20 maggio 2009

Le trame e i segreti della corte imperiale





Le trame e i segreti della corte imperiale

Devo confessare che Scalfari non mi soddisfa come giornalista ma, quando vuole sa essere lucido e pungente. Un'analisi del momento politico in Italia anestetizzato dai media in modo imbarazzante. E gli altri? a razzolare nel cortile del Re Sole...






E' PASSATA poco più d'una settimana da quando la signora Veronica Lario in Berlusconi ha rotto il velo del "Mulino bianco" collocato tra le ville di Arcore e Macherio, scatenando una "tempesta perfetta" registrata con ampiezza dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. Viene in mente il "Truman Show", quel libro e quel film di grande successo che raccontarono qualche anno fa di un giovane scelto fin dalla nascita da una grande catena televisiva, protagonista a sua insaputa di un "reality" seguito da un immenso pubblico fino a quando la barriera che chiudeva lo spazio del "set" venne varcata e il giovane acquistò coscienza ed entrò finalmente nel mondo reale.

Qui è accaduto e sta accadendo qualche cosa di analogo con la differenza, certo non di poco conto, che il "reality" non è immaginario ma reale, è reale il protagonista che è il capo del governo ed è reale lo spazio in cui l'azione si svolge, i comprimari che lo circondano, i cortigiani, i ministri, il popolo. Tutto è tremendamente reale, eppure è nello stesso tempo immaginario, mediatico, politico. In Italia va dunque in scena un "Truman Show" e tutti noi ne siamo gli attori. Non so se riderne o disperarsene. Scegliete voi cari lettori.

Attorno a questa situazione a dir poco anomala si sono accese molte discussioni e sono emersi molti temi distinti uno dall'altro e tuttavia interdipendenti. Uno di questi riguarda il modo d'essere e per conseguenza il modo di vivere di Silvio Berlusconi.

Non è certo la prima volta che questo tema sale al centro dell'attenzione pubblica ma mai come in questo caso che ha mescolato la politica e il "corpo del re" al gossip più pruriginoso che coinvolge i rapporti tra il pubblico e il privato.

Il secondo tema riguarda il corpo delle donne, il rispetto che gli si deve e le offese che gli si recano nonché i modi con i quali lo si usa. "Mode d'emploi".

Il terzo tema riguarda la sensibilità (o l'insensibilità) dei cattolici, dei loro pastori, della Chiesa su questo complesso di questioni etiche e al tempo stesso politiche.

C'è poi il tema concernente gli effetti o i mancati effetti di queste vicende sulla pubblica opinione e sulle intenzioni di voto che ne derivano. Questa discussione mette anche in causa il ruolo dei "media", la loro oggettività e la loro faziosità.

I vari temi sono da tempo sotto esame da parte dei giornali e delle televisioni ma è nell'ultima settimana che la temperatura è salita e la tensione ha raggiunto il massimo.

Il pubblico è abbastanza frastornato e le posizioni si vanno rapidamente radicalizzando. Ma è anche vero che per la prima volta si è aperta una crepa nel muro fin qui compatto del consenso berlusconiano. La crepa è visibile ma è ancora presto per stabilirne la profondità. Se riguarda soltanto l'intonaco non avrà conseguenze sulla solidità dell'edificio. Oppure si estenderà intaccando le fondamenta, i muri maestri e il tetto. I sondaggi già effettuati a ridosso dei fatti non hanno ancora l'attendibilità necessaria per far capire la natura delle lesioni che quell'edificio ha subìto.

* * *

Comincio con un'osservazione che riguarda i rapporti tra la sfera pubblica e quella privata. Sulla "Stampa" di mercoledì Barbara Spinelli ha approfondito questo tema ed ha scritto: "Sarebbe bello se gli uomini politici appendessero all'attaccapanni tutte le loro questioni private prima di entrare nell'agorà della politica" ed ha aggiunto: "Si vorrebbe non saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune, nulla delle sue notti o delle sue vacanze, nulla delle sue barche, delle sue tribù parentali, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La cosa pubblica sarebbe bello che fosse un piccolo lembo di terra dove l'umanità fa politica".

Cara Barbara, sarebbe bello? Una volta tanto non concordo con te, se non altro perché non è mai accaduto, neppure nella polis di Pericle, di Socrate, di Alcibiade. Non è mai accaduto nella storia antica e tanto meno in quella moderna. Soprattutto non è mai accaduto quando il potere raggiunge livelli di spinto autoritarismo o addirittura diventa potere assoluto.

In tempi di democrazia una sottile distanza tra pubblico e privato può sussistere, ma in regimi autoritari o assoluti quella tenda divisoria cade del tutto.

L'esempio più eloquente si ha guardando alla Francia del re Sole che dette il tono per 150 anni a tutte le corti d'Europa. Lo Stato era il re, proprietà e patrimonio del re, e così l'esercizio della giustizia e dell'amministrazione, la pace e la guerra. Nulla era privato nella vita del re, ogni suo gesto, ogni sua frequentazione, ogni suo attimo si svolgeva al cospetto del pubblico, a cominciare dal suo risveglio, delle sue funzioni corporali, del suo più intimo "nettoyage" cui era adibito un ciambellano di nobile famiglia che aveva il privilegio di "pulire il re".

Le amanti del re abitavano a corte e apparivano al braccio del sovrano senza alcuna mistificazione.

In tempi moderni qualche ipocrisia in più ha attenuato queste esibizioni ma non molto. Mussolini si esibiva a dorso nudo tra i contadini e i muratori, ma nascondeva Claretta nonostante si vivesse in tempi di potere assoluto. Voglio qui ricordare la battuta recente di Alessandra sua nipote: a chi gli domandava quali fossero le differenze tra suo nonno e Berlusconi in tema di frequentazioni femminili, ha risposto: "Mio nonno non ha mai fatto ministro la Petacci". In effetti la differenza è notevole, anzi è una delle materie del contendere e la si trova esplicitamente indicata nella dichiarazione all'agenzia Ansa di Veronica Lario.

