Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria italiano nomina i suoi ufficiali.

Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa, esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121 amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.



Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).

Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina (benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica (solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è lontana dalla lode.

Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)". Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso per l'azienda.

Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più, sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.

Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un manager? Dei 121 a cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in "riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro, eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa. Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti, investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale della propria azienda?
Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy", appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.