15 settembre 2009

Il Club Bilderberg: i veri controllori del mondo

daniel estulin
Daniel Estulin vive in Spagna ed è un prestigioso giornalista investigativo
Alcuni la ritengono un’invenzione, un’esagerazione dettata dalla paranoia, altri una struttura legittima e per certi versi necessaria, altri ancora – pochi, purtroppo – la conoscono da tempo e in qualche modo cercano di combatterla o per lo meno di non piegarsi a essa. La stragrande maggioranza della gente tuttavia – e questa è proprio la sua forza maggiore – non ha la minima idea di cosa si stia parlando. Questa idea ce la possiamo fare grazie all’ultimo, imponente lavoro del giornalista investigativo Daniel Estulin e l’oggetto misterioso a cui si fa allusione nelle prime righe di questo articolo è proprio il famigerato gruppo Bilderberg, protagonista del libro dell’autore spagnolo Il Club Bilderberg – La storia segreta dei padroni del mondo .

Questa storia ha inizio in un luogo e una data precisi, il 29 maggio del 1954 a Oosterbeek, una piccola cittadina dei Paesi Bassi, presso l’Hotel Bilderberg. Lì, su iniziativa del principe olandese Bernhard, si riunirono le maggiori personalità del mondo politico, di quello economico, industriale e militare, ponendo le basi per la creazione di una sorta di conferenza, o se volete di società segreta, che da quel momento ogni anno, per un fine settimana, si sarebbe riunita in un paesino del mondo occidentale per confrontarsi sulle problematiche del pianeta e studiare delle soluzioni a esse da attuare attraverso gli strumenti a propria disposizione, a ben vedere sostanzialmente illimitati dato che si trattava di presidenti, governatori, potenti industriali, affermati giornalisti e personalità di elevatissimo calibro.

Se vogliamo essere meno diplomatici e più schietti, possiamo dire che dal 1954 un gruppo di persone estremamente influenti prende tutte le decisioni più importanti che riguardano il destino di tutti noi e lo fa lontano da occhi indiscreti e, soprattutto, dal controllo popolare.

Già, perché i meeting del Bilderberg hanno caratteristiche molto particolari: si tengono generalmente in piccole cittadine, dove l’opinione pubblica e l’informazione non sono massicciamente presenti (nel 2004 la riunione ha avuto luogo a Stresa, un piccolo comune sul Lago Maggiore). L’accesso è rigorosamente a invito, il quale avviene secondo criteri che prendono in considerazione l’influenza della posizione dell’ospite e il grado di controllo che egli ha su determinati settori chiave.

clinton
Il gruppo include praticamente tutti i dirigenti delle istituzioni, delle aziende e delle organizzazioni più importanti del mondo
I partecipanti hanno il divieto assoluto di rilasciare dichiarazioni ai giornali, così come è tassativamente vietato ai giornalisti anche solo avvicinarsi al luogo di svolgimento della manifestazione, pena l’arresto (lo stesso Estulin è stato arrestato diverse volte nel corso delle sue indagini sul campo); ovviamente fanno eccezione i giornalisti regolarmente invitati, come lo era Katherine Graham, direttrice del Washington Post, e come lo fu Fehru Koru, un giornalista turco propugnatore di posizioni aspramente critiche nei confronti del Bilderberg che cambiò magicamente idea dopo essere stato invitato all’edizione del 2006.

Segretezza è dunque una delle parole chiave del Gruppo Bilderberg. Un’altra è sicuramente controllo; come detto, uno dei requisiti fondamentali per essere invitati è quello di occupare una posizione di prestigio e potere, che permetta appunto di controllare i punti nodali di determinati settori.

Grazie a questo criterio, il Bilderberg ha sviluppato una rete formata da molte componenti: una di esse è per esempio la RCA, Radio Corporations of America, colosso dell’informazione che comprende NBC, CBS e ABC, mentre il suo omologo dal punto di vista politico-militare è la NATO, uno dei bracci armati della struttura.

Più in generale, il gruppo include praticamente tutti i dirigenti delle istituzioni, delle aziende e delle organizzazioni più importanti del mondo: ne fanno infatti parte Romano prodi, ex Primo Ministro italiano, Bill Clinton, ex Presidente americano, Jean-Claude Trichet, governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, Peter Sutherland, presidente della British Petroleum, Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, la Regina Beatrice d’Olanda, tanto per citarne alcuni, ma la lista include centinaia di nomi. Ognuno di essi ricopre un ruolo di assoluto controllo del suo settore di competenza e appare chiaro che una rete che mette in sinergia queste personalità può controllare con facilità il mondo intero.