* * *

Nella trasmissione di Bruno Vespa dedicata a Berlusconi e alla sua rottura con la moglie il titolo che campeggiava sul telone di fondo era: "Oggi parlo io". Infatti così è stato per oltre due ore, ha parlato soltanto lui anche se, oltre al conduttore come sempre abilissimo, c'erano tre "figuranti" nelle persone del direttore del "Corriere della Sera", del direttore del "Messaggero" e dell'estroso Sansonetti, già direttore di "Liberazione".

Sono amico di Ferruccio De Bortoli e ho stima di lui sicché uso con disagio la parola "figurante" ma non ne trovo altre più appropriate. La loquela berlusconiana ha letteralmente sommerso i tre colleghi. Il direttore del "Corriere" ha avuto soltanto la possibilità di raccomandare al premier maggior sobrietà nell'esercizio delle sue pubbliche funzioni, ma si è preso un rimbrotto immediato perché il Protagonista ha rivendicato il suo modo d'essere come un irrinunciabile esempio di democrazia popolare. Lui è fatto così e va preso così, dicono i suoi amici e ricordano la canzone da lui preferita nel suo repertorio canoro: "Je suis comme je suis" di Juliette Gréco, che lui canta spesso con molta grazia.

Per il resto i tre colleghi hanno ascoltato silenti il suo lunghissimo monologo. Forse sarebbe stato meglio se avessero rinunciato ad una presenza alquanto umiliante.

E' andato così in scena un processo in contumacia contro la moglie Veronica di fronte a quattro milioni di spettatori. Lui ha negato tutti gli addebiti come a suo tempo fece Bill Clinton, fino a quando dovette smentirsi platealmente per evitare l'"impeachment".

Clinton aveva cominciato col negare qualsiasi rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca e continuò imperterrito a ripetere questa sua verità pur di fronte all'immenso clamore dei "media" di tutto il mondo. Il tambureggiamento dei giornali e delle televisioni durò a lungo; Clinton dovette ripetere le sue affermazioni di innocenza davanti ad un Grand Jury fino a quando Monica Lewinsky confidò la sua verità ad un'amica che vuotò il sacco con la stampa. A quel punto l'ipotesi d'un impeachment per aver mentito al congresso diventò incombente e Clinton confessò per evitare un giudizio che si sarebbe probabilmente risolto con la sua infamante rimozione dalla carica.

Confrontare le normative italiane in proposito con quelle americane sarebbe umiliante. Aggiungo soltanto che nella sua lettera all'Ansa la signora Berlusconi-Lario denuncia il clima di omertà che circonda e protegge le malefatte dell'"imperatore". Ne abbiamo avuto una prova eloquente durante la trasmissione di Santoro con la prestazione dell'avvocato e deputato Niccolò Ghedini. Non avevo mai visto un avvocato difensore comportarsi non come un professionista libero anche se impegnato a proteggere gli interessi del suo cliente, ma come un servitore addestrato a picchiare mettendosi sotto i piedi la logica oltre che la verità.

Il vero spettacolo di quella trasmissione è stato lui, Niccolò Ghedini; nella sua doppia qualifica di avvocato di un solo cliente e di rappresentante del popolo e legislatore molto si è detto e scritto ma non abbastanza. E' perfino peggio di Previti che nelle sue malefatte ostentava almeno una sua grandezza. Il suo più giovane collega sembra piuttosto un pretoriano, perfettamente appropriato all'aria di basso impero che circola con tutte le sue flatulenze nei palazzi del potere.

* * *

Un'altra osservazione che bisogna fare riguarda la ricattabilità: Berlusconi è una persona ricattabile perché nega alcune circostanze che sembrano evidenti e che sono a conoscenza diretta di altre persone. Queste persone sono state e saranno colmate di benefici, ma dei loro servizi egli non può disfarsi quand'anche lo volesse poiché sono al corrente di segreti piccoli o grandi che potrebbero offuscare o addirittura interrompere i suoi successi e il suo potere.

Spesso è accaduto che tra queste persone si verificassero contrasti e che la loro riservatezza fosse dunque a rischio. Finora il leader è riuscito a mediare, a conciliare, a tacitare, ma il rischio è ricorrente e spiega anche alcune vicende altrimenti incomprensibili.

Una di esse, la più recente, è l'amicizia tra il premier e Elio Letizia, padre di Noemi. Non si sa come sia nata quell'amicizia né quando, una spessa coltre di reticenza ne copre l'origine e la natura alla stregua di un vero e proprio segreto di Stato. Basta leggere o ascoltare le interviste del signor Letizia - personaggio con non lievi trascorsi penali - per rendersi conto di reticenze a dir poco inquietanti.

La stampa ha tra gli altri suoi compiti quello di controllare il potere e cercare la verità bucando il velo della reticenza. E' dunque comprensibile anche se abominevole che la stampa sia una delle principali preoccupazioni di chi detiene il potere. Preoccupazioni "pelose" che si esercitano sulle proprietà dei giornali, sui direttori, sui giornalisti con compiti di rilievo. Gli editti di persecuzione contro giornalisti scomodi servono a metterli fuorigioco, i premi servono invece a favorirne la conversione.

Sarebbe impietoso farne l'elenco ed anche non necessario: basta infatti seguirne i percorsi e le carriere determinate dal Palazzo e gli effetti "deontologici" che ne derivano per averne contezza.

* * *

Questa fitta rete di premi, benefici, ricatti potenziali, lotte di potere, è stata messa in crisi da una donna, da una moglie, dalla sua denuncia pubblica, dall'assunzione di un rischio altissimo e personale.

La denuncia riguarda vizi pubblici e vizi privati che tuttavia costituiscono, come già detto, un contesto unico e non scindibile. Tutta la discussione sulle cosiddette veline assume, nelle parole di Veronica Lario, un significato preciso: la selezione distorta della classe dirigente, ormai interamente rimessa alle scelte capricciose dell'"imperatore".

Lo scandalo non proviene dal reclutamento privilegiato nel mondo dello spettacolo né dall'età né dal sesso delle prescelte, ma dalla preparazione politica sulla quale purtroppo circolano idee improprie.

La politica come tutti la vorremmo ha come premessa una adeguata formazione culturale coltivata in famiglia, a scuola e con letture che contribuiscano a svegliare la fantasia e a far crescere coscienza, carattere e senso di responsabilità.

I giovani che acquisiscono questa preparazione culturale sentono talvolta dentro di loro una vocazione politica, il desiderio di occuparsi del bene comune e di rappresentare interessi legittimi e valori congeniali al loro modo di essere e di pensare. Il seguito è affidato alla capacità individuale, agli incontri, ai punti di riferimento che la società esprime e alla competitività individuale.

Questo è il solo modo adatto a selezionare i talenti politici. Va detto purtroppo che è caduto in disuso in un'epoca di portaborse e di "yes-men".

* * *

Resta da parlare dei cattolici, della Chiesa e delle reazioni che questa vicenda ha suscitato. Se fosse ancora tra noi Pietro Scoppola intervenire su questo tema gli spetterebbe di diritto: si tratta di etica, un valore che coinvolge in modi diversi ma egualmente intensi sia il pensiero laico sia il mondo cattolico, con in più per quest'ultimo che l'etica è strettamente intrecciata al sentimento religioso e quindi impedisce il cinismo dell'indifferenza o almeno così dovrebbe.

Per quel che emerge da alcuni segnali il mondo cattolico, o per esser più precisi il laicato cattolico, vive con molto disagio il paganesimo berlusconiano abbinato ad una "devozione" di natura commerciale agli interessi della Chiesa. Proprio perché questo disagio è forte ed esercita una pressione intensa nelle Comunità e negli Oratori, la Conferenza episcopale l'ha assunto come proprio e il suo giornale, l'"Avvenire", ne ha dato conto.

Le reazioni della Santa Sede, manifestate tre giorni fa dal Segretario di Stato vaticano al plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta, sono state invece di ben diversa natura. Si è raccomandata prudenza, maggior riserbo, abbassamento dei toni, offrendo in contropartita il silenzio della Santa Sede su quanto è accaduto. Il tema del possibile divorzio riguarderebbe un matrimonio civile e quindi non interessa la Chiesa. Semmai e paradossalmente quel divorzio sanerebbe lo strappo del primo divorzio, invalido per il diritto canonico poiché scioglieva un matrimonio celebrato religiosamente.

Un paradosso che riduce l'etica cattolica ad una ripugnante casistica, spiegata e condivisa da Francesco Cossiga che si era recato a solidarizzare col premier e poi, interrogato dai giornalisti, ha così risposto: "Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine. Sant'Ambrogio disse non a caso "Ecclesia casta et meretrix"".

Se è per questo, Dante disse assai di peggio. Era ghibellino e non si faceva certo intimidire.


di EUGENIO SCALFARI


19 maggio 2009

La civiltà della differenza

Vecchie o nuove, di natura etnica, linguistica, religiosa, sessuale o altro, le comunità sono le dimensioni naturali dell’appartenenza. Foss’anche per staccarsene, nessuno può esistere senza. Poiché la ragione pratica s’esercita inevitabilmente in un contesto, l’io è sempre incorporato in una storia ed essa non si riconduce mai a uno statu quo, tanto meno al passato. Beninteso, nessuno è tenuto (né dev’esserlo) ad appartenere a una comunità. Si può entrarvi, si deve poterne uscire ed eventualmente tornarvi. L’esperienza storica mostra che l’appartenenza a una comunità è legittimamente vista come positiva da molti (pone a contatto con coloro nei quali ci si riconosce) e legittimamente vista come negativa da altri. Ai giorni nostri, in un’epoca nella quale lo Stato sociale pare in crisi irreversibile, la dimensione d’appartenenza è anche, in molti casi, un potente fattore d’aiuto reciproco e solidarietà. In un’ottica giacobina, come quella francese, la dimensione d’appartenenza esclude altre dimensioni d’appartenenza (l’ossessione della «doppia lealtà»). In un’ottica non giacobina, compito del politico è articolare insieme più dimensioni d’appartenenza.

L’ascesa delle comunità coincide con l’esaurimento dello Stato-nazione, che nel periodo posteriore alla pace di Westfalia è stato la forma politica privilegiata della modernità. Non è un caso: l’emergere della postmodernità va di pari passo con la paralisi progressiva del modello dello Stato nazionale e la ricomparsa di forme politiche che lo superano (blocchi continentali dal ruolo-chiave nel mondo multipolare) o lo erodono (rivendicazioni localiste, moltiplicazione delle «comunità» e delle «tribù» per l’esplosione delle identità per effetto della secolarizzazione, rinascita dei radicamenti regionali e frontalieri-transnazionali). La modernità ha fatto dimenticare che la storia ha avuto e avrà altre forme politiche rispetto allo Stato-nazione. In un passato non remoto, la grande forma rivale dello Stato-nazione è stato l’Impero, i cui più antichi teorici furono Marsilio da Padova, Dante e Nicolò Cusano. Caratteristica dell’Impero, che non è una nazione più grande delle altre, è articolare le differenze. La sovranità vi è ripartita, le particolarità etniche e culturali, religiose e di costumi vi sono giuridicamente riconosciute, se non sono contrarie alla legge comune. La regola è applicare il principio di sussidiarietà. Oggi vari suoi principi si ritrovano nell’idea federalista, l’unica a conciliare la necessità dell’unità di comando al vertice col rispetto della diversità a ogni livello, a partire dalla base.