Fra i membri del Bilderberg ve ne sono alcuni che hanno alle spalle una militanza decennale e che hanno acquisito notevole potere all’interno della stessa organizzazione, tanto da essere considerati come organizzatori e gestori dei meeting. Uno di essi è certamente il rappresentante della corona olandese, solitamente indicato come il chairman, il padrone di casa.

kissinger
All'interno del gruppo è di assoluta preminenza la posizione di Henry Kissinger
Di assoluta preminenza è poi la posizione di Henry Kissinger, che nella sua vita ha fatto praticamente di tutto, occupando sempre posizioni di potere; potere che è cresciuto sempre più – paradossalmente – dopo il suo ritiro dalla vita politica e pubblica in generale. Un altro pezzo grosso del Bilderberg è David Rockfeller, ultimo discendente di John e rappresentante di una famiglia che da sempre, mascherandosi dietro organizzazioni umanitarie e iniziative benefiche, ha perseguito l’ambizioso intento di instaurare il cosiddetto nuovo ordine mondiale.

Altri membri importanti e influenti del Bilderberg sono Zbigniew Brzezinski, Vernon Jordan, Cyrus Vance e altre personalità che ciclicamente vengono impiegate nei posti chiave delle amministrazioni politiche americane e internazionali, indipendentemente dal loro schieramento


Il Bilderberg può inoltre contare su altre organizzazioni parallele che cooperano con esso per la realizzazione dei suoi intenti. Una di queste è il CFR, Council on Foreign Relations, creato nel 1921 su iniziativa di Edward House, potente e influente consigliere del presidente Wilson (già avvezzo a questo tipo di iniziative, come testimonia la sua idea della Lega delle Nazioni), e massicciamente finanziato guarda caso dalla Fondazione Rockfeller. Inizialmente il CFR fu concepito come distaccamento americano della Tavola Rotonda Mondiale, ma sin da subito i suoi intenti erano chiari: «creare un governo unico mondiale, basato su un sistema finanziario centralizzato, caratterizzato da un particolare mix di capitalismo e socialismo, di opportunismo e di idealismo».

Inutile dirlo, tutti i più importanti protagonisti della recente storia politica americana – da Colin Powell a Madaleine Albright, da Condoleezza Rice a Donald Rumsfeld, da Dick Cheney a Richard Perle, ma non Gorge W. Bush – fanno parte del CFR. Così come facevano parte del CFR Bill Clinton, personaggio secondario nella scena politica statunitense fino al momento della sua elezione, e John Kerry, sfidante di Bush alle elezioni presidenziali del 2004 (della serie: proponendo un proprio candidato e appoggiando comunque quell’altro è impossibile perdere).

Un’altra organizzazione analoga, che si differenzia dal CFR per essere internazionale e non riservata agli americani, è la Trilateral Commission. La Trilateral è stata fondata e finanziata, ancora una volta, da David Rockfeller, che ebbe l’idea e la propose al meeting del Bilderberg del 1972, in Belgio. Pur privilegiando il settore della finanza e del commercio, l’obiettivo della Trilateral è sempre lo stesso: creare un governo unico mondiale.

il club bilderberg

La storia raccontata da Estulin ha inizio in un luogo e una data precisi, il 29 maggio del 1954 a Oosterbeek, una piccola cittadina dei Paesi Bassi, presso l’Hotel Bilderberg
Questo è dunque un breve schizzo dell’ampio e articolato quadro che Estulin delinea nel suo libro. Con particolare perizia, il giornalista spagnolo evita il qualunquismo che caratterizza spesso gli autori che affrontano queste tematiche e che inevitabilmente frutta loro le etichette di complottisti, paranoici e visionari. Il Club Bilderberg è infatti dotato di un’ampia ed esauriente appendice che propone fotografie, stralci di documenti, liste di partecipanti, verbali e resoconti riguardanti i meeting del Bilderberg che si sono tenuti dal 1954 a oggi.

Il reperimento di questo interessantissimo materiale è stato possibile grazie a una fitta rete di contatti che Estulin ha sapientemente intessuto, coinvolgendo funzionari, giornalisti, addetti ai lavori, fino ad agenti segreti e membri dei servizi di vari paesi. Interessanti e attuali – ma anche assai inquietanti – sono poi i collegamenti che vengono evidenziati fra importanti avvenimenti della seconda parte del ventesimo secolo e l’azione segreta del gruppo Bilderberg: il Piano Marshall, l’uccisione di Aldo Moro, il Watergate, il caso Iran-Contra, la guerra in Afghanistan e tanti altri episodi – incluso un presunto e clamoroso piano di annessione del Canada agli Stati Uniti – determinanti appartenenti alla recente storia mondiale vedono lo zampino dei propugnatori del nuovo ordine mondiale.