Nella tradizione dell’Impero, nazionalità non è sinonimo di cittadinanza. I concetti sono diversi: il popolo politico (demos) non si confonde col popolo etnico (ethnos), ma l’uno non ostacola l’altro. Invece sono indistinguibili nell’ottica giacobina. Si nota oggi che i «repubblicani» appiattiscono la nazionalità sulla cittadinanza, mentre i razzisti appiattiscono la cittadinanza sulla nazionalità. Gli uni e gli altri si congiungono in uno stesso ideale d’indistinzione.

Al vivere insieme di chi abita lo stesso Paese occorre una legge comune, s’è detto. Un punto su cui non si può transigere: è nella natura stessa del multiplo esigere un principio unitario, senza il quale si finisce nella spirale infinita delle rivendicazioni dei «diritti», equivalente alla «tirannia delle minoranze» paventata da Tocqueville. Ma la legge comune deve tener conto delle particolarità, esaminare le rivendicazioni legate a consuetudini, ammettere quelle che non minacciano l’ordine pubblico e prevedere le disposizioni necessarie perché possano esistere. Ma al di là della legge comune non c’è da farsi illusioni: solo un grande progetto può nutrire la volontà di vivere insieme e darsi un destino. L’epoca attuale, che privilegia gli interessi sui valori, sembra ormai lontanissima dai grandi progetti collettivi. Le rivendicazioni sociali sono sempre più parcellizzate e pare trionfare l’individualismo dei comportamenti. Ma, giunta al compimento, ogni tendenza si capovolge bruscamente. Domanda fondamentale: a quale grande progetto potrebbero associarsi le comunità?

Un Paese non trova coesione annientando le coesioni particolari. La natura sociale dell’uomo può esser pensata solo a partire dalle comunità che formano il tessuto della società. Solo così, forse, si potrà civilizzare la differenza.
di Alain de Benoist

18 maggio 2009

Nel paese che ha spento la tv "Così salviamo i nostri bambini"

rocca-di-noceto
Lo decisero 13 anni fa. Quasi un passa parola, famiglia dopo famiglia, casa dopo casa. E così una sera, in quel borgo alle porte di Parma, improvvisamente tutti spensero la Tv. Centinaia, migliaia di televisori oscurati, muti, quasi partecipi dell'immenso dolore di una comunità.

Un gesto di rabbia, una rivolta civile contro le trasmissioni che mandavano in onda di tutto senza curarsi delle conseguenze. Che a Noceto furono imprevedibili e drammatiche. David, un bambino di 12 anni, dopo avere visto l'esecuzione di una sentenza capitale aveva deciso di imitare la scena per gioco. Morì impiccandosi. Non c'erano parole, nessuna spiegazione che alleviasse il senso di impotenza, solo la rabbia che doveva essere arginata. Come? Prendendo in mano il telecomando per cancellare modelli sbagliati e oscurare immagini troppo crude. Iniziò così la settimana della creatività, che dal '96 cerca di evitare la deriva di una televisione babysitter e che ogni mese di maggio trasforma i 1.200 bambini di Noceto da spettatori a protagonisti.

All'inizio il messaggio era esplicito: "Spegni la tv, accendi la fantasia". "La nostra è una battaglia pesantissima - spiega il parroco don Corrado Mazza - perché non vogliamo demonizzare un mezzo, ma solo evitare che rubi l'infanzia". "Negli anni abbiamo spostato l'accento - continua il sindaco Fabio Fecci - e oggi non invitiamo più direttamente a spegnere la televisione, ma promuoviamo un'alternativa". Corsi di teatro, laboratori di pittura, letture animate, giochi antichi, giornate dedicate allo sport, doposcuola della parrocchia, incontri con i genitori, cineforum, serate di riflessione, percorsi lunghi un anno per distogliere gli sguardi dal teleschermo, una miriade di attività coordinate che non tralasciano nulla, neppure il tragitto da casa a scuola. Qui, infatti, passa il piedibus, vigili urbani che accompagnano i bambini lungo le strade della città.

Nessuno si è sottratto al compito perché - è convinzione diffusa - gli influssi della televisione sui bambini sono chiarissimi: "Più chiacchierano senza dire niente - spiegano le insegnanti Enrica Alinovi e Gabriella Grisenti - più capiamo che sono stati troppo di fronte alla tv". Per questo, osserva il dirigente scolastico Paola Bernazzoli, da anni i bambini partecipano a laboratori in cui fanno gli attori, i costumisti, gli sceneggiatori, i registi, i musicisti... E il risultato viene portato in piazza proprio nella settimana della creatività.

Antonio Caffarra, il pediatra del paese, ha cresciuto insieme alla moglie Daniela, quattro figli senza televisione: "Per anni non l'abbiamo avuta e quando ci è stata regalata l'abbiamo lasciata spenta". Nel paese sono in molti a pensarla come lui, la creatività è diventata una strategia educativa condivisa. È servito tutto questo? I bambini a Noceto guardano la televisione meno che altrove? "E' difficile dirlo - conclude il sindaco Fabio Fecci - ma sicuramente sono meno soli". I più deboli, i più fragili, o semplicemente chi ha entrambi i genitori impegnati tutto il giorno, ha un'alternativa alla televisione come babysitter. "Proviamo a sottrarre il compito di educare alla televisione - conclude il parroco - ma anche se la battaglia continua a essere pesante, non ci arrendiamo, l'infanzia è tutto". Rappresenta il futuro, che non può essere dettato dal palinsesto televisivo.
di STEFANIA PARMEGGIANI

20 maggio 2009

Le trame e i segreti della corte imperiale





Le trame e i segreti della corte imperiale

Devo confessare che Scalfari non mi soddisfa come giornalista ma, quando vuole sa essere lucido e pungente. Un'analisi del momento politico in Italia anestetizzato dai media in modo imbarazzante. E gli altri? a razzolare nel cortile del Re Sole...