Estulin colpisce quindi questa organizzazione proprio dove fa più male: la priva della segretezza, della discrezione e dell’ombra di cui si è sempre servita e di cui necessita per attuare i suoi piani. La prova di ciò ce la fornisce lo stesso autore con la frase che fa da intestazione a Il Club Bilderberg: «Nel 1996 cercarono di uccidermi, nel 1998 di sequestrarmi, nel 1999 di corrompermi, nel 2000 di arrestarmi e l’anno dopo mi offrirono un assegno in bianco se avessi taciuto una volta per tutte». Per nostra fortuna, quell’assegno Estulin non lo accettò mai.

di Francesco Bevilacqua

14 settembre 2009

Mussolini doveva morire perché una intera classe dirigente potesse autoassolversi


La filosofia di fondo delle Brigate Rosse e, in generale, del terrorismo di sinistra degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, partiva dal presupposto che la Resistenza fosse stata tradita; che i soliti, avvolgenti «poteri forti» (Chiesa, finanza, grande industria, alta burocrazia, esercito) avessero trovato il modo di affossarla, subdolamente e silenziosamente; che, dopo il 1945, fosse stata vanificata una occasione unica, non solo di avviare una profonda riforma sociale, ma anche una vera e propria rinascita morale della nazione.
Questa filosofia, anche se non sembra, era figlia della teoria crociana e liberale sulla genesi del fascismo come «malattia temporanea» del Paese, malattia che avrebbe colpito un corpo sostanzialmente sano. Pietosa menzogna: perché l'Italia, nel 1919, era tutt'altro che un Paese sano, una democrazia compiuta; e, se il fascismo andò al potere con il consenso della monarchia e delle classi dirigenti, qualche motivo ci sarà pure stato; come ci sarà stato se, ancora nel 1924, dopo il delitto Matteotti, molti liberali - Croce compreso - consigliavano gli Italiani di fidarsi del fascismo e di scommettere sulla sua capacità di rientrare nella piena legalità, portando il Paese fuori dalla crisi del dopoguerra.
Ma come e perché è nata la leggenda del fascismo come malattia dolorosa, ma passeggera; chi aveva interesse a diffonderla, chi a divulgare il mito dell'Italia tradita, come recita il titolo di un famoso saggio di Ruggero Zangrandi (uno che di salti mortali se ne intendeva, essendo passato da una giovinezza da intellettuale fascista, ad una maturità da acerrimo e intransigente paladino della Vulgata storiografica antifascista)?
È nata perché la classe dirigente italiana potesse autoassolversi dalle proprie responsabilità; e, con essa, l'intero popolo italiano, che, nella stragrande maggioranza, aveva accettato il fascismo e, ad un certo punto - diciamo con la conquista dell'Impero, nel 1936 - lo aveva entusiasticamente appoggiato.
La verità è che, se Mussolini non avesse fatto la scelta sbagliata nel giugno del 1940, nessuno gli avrebbe presentato il conto della sua ventennale dittatura: sul piatto della bilancia, i meriti del suo regime - legislazione sociale, riassestamento dell'economia, aumento dell'occupazione e dell'industria, bonifica delle paludi, successi in politica estera - avrebbero finito per far scomparire tutte le ombre e per consegnarlo alla storia come il più abile e fortunato capo di governo dell'Italia, dalla morte di Cavour in poi.
Una volta messo bene a fuoco questo punto, si arriva anche a comprendere le ragioni per cui Mussolini venne ucciso in maniera così frettolosa e, per molti aspetti, così misteriosa; perché lo si volle sottrarre, ad ogni costo, ad un pubblico processo, sul tipo di quelli che la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja ha riservato ai dirigenti serbo-bosniaci, e poi anche a quelli serbi (Milosveic), dopo la fine della guerra civile nella ex Jugoslavia.
Mussolini doveva morire perché, se fosse stato sottoposto ad un pubblico processo, l'intera classe dirigente italiana, anzi, l'intero popolo italiano, sarebbero stati chiamati in causa per il lungo e caloroso sostegno accordato al suo regime. Ciò avrebbe inferto un colpo irreparabile alla teoria del fascismo come malattia temporanea in un corpo sociale sostanzialmente sano, cara alla Vulgata antifascista; e avrebbe posto ciascuno, compreso l'uomo della strada, davanti alle proprie responsabilità.
Invece, con il colpo di stato del 25 luglio e con l'obbrobrioso armistizio dell'8 settembre 1943, classi dirigenti e popolo italiano vollero passare un colpo di spugna sulle proprie responsabilità e fabbricarsi una verginità democratica nuova di zecca.