E' PASSATA poco più d'una settimana da quando la signora Veronica Lario in Berlusconi ha rotto il velo del "Mulino bianco" collocato tra le ville di Arcore e Macherio, scatenando una "tempesta perfetta" registrata con ampiezza dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. Viene in mente il "Truman Show", quel libro e quel film di grande successo che raccontarono qualche anno fa di un giovane scelto fin dalla nascita da una grande catena televisiva, protagonista a sua insaputa di un "reality" seguito da un immenso pubblico fino a quando la barriera che chiudeva lo spazio del "set" venne varcata e il giovane acquistò coscienza ed entrò finalmente nel mondo reale.

Qui è accaduto e sta accadendo qualche cosa di analogo con la differenza, certo non di poco conto, che il "reality" non è immaginario ma reale, è reale il protagonista che è il capo del governo ed è reale lo spazio in cui l'azione si svolge, i comprimari che lo circondano, i cortigiani, i ministri, il popolo. Tutto è tremendamente reale, eppure è nello stesso tempo immaginario, mediatico, politico. In Italia va dunque in scena un "Truman Show" e tutti noi ne siamo gli attori. Non so se riderne o disperarsene. Scegliete voi cari lettori.

Attorno a questa situazione a dir poco anomala si sono accese molte discussioni e sono emersi molti temi distinti uno dall'altro e tuttavia interdipendenti. Uno di questi riguarda il modo d'essere e per conseguenza il modo di vivere di Silvio Berlusconi.

Non è certo la prima volta che questo tema sale al centro dell'attenzione pubblica ma mai come in questo caso che ha mescolato la politica e il "corpo del re" al gossip più pruriginoso che coinvolge i rapporti tra il pubblico e il privato.

Il secondo tema riguarda il corpo delle donne, il rispetto che gli si deve e le offese che gli si recano nonché i modi con i quali lo si usa. "Mode d'emploi".

Il terzo tema riguarda la sensibilità (o l'insensibilità) dei cattolici, dei loro pastori, della Chiesa su questo complesso di questioni etiche e al tempo stesso politiche.

C'è poi il tema concernente gli effetti o i mancati effetti di queste vicende sulla pubblica opinione e sulle intenzioni di voto che ne derivano. Questa discussione mette anche in causa il ruolo dei "media", la loro oggettività e la loro faziosità.

I vari temi sono da tempo sotto esame da parte dei giornali e delle televisioni ma è nell'ultima settimana che la temperatura è salita e la tensione ha raggiunto il massimo.

Il pubblico è abbastanza frastornato e le posizioni si vanno rapidamente radicalizzando. Ma è anche vero che per la prima volta si è aperta una crepa nel muro fin qui compatto del consenso berlusconiano. La crepa è visibile ma è ancora presto per stabilirne la profondità. Se riguarda soltanto l'intonaco non avrà conseguenze sulla solidità dell'edificio. Oppure si estenderà intaccando le fondamenta, i muri maestri e il tetto. I sondaggi già effettuati a ridosso dei fatti non hanno ancora l'attendibilità necessaria per far capire la natura delle lesioni che quell'edificio ha subìto.

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Comincio con un'osservazione che riguarda i rapporti tra la sfera pubblica e quella privata. Sulla "Stampa" di mercoledì Barbara Spinelli ha approfondito questo tema ed ha scritto: "Sarebbe bello se gli uomini politici appendessero all'attaccapanni tutte le loro questioni private prima di entrare nell'agorà della politica" ed ha aggiunto: "Si vorrebbe non saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune, nulla delle sue notti o delle sue vacanze, nulla delle sue barche, delle sue tribù parentali, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La cosa pubblica sarebbe bello che fosse un piccolo lembo di terra dove l'umanità fa politica".

Cara Barbara, sarebbe bello? Una volta tanto non concordo con te, se non altro perché non è mai accaduto, neppure nella polis di Pericle, di Socrate, di Alcibiade. Non è mai accaduto nella storia antica e tanto meno in quella moderna. Soprattutto non è mai accaduto quando il potere raggiunge livelli di spinto autoritarismo o addirittura diventa potere assoluto.

In tempi di democrazia una sottile distanza tra pubblico e privato può sussistere, ma in regimi autoritari o assoluti quella tenda divisoria cade del tutto.

L'esempio più eloquente si ha guardando alla Francia del re Sole che dette il tono per 150 anni a tutte le corti d'Europa. Lo Stato era il re, proprietà e patrimonio del re, e così l'esercizio della giustizia e dell'amministrazione, la pace e la guerra. Nulla era privato nella vita del re, ogni suo gesto, ogni sua frequentazione, ogni suo attimo si svolgeva al cospetto del pubblico, a cominciare dal suo risveglio, delle sue funzioni corporali, del suo più intimo "nettoyage" cui era adibito un ciambellano di nobile famiglia che aveva il privilegio di "pulire il re".

Le amanti del re abitavano a corte e apparivano al braccio del sovrano senza alcuna mistificazione.

In tempi moderni qualche ipocrisia in più ha attenuato queste esibizioni ma non molto. Mussolini si esibiva a dorso nudo tra i contadini e i muratori, ma nascondeva Claretta nonostante si vivesse in tempi di potere assoluto. Voglio qui ricordare la battuta recente di Alessandra sua nipote: a chi gli domandava quali fossero le differenze tra suo nonno e Berlusconi in tema di frequentazioni femminili, ha risposto: "Mio nonno non ha mai fatto ministro la Petacci". In effetti la differenza è notevole, anzi è una delle materie del contendere e la si trova esplicitamente indicata nella dichiarazione all'agenzia Ansa di Veronica Lario.

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Nella trasmissione di Bruno Vespa dedicata a Berlusconi e alla sua rottura con la moglie il titolo che campeggiava sul telone di fondo era: "Oggi parlo io". Infatti così è stato per oltre due ore, ha parlato soltanto lui anche se, oltre al conduttore come sempre abilissimo, c'erano tre "figuranti" nelle persone del direttore del "Corriere della Sera", del direttore del "Messaggero" e dell'estroso Sansonetti, già direttore di "Liberazione".

Sono amico di Ferruccio De Bortoli e ho stima di lui sicché uso con disagio la parola "figurante" ma non ne trovo altre più appropriate. La loquela berlusconiana ha letteralmente sommerso i tre colleghi. Il direttore del "Corriere" ha avuto soltanto la possibilità di raccomandare al premier maggior sobrietà nell'esercizio delle sue pubbliche funzioni, ma si è preso un rimbrotto immediato perché il Protagonista ha rivendicato il suo modo d'essere come un irrinunciabile esempio di democrazia popolare. Lui è fatto così e va preso così, dicono i suoi amici e ricordano la canzone da lui preferita nel suo repertorio canoro: "Je suis comme je suis" di Juliette Gréco, che lui canta spesso con molta grazia.

Per il resto i tre colleghi hanno ascoltato silenti il suo lunghissimo monologo. Forse sarebbe stato meglio se avessero rinunciato ad una presenza alquanto umiliante.

E' andato così in scena un processo in contumacia contro la moglie Veronica di fronte a quattro milioni di spettatori. Lui ha negato tutti gli addebiti come a suo tempo fece Bill Clinton, fino a quando dovette smentirsi platealmente per evitare l'"impeachment".

Clinton aveva cominciato col negare qualsiasi rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca e continuò imperterrito a ripetere questa sua verità pur di fronte all'immenso clamore dei "media" di tutto il mondo. Il tambureggiamento dei giornali e delle televisioni durò a lungo; Clinton dovette ripetere le sue affermazioni di innocenza davanti ad un Grand Jury fino a quando Monica Lewinsky confidò la sua verità ad un'amica che vuotò il sacco con la stampa. A quel punto l'ipotesi d'un impeachment per aver mentito al congresso diventò incombente e Clinton confessò per evitare un giudizio che si sarebbe probabilmente risolto con la sua infamante rimozione dalla carica.

Confrontare le normative italiane in proposito con quelle americane sarebbe umiliante. Aggiungo soltanto che nella sua lettera all'Ansa la signora Berlusconi-Lario denuncia il clima di omertà che circonda e protegge le malefatte dell'"imperatore". Ne abbiamo avuto una prova eloquente durante la trasmissione di Santoro con la prestazione dell'avvocato e deputato Niccolò Ghedini. Non avevo mai visto un avvocato difensore comportarsi non come un professionista libero anche se impegnato a proteggere gli interessi del suo cliente, ma come un servitore addestrato a picchiare mettendosi sotto i piedi la logica oltre che la verità.

Il vero spettacolo di quella trasmissione è stato lui, Niccolò Ghedini; nella sua doppia qualifica di avvocato di un solo cliente e di rappresentante del popolo e legislatore molto si è detto e scritto ma non abbastanza. E' perfino peggio di Previti che nelle sue malefatte ostentava almeno una sua grandezza. Il suo più giovane collega sembra piuttosto un pretoriano, perfettamente appropriato all'aria di basso impero che circola con tutte le sue flatulenze nei palazzi del potere.

* * *

Un'altra osservazione che bisogna fare riguarda la ricattabilità: Berlusconi è una persona ricattabile perché nega alcune circostanze che sembrano evidenti e che sono a conoscenza diretta di altre persone. Queste persone sono state e saranno colmate di benefici, ma dei loro servizi egli non può disfarsi quand'anche lo volesse poiché sono al corrente di segreti piccoli o grandi che potrebbero offuscare o addirittura interrompere i suoi successi e il suo potere.

Spesso è accaduto che tra queste persone si verificassero contrasti e che la loro riservatezza fosse dunque a rischio. Finora il leader è riuscito a mediare, a conciliare, a tacitare, ma il rischio è ricorrente e spiega anche alcune vicende altrimenti incomprensibili.

Una di esse, la più recente, è l'amicizia tra il premier e Elio Letizia, padre di Noemi. Non si sa come sia nata quell'amicizia né quando, una spessa coltre di reticenza ne copre l'origine e la natura alla stregua di un vero e proprio segreto di Stato. Basta leggere o ascoltare le interviste del signor Letizia - personaggio con non lievi trascorsi penali - per rendersi conto di reticenze a dir poco inquietanti.

La stampa ha tra gli altri suoi compiti quello di controllare il potere e cercare la verità bucando il velo della reticenza. E' dunque comprensibile anche se abominevole che la stampa sia una delle principali preoccupazioni di chi detiene il potere. Preoccupazioni "pelose" che si esercitano sulle proprietà dei giornali, sui direttori, sui giornalisti con compiti di rilievo. Gli editti di persecuzione contro giornalisti scomodi servono a metterli fuorigioco, i premi servono invece a favorirne la conversione.

Sarebbe impietoso farne l'elenco ed anche non necessario: basta infatti seguirne i percorsi e le carriere determinate dal Palazzo e gli effetti "deontologici" che ne derivano per averne contezza.

* * *

Questa fitta rete di premi, benefici, ricatti potenziali, lotte di potere, è stata messa in crisi da una donna, da una moglie, dalla sua denuncia pubblica, dall'assunzione di un rischio altissimo e personale.

La denuncia riguarda vizi pubblici e vizi privati che tuttavia costituiscono, come già detto, un contesto unico e non scindibile. Tutta la discussione sulle cosiddette veline assume, nelle parole di Veronica Lario, un significato preciso: la selezione distorta della classe dirigente, ormai interamente rimessa alle scelte capricciose dell'"imperatore".

Lo scandalo non proviene dal reclutamento privilegiato nel mondo dello spettacolo né dall'età né dal sesso delle prescelte, ma dalla preparazione politica sulla quale purtroppo circolano idee improprie.

La politica come tutti la vorremmo ha come premessa una adeguata formazione culturale coltivata in famiglia, a scuola e con letture che contribuiscano a svegliare la fantasia e a far crescere coscienza, carattere e senso di responsabilità.

I giovani che acquisiscono questa preparazione culturale sentono talvolta dentro di loro una vocazione politica, il desiderio di occuparsi del bene comune e di rappresentare interessi legittimi e valori congeniali al loro modo di essere e di pensare. Il seguito è affidato alla capacità individuale, agli incontri, ai punti di riferimento che la società esprime e alla competitività individuale.

Questo è il solo modo adatto a selezionare i talenti politici. Va detto purtroppo che è caduto in disuso in un'epoca di portaborse e di "yes-men".

* * *

Resta da parlare dei cattolici, della Chiesa e delle reazioni che questa vicenda ha suscitato. Se fosse ancora tra noi Pietro Scoppola intervenire su questo tema gli spetterebbe di diritto: si tratta di etica, un valore che coinvolge in modi diversi ma egualmente intensi sia il pensiero laico sia il mondo cattolico, con in più per quest'ultimo che l'etica è strettamente intrecciata al sentimento religioso e quindi impedisce il cinismo dell'indifferenza o almeno così dovrebbe.

Per quel che emerge da alcuni segnali il mondo cattolico, o per esser più precisi il laicato cattolico, vive con molto disagio il paganesimo berlusconiano abbinato ad una "devozione" di natura commerciale agli interessi della Chiesa. Proprio perché questo disagio è forte ed esercita una pressione intensa nelle Comunità e negli Oratori, la Conferenza episcopale l'ha assunto come proprio e il suo giornale, l'"Avvenire", ne ha dato conto.

Le reazioni della Santa Sede, manifestate tre giorni fa dal Segretario di Stato vaticano al plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta, sono state invece di ben diversa natura. Si è raccomandata prudenza, maggior riserbo, abbassamento dei toni, offrendo in contropartita il silenzio della Santa Sede su quanto è accaduto. Il tema del possibile divorzio riguarderebbe un matrimonio civile e quindi non interessa la Chiesa. Semmai e paradossalmente quel divorzio sanerebbe lo strappo del primo divorzio, invalido per il diritto canonico poiché scioglieva un matrimonio celebrato religiosamente.

Un paradosso che riduce l'etica cattolica ad una ripugnante casistica, spiegata e condivisa da Francesco Cossiga che si era recato a solidarizzare col premier e poi, interrogato dai giornalisti, ha così risposto: "Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine. Sant'Ambrogio disse non a caso "Ecclesia casta et meretrix"".

Se è per questo, Dante disse assai di peggio. Era ghibellino e non si faceva certo intimidire.


di EUGENIO SCALFARI


19 maggio 2009

La civiltà della differenza

Vecchie o nuove, di natura etnica, linguistica, religiosa, sessuale o altro, le comunità sono le dimensioni naturali dell’appartenenza. Foss’anche per staccarsene, nessuno può esistere senza. Poiché la ragione pratica s’esercita inevitabilmente in un contesto, l’io è sempre incorporato in una storia ed essa non si riconduce mai a uno statu quo, tanto meno al passato. Beninteso, nessuno è tenuto (né dev’esserlo) ad appartenere a una comunità. Si può entrarvi, si deve poterne uscire ed eventualmente tornarvi. L’esperienza storica mostra che l’appartenenza a una comunità è legittimamente vista come positiva da molti (pone a contatto con coloro nei quali ci si riconosce) e legittimamente vista come negativa da altri. Ai giorni nostri, in un’epoca nella quale lo Stato sociale pare in crisi irreversibile, la dimensione d’appartenenza è anche, in molti casi, un potente fattore d’aiuto reciproco e solidarietà. In un’ottica giacobina, come quella francese, la dimensione d’appartenenza esclude altre dimensioni d’appartenenza (l’ossessione della «doppia lealtà»). In un’ottica non giacobina, compito del politico è articolare insieme più dimensioni d’appartenenza.

L’ascesa delle comunità coincide con l’esaurimento dello Stato-nazione, che nel periodo posteriore alla pace di Westfalia è stato la forma politica privilegiata della modernità. Non è un caso: l’emergere della postmodernità va di pari passo con la paralisi progressiva del modello dello Stato nazionale e la ricomparsa di forme politiche che lo superano (blocchi continentali dal ruolo-chiave nel mondo multipolare) o lo erodono (rivendicazioni localiste, moltiplicazione delle «comunità» e delle «tribù» per l’esplosione delle identità per effetto della secolarizzazione, rinascita dei radicamenti regionali e frontalieri-transnazionali). La modernità ha fatto dimenticare che la storia ha avuto e avrà altre forme politiche rispetto allo Stato-nazione. In un passato non remoto, la grande forma rivale dello Stato-nazione è stato l’Impero, i cui più antichi teorici furono Marsilio da Padova, Dante e Nicolò Cusano. Caratteristica dell’Impero, che non è una nazione più grande delle altre, è articolare le differenze. La sovranità vi è ripartita, le particolarità etniche e culturali, religiose e di costumi vi sono giuridicamente riconosciute, se non sono contrarie alla legge comune. La regola è applicare il principio di sussidiarietà. Oggi vari suoi principi si ritrovano nell’idea federalista, l’unica a conciliare la necessità dell’unità di comando al vertice col rispetto della diversità a ogni livello, a partire dalla base.

Nella tradizione dell’Impero, nazionalità non è sinonimo di cittadinanza. I concetti sono diversi: il popolo politico (demos) non si confonde col popolo etnico (ethnos), ma l’uno non ostacola l’altro. Invece sono indistinguibili nell’ottica giacobina. Si nota oggi che i «repubblicani» appiattiscono la nazionalità sulla cittadinanza, mentre i razzisti appiattiscono la cittadinanza sulla nazionalità. Gli uni e gli altri si congiungono in uno stesso ideale d’indistinzione.

Al vivere insieme di chi abita lo stesso Paese occorre una legge comune, s’è detto. Un punto su cui non si può transigere: è nella natura stessa del multiplo esigere un principio unitario, senza il quale si finisce nella spirale infinita delle rivendicazioni dei «diritti», equivalente alla «tirannia delle minoranze» paventata da Tocqueville. Ma la legge comune deve tener conto delle particolarità, esaminare le rivendicazioni legate a consuetudini, ammettere quelle che non minacciano l’ordine pubblico e prevedere le disposizioni necessarie perché possano esistere. Ma al di là della legge comune non c’è da farsi illusioni: solo un grande progetto può nutrire la volontà di vivere insieme e darsi un destino. L’epoca attuale, che privilegia gli interessi sui valori, sembra ormai lontanissima dai grandi progetti collettivi. Le rivendicazioni sociali sono sempre più parcellizzate e pare trionfare l’individualismo dei comportamenti. Ma, giunta al compimento, ogni tendenza si capovolge bruscamente. Domanda fondamentale: a quale grande progetto potrebbero associarsi le comunità?

Un Paese non trova coesione annientando le coesioni particolari. La natura sociale dell’uomo può esser pensata solo a partire dalle comunità che formano il tessuto della società. Solo così, forse, si potrà civilizzare la differenza.
di Alain de Benoist

18 maggio 2009

Nel paese che ha spento la tv "Così salviamo i nostri bambini"

rocca-di-noceto
Lo decisero 13 anni fa. Quasi un passa parola, famiglia dopo famiglia, casa dopo casa. E così una sera, in quel borgo alle porte di Parma, improvvisamente tutti spensero la Tv. Centinaia, migliaia di televisori oscurati, muti, quasi partecipi dell'immenso dolore di una comunità.

Un gesto di rabbia, una rivolta civile contro le trasmissioni che mandavano in onda di tutto senza curarsi delle conseguenze. Che a Noceto furono imprevedibili e drammatiche. David, un bambino di 12 anni, dopo avere visto l'esecuzione di una sentenza capitale aveva deciso di imitare la scena per gioco. Morì impiccandosi. Non c'erano parole, nessuna spiegazione che alleviasse il senso di impotenza, solo la rabbia che doveva essere arginata. Come? Prendendo in mano il telecomando per cancellare modelli sbagliati e oscurare immagini troppo crude. Iniziò così la settimana della creatività, che dal '96 cerca di evitare la deriva di una televisione babysitter e che ogni mese di maggio trasforma i 1.200 bambini di Noceto da spettatori a protagonisti.

All'inizio il messaggio era esplicito: "Spegni la tv, accendi la fantasia". "La nostra è una battaglia pesantissima - spiega il parroco don Corrado Mazza - perché non vogliamo demonizzare un mezzo, ma solo evitare che rubi l'infanzia". "Negli anni abbiamo spostato l'accento - continua il sindaco Fabio Fecci - e oggi non invitiamo più direttamente a spegnere la televisione, ma promuoviamo un'alternativa". Corsi di teatro, laboratori di pittura, letture animate, giochi antichi, giornate dedicate allo sport, doposcuola della parrocchia, incontri con i genitori, cineforum, serate di riflessione, percorsi lunghi un anno per distogliere gli sguardi dal teleschermo, una miriade di attività coordinate che non tralasciano nulla, neppure il tragitto da casa a scuola. Qui, infatti, passa il piedibus, vigili urbani che accompagnano i bambini lungo le strade della città.

Nessuno si è sottratto al compito perché - è convinzione diffusa - gli influssi della televisione sui bambini sono chiarissimi: "Più chiacchierano senza dire niente - spiegano le insegnanti Enrica Alinovi e Gabriella Grisenti - più capiamo che sono stati troppo di fronte alla tv". Per questo, osserva il dirigente scolastico Paola Bernazzoli, da anni i bambini partecipano a laboratori in cui fanno gli attori, i costumisti, gli sceneggiatori, i registi, i musicisti... E il risultato viene portato in piazza proprio nella settimana della creatività.

Antonio Caffarra, il pediatra del paese, ha cresciuto insieme alla moglie Daniela, quattro figli senza televisione: "Per anni non l'abbiamo avuta e quando ci è stata regalata l'abbiamo lasciata spenta". Nel paese sono in molti a pensarla come lui, la creatività è diventata una strategia educativa condivisa. È servito tutto questo? I bambini a Noceto guardano la televisione meno che altrove? "E' difficile dirlo - conclude il sindaco Fabio Fecci - ma sicuramente sono meno soli". I più deboli, i più fragili, o semplicemente chi ha entrambi i genitori impegnati tutto il giorno, ha un'alternativa alla televisione come babysitter. "Proviamo a sottrarre il compito di educare alla televisione - conclude il parroco - ma anche se la battaglia continua a essere pesante, non ci arrendiamo, l'infanzia è tutto". Rappresenta il futuro, che non può essere dettato dal palinsesto televisivo.
di STEFANIA PARMEGGIANI