Tutti: i liberali, che nel primo dopoguerra non avevano saputo o voluto fare nulla per allargare la propria base di consenso, coinvolgendo le masse nella vita dello Stato; i socialisti, che avevano carezzato velleitari progetti di rivoluzione, senza mai pensare seriamente a farla; i cattolici, che avevano creduto di poter fare parte per se stessi, coltivando solo l'orticello dei loro interessi particolari; i comunisti, che sognavano di replicare il colpo dei bolscevichi russi e di instaurare una dittatura, al cui confronto quella fascista sarebbe impallidita: tutti costoro avevano i propri ingombranti scheletri nell'armadio, e non desideravano altro che di far sparire le tracce di ciò che avevano fatto per spingere la democrazia italiana nel vicoli cieco del 1919-22.
Allora sorse la leggenda dell'Italia tradita: l'Italia non aveva voluto il fascismo, lo aveva subito; i fascisti erano dei Marziani sbarcati dalle loro astronavi e, al servizio degli industriali e degli agrari, avevano messo la museruola alle masse lavoratrici, ormai sul punto di realizzare chissà qual magnifiche sorti e progressive; ma poi era giunta la Resistenza, che, restituendo dignità al popolo italiano, aveva tenuto a battesimo la rinascita della democrazia.
Già, l'Italia tradita. Ma tradita da chi? Dagli altri, sempre dagli altri: da Mussolini, dai fascisti, da Hitler e, magari, anche dal Mikado; insomma, da quelli che la Vulgata storica antifascista ha inequivocabilmente schedato fra i cattivi (mentre Churchill, Roosevelt e perfino Stalin erano i buoni). Così è anche oggi: di qualunque problema sociale e morale si parli: dalla mafia alla 'ndrangheta, dall'evasione fiscale alla corruzione, dalla speculazione edilizia al malcostume dilagante di politici e pubblici amministratori, i responsabili di ogni stortura e di ogni crimine sono sempre gli altri.
Una cosa appariva chiara: se l'Italia, nel 1943, era stata tradita, allora essa, nel suo complesso, era pura e innocente: era vittima, non colpevole. I traditori erano coloro che avevano trascinato l'Italia in guerra; e, più tardi, coloro che, manovrando nell'ombra, vanificarono la preziosa occasione di rinnovamento morale portata dal «vento del Nord»: una esigua minoranza, comunque. La classe dirigente, nel suo complesso, non era messa in discussione; né, meno ancora, lo era il popolo italiano: l'una e l'altro erano stati traditi da pochi ribaldi, senza loro colpa.
Sì: più tardi - nei due, tre decenni successivi - i poteri forti avevano ripreso a tramare come prima, instaurando un fascismo larvato e mascherato, sempre allo scopo di garantirsi i loro sporchi affari; ma, di nuovo, il popolo era stato ingannato e defraudato dei frutti della Resistenza; e anche la classe dirigente, tutto sommato, era stata vittima di un tradimento: specialmente i quadri del partito socialista e di quello comunista, che erano stati raggirati dalla perfidia democristiana e dalle oscure manovre del Vaticano e degli Stati Uniti.
L'ideologia dell'antifascismo permanente, come strumento per mantenere in piedi una surrettizia divisione degli Italiani in buoni e cattivi, con la ferma e feroce volontà di includere se stessi fra i primi e nell'avocare a sé tutti i vantaggi derivanti dallo status morale di essere i vincitori della seconda guerra mondiale (?) e della guerra civile del 1943-45.
Uno dei più lucidi interpreti di questo processo, è stato l'ambasciatore e politologo Sergio Romano, che ha levato una delle poche voci libere e dignitose nel coro servile dei conformisti e dei menestrelli di regime.
Ha scritto, dunque, Sergio Romano, nel suo saggio «Le Italie parallele. Perché l'Italia non riesce a diventare un paese moderno» (Milano, TEA, 1996, pp. Se le tracce d'arsenico rinvenute nei capelli di Napoleone rilanciano periodicamente la tesi dell'avvelenamento, è facile prevedere che della fucilazione di Mussolini le cronache si occuperanno per molto tempo.
Ma l'aspetto più importante della vicenda è perfettamente chiaro. Possono esservi dubbi sul modo in cui il capo del fascismo fu ucciso, ma non può esservene alcuno sulle ragioni della sua morte. Fu ucciso perché il suo processo, se egli fosse rimasto in vita, si sarebbe inevitabilmente trasformato in un processo al fascismo. il nome dei ministri liberal-democatici che parteciparono al suo primo governo, il risultato delle elezioni del 1924, il voto di fiducia al Senato dopo l'assassinio di Matteotti, il velleitarismo degli aventiniani, il "plebiscito" del 1929,, i meriti sociali del regime, , l'ammirazione internazionale per le sue realizzazioni, lo straordinario consenso dopo la guerra d'Etiopia, l'atto di omaggio che egli aveva ricevuto da molti vecchi antifascisti dopo la conquista dell'impero. Molte delle sue affermazioni sarebbero state contestabili, ma il risultato del processo sarebbe stato pur sempre un grande dibattito nazionale sul fascismo e sulle sue responsabilità storiche.
I partiti del Comitato di liberazione nazionale, e in particolare il partito comunista, vollero evitarlo. L'Italia, in tal modo, esce dal fascismo e rientra in democrazia senza chiedersi perché è stata fascista. Sulla realtà censurata e rimossa prevale da allora nella vita politica italiana una versione ortodossa: il fascismo è "un regime reazionario di massa" imposto con un violento "colpo di coda" dagli ambienti più retrivi del paese in un momento in cui, cessati ormai i torbidi dell'immediato dopoguerra, esistevano le condizioni per il ripristino della normalità. Alla definizione di questa ortodossia concorse una sorta di patto tacito fra l'antifascismo militante, da poco rientrato in patria, e la grande maggioranza degli italiani.
La democrazia restaurata aveva bisogno dei veri e propri eroi e ogni partito era fortemente interessato alla ricostruzione della propria dinastia.
Furono dimenticati i duri articoli di Gramsci nell'"Ordine Nuovo" contro i socialisti riformisti e furono taciuti i contrasti che avevano diviso i comunisti italiani, persino in carcere, tra la fine degli anni 20 e l'inizio degli anni '30. Furono dimenticati l'imbelle riformismo di Turati, il massimalismo declamatorio di Serrati, il velleitarismo degli aventiniani, il narcisismo intellettuale di Nitti. La verità canonica voleva che le libertà degli italiani fossero state violate da una sorta di complotto fra la monarchia, i gradi industriali, gli agrari e alcune squadre di teppisti o avventurieri con la complicità della burocrazia e delle forze armate.
Tale versione conveniva alla grande maggioranza degli italiani. L'uomo della strada poteva sostenere che egli era stato spettatore passivo di un regime in cui non aveva creduto. I burocrati e i professori, che si erano iscritti al partito per esigenze di vita. I generali, che non avevano alcuna responsabilità nell'impreparazione delle forze armate allo scoppio del conflitto. La prima conseguenza del patto tacito che gli antifascisti militanti strinsero con la grande maggioranza dei loro connazionali fu la rinuncia all'epurazione. Il tentativo di ripulire l'Italia dalle sue scorie fasciste durò quattro anni, dalla fine del 1943 al febbraio del 1948. Il primo provvedimento fu una decisione del governo Badoglio del 28 dicembre 1943, ma l'operazione cominciò con un regio decreto del 12 aprile 1944 che istituì un Alto commissariato per la "defascistizzazione delle amministrazioni pubbliche".[…]
L'amnistia e la fine dell'epurazione furono una prova di realismo e di buon senso. Mani veri motivi della decisione furono taciuti e la tesi su cui poggiava la filosofia della punizione continuò a essere proclamata come verità ufficiale. Per la storia politica e civile degli italiani questa ipocrisia fu una bomba a scoppio ritardato, destinata a provocare gravi danni alla società e allo Stato. Nell'immediato dopoguerra, quando i provvedimenti furono adottati, tutti sapevano che la politica della punizione sarebbe stata iniqua e selettiva; e tutti capirono perfettamente, quindi, le ragioni dell'amnistia e dell'archiviazione de procedimenti d'epurazione. Come aruspici che s'incontrano nel foro, la maggior parte degli italiani avrebbe sorriso del proprio antifascismo e di quello del proprio interlocutore. Ma col passare del tempo, a mano a ,mano che nuove generazioni si affacciavano nella società, la verità canonica divenne verità storica e fu persa memoria delle ragioni per cui la punizione era stata impossibile. Martellata nei giornali, nei manuali e nelle celebrazioni ufficiali della Repubblica, l'ortodossia antifascista divenne l'ideologia fondatrice della Repubblica italiana e proclamò come articolo di fede l'esistenza di uno Stato nato dalla Resistenza in cui un popolo schiavo aveva finalmente spezzato le catene di un regime minoritario e poliziesco. La tesi divenne la piattaforma morale del partito comunista che se ne servì per presentarsi al paese come il più legittimo erede dell'antifascismo militante, come l'unico partito che avesse sempre combattuto contro il fascismo, dalle origini ai suoi più recenti camuffamenti. È la stessa tesi che ispirò più tardi, nella sua versione più truce e radicale, alcuni movimenti terroristici degli anni '70. Ed è questa la ragione, in ultima analisi, per cui il partito comunista ne porta l'indiretta responsabilità.»Non fu una decisione dettata dal buon senso (quando mai la classe dirigente italiana si è fatta dettare il copione da considerazioni di buon senso?), e nemmeno da umanità e generosità (merci ancora più rare sul mercato della politica nazionale), ma solo da cinico opportunismo: tutti assolti, nessun colpevole, tranne quelli che avevano già pagato.
Ecco perché Mussolini doveva morire, e doveva morire in quel modo: e, con lui, i gerarchi di Salò, a dispetto del fatto che, in molti casi, non erano stati né peggiori, né più colpevoli di quelli del Ventennio; e sorvolando su particolari imbarazzanti, come, ad esempio, la presenza di un comunista della prima ora, come Nicola Bombacci, tra i fedelissimi del Duce che pagarono con la vita, o di un uomo di provata fede democratica, come Carlo Silvestri, fra coloro i quali cercarono di fare da intermediari affinché lo spargimento di sangue fratricida fosse ridotto al minimo, almeno nelle ultime settimane di guerra.
Si trattava di un fatto, non di una pia intenzione: ma come farlo quadrare con la Vulgata antifascista, che vedeva nel fascismo, appunto, soltanto un regime reazionario di massa, al soldo di industriali, finanzieri e agrari senza scrupoli? Semplice: sostenendo che si era trattato di un'operazione di facciata, insincera e puramente propagandistica. L'Italia democratica, nata dalla Resistenza, non seppe fare in circa mezzo secolo di vita pacifica, quello che la Repubblica Sociale aveva cercato di fare in pochi mesi, con la duplice invasione del territorio nazionale, in mezzo a difficoltà e distruzioni inimmaginabili, durante la fase più crudele della seconda guerra mondiale e della guerra civile.
Ma questo, non lo si poteva dire: bisognava che i repubblicani di Salò fossero, tutti senza eccezione, dei volgari «repubblichini»: gente senza onore, senza dignità, senza patria, al soldo dell'occupante tedesco. Solo delegittimando costoro, si poteva far rifulgere la nobiltà delle intenzioni della parte avversa; e, con ciò, conferire l'eterno imprimatur democratico ai partiti antifascisti, usciti dalle catacombe nel 1943-45 e ben decisi a far valere le loro vecchie logiche di potere: quelle stesse che avevano gettato l'Italia nella guerra civile «de facto» del 1919-22 e, infine, l'avevano consegnata al fascismo.
Soprattutto, bisognava che la memoria di Mussolini fosse inchiodata alla perpetua infamia di aver servito per due decenni gli egoistici interessi di un pugno di biechi capitalisti reazionari: proprio lui, che era stato sempre un uomo dell'estrema sinistra: il figlio del fabbro, socialista da sempre e ammiratore, a sua volta ammirato, di Lenin (che lo considerava l'unico rivoluzionario serio esistente in Italia nel primo dopoguerra).
Quanti scheletri nell'armadio, nella casa della sinistra italiana! Quanta ipocrisia nel voler negare a Mussolini, fino all'ultimo, la legittimità delle sue origini socialiste, della sua lunga e accanita militanza socialista; per ridurre la storia d'Italia fra il 1919 e il 1945 al delirio di onnipotenza di un pazzo megalomane, per di più squallidamente inserito sul libro paga dei capitalisti reazionari. Quanta ipocrisia, in tutti quegli uomini di partito e di sindacato, in tutti quegli intellettuali che, dopo aver collaborato più o meno entusiasticamente col fascismo, o dopo aver avuto tanta responsabilità nella sua vittoria (e che dire della politica filo-nazista dei comunisti, dopo il patto Molotov-Ribbentrop dell'agosto 1939?), nel 1945 fecero disinvoltamente il salto della quaglia e s'improvvisarono campioni integerrimi dell'antifascismo, magari sostenendo - come fece, ridicolmente, Ruggero Zangrandi - che essi avevano solo finto di aderire al fascio, per poterlo meglio indebolire e disgregare dall'interno?
A ben guardare, si tratta di una costante culturale, politica e morale del popolo italiano e della sua classe dirigente. I cattivi sono sempre gli altri, appunto; noi, siamo solo dei poveri traditi.

di Francesco Lamendola

13 settembre 2009

Il "compagno Tremonti" e la "sinistra finanziaria"


Vent’anni di politica di destra del centrosinistra, a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi
anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e
la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo
alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della
produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti
chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa
ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.
Un discorso eccezionale e coraggioso,
quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della
“destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori
agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della
possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure
con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto
sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha
detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi
imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le
principali responsabili della crisi planetaria odierna. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come
capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto
nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non
sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non
“principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica
controparte del “proletariato” - cioè a dire delle forze produttive che,
entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla
“rivoluzione” - sono i capitalisti industriali.
La breve citazione di Marx prima
riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la
capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili,
bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo
quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera
della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante -
è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3)
incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo
produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.
Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il
commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”,
completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal
punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta
sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il
commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale”
che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per
tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è
cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di
produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione,
ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di
agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di
capitalisti”. Il capitale finanziario non è un possibile
concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte
appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche),
ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti
ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale
mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato
“costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso
meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul
denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p.
329)
4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza
della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava
già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e
finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla
morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?
Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx
dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e
là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso,
giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della
storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina
di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana
(1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:
“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte,
accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de
Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri".
Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.
Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una
frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di
foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi;
insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs,
rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva,
con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato” 5
Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di
articoli per la Neue Rheinische Zeitung:
Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a
quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe
operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding –
diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson -
teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura
anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione
del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di
produzione capitalistico … una contraddizione che si distrugge da se stessa,
che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso
una nuova forma di produzione” 6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria”
poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come
oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della
rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e
arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici
residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.
Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista
della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per
questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson
Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice
culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di
pensiero marxista:
“Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del
capitalismo internazionale. 8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito
9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi
fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si
trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il
problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del
necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul
capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della
democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.
E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di
imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi
economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad
esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni
autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media,
i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione
“progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del
capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la
colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari
compresi. Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase
postbipolare in Italia e nel mondo …
Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte
di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche
prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III

10 James Petras
11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con
Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe
Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo
di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E
con George Soros”

Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il
capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e
fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista
dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione
geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni
del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore
Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario
come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto
del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con
l’intervento del Banco di Roma.
Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx
del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La
prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del
pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la
Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista
delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che
capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum
inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure
indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in
Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche
piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti)
dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di
bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco
borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano
alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo
vedé le case”.
La constatazione è duplice: primo, è proprio il
capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della
speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio
perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera
della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III
Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del
mondo. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e
12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato
simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio
imprenditoriali”. E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel
caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di
contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George
Soros. Già
Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre
della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di
Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités:
oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di
liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al
“pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.
Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?
La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non
vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo,
l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di
reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché

15 Giulio Tremonti, L' imposta progressiva? un mito " reazionario". necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994

subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. A quale miseria si è ridotto certo
marxleninismo del Terzo millennio! 16

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può
dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno
del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato,
della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non
porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e postcomunista.
Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana
e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai
vari don Rodrigo del centrosinistra. Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola,
quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare
l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a
codificare il “lavoro interinale”. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura
chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello
redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?
La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi
mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a
distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte
parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il
caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente
conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è
nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra
finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per
delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio
(ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del
Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può
intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle
privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro
i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono
anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. Sempre nel 1993, il nuovo
governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la
dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle
banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate
privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro
interinale con la legge 196 del 24 giugno.
Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo
D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della
Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto
privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che
una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più
dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La
filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata
strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime
da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di
Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge
destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI - è la solita solfa
dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer
dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno
portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei
è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale
dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione
pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla
sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il
tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del
corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale - rischia di
venire cancellata progressivamente.
Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del
centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o
hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di
prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il
disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre
qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e
dei cittadini. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul
nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava
mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del
paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.
Alle spalle
della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue
profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati
licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME
emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. La prima
Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali,
inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la
macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla
“rivoluzione” dipietrista.

di Claudio Moffa

15 settembre 2009

Il Club Bilderberg: i veri controllori del mondo

daniel estulin
Daniel Estulin vive in Spagna ed è un prestigioso giornalista investigativo
Alcuni la ritengono un’invenzione, un’esagerazione dettata dalla paranoia, altri una struttura legittima e per certi versi necessaria, altri ancora – pochi, purtroppo – la conoscono da tempo e in qualche modo cercano di combatterla o per lo meno di non piegarsi a essa. La stragrande maggioranza della gente tuttavia – e questa è proprio la sua forza maggiore – non ha la minima idea di cosa si stia parlando. Questa idea ce la possiamo fare grazie all’ultimo, imponente lavoro del giornalista investigativo Daniel Estulin e l’oggetto misterioso a cui si fa allusione nelle prime righe di questo articolo è proprio il famigerato gruppo Bilderberg, protagonista del libro dell’autore spagnolo Il Club Bilderberg – La storia segreta dei padroni del mondo .

Questa storia ha inizio in un luogo e una data precisi, il 29 maggio del 1954 a Oosterbeek, una piccola cittadina dei Paesi Bassi, presso l’Hotel Bilderberg. Lì, su iniziativa del principe olandese Bernhard, si riunirono le maggiori personalità del mondo politico, di quello economico, industriale e militare, ponendo le basi per la creazione di una sorta di conferenza, o se volete di società segreta, che da quel momento ogni anno, per un fine settimana, si sarebbe riunita in un paesino del mondo occidentale per confrontarsi sulle problematiche del pianeta e studiare delle soluzioni a esse da attuare attraverso gli strumenti a propria disposizione, a ben vedere sostanzialmente illimitati dato che si trattava di presidenti, governatori, potenti industriali, affermati giornalisti e personalità di elevatissimo calibro.

Se vogliamo essere meno diplomatici e più schietti, possiamo dire che dal 1954 un gruppo di persone estremamente influenti prende tutte le decisioni più importanti che riguardano il destino di tutti noi e lo fa lontano da occhi indiscreti e, soprattutto, dal controllo popolare.

Già, perché i meeting del Bilderberg hanno caratteristiche molto particolari: si tengono generalmente in piccole cittadine, dove l’opinione pubblica e l’informazione non sono massicciamente presenti (nel 2004 la riunione ha avuto luogo a Stresa, un piccolo comune sul Lago Maggiore). L’accesso è rigorosamente a invito, il quale avviene secondo criteri che prendono in considerazione l’influenza della posizione dell’ospite e il grado di controllo che egli ha su determinati settori chiave.

clinton
Il gruppo include praticamente tutti i dirigenti delle istituzioni, delle aziende e delle organizzazioni più importanti del mondo
I partecipanti hanno il divieto assoluto di rilasciare dichiarazioni ai giornali, così come è tassativamente vietato ai giornalisti anche solo avvicinarsi al luogo di svolgimento della manifestazione, pena l’arresto (lo stesso Estulin è stato arrestato diverse volte nel corso delle sue indagini sul campo); ovviamente fanno eccezione i giornalisti regolarmente invitati, come lo era Katherine Graham, direttrice del Washington Post, e come lo fu Fehru Koru, un giornalista turco propugnatore di posizioni aspramente critiche nei confronti del Bilderberg che cambiò magicamente idea dopo essere stato invitato all’edizione del 2006.

Segretezza è dunque una delle parole chiave del Gruppo Bilderberg. Un’altra è sicuramente controllo; come detto, uno dei requisiti fondamentali per essere invitati è quello di occupare una posizione di prestigio e potere, che permetta appunto di controllare i punti nodali di determinati settori.

Grazie a questo criterio, il Bilderberg ha sviluppato una rete formata da molte componenti: una di esse è per esempio la RCA, Radio Corporations of America, colosso dell’informazione che comprende NBC, CBS e ABC, mentre il suo omologo dal punto di vista politico-militare è la NATO, uno dei bracci armati della struttura.

Più in generale, il gruppo include praticamente tutti i dirigenti delle istituzioni, delle aziende e delle organizzazioni più importanti del mondo: ne fanno infatti parte Romano prodi, ex Primo Ministro italiano, Bill Clinton, ex Presidente americano, Jean-Claude Trichet, governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, Peter Sutherland, presidente della British Petroleum, Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, la Regina Beatrice d’Olanda, tanto per citarne alcuni, ma la lista include centinaia di nomi. Ognuno di essi ricopre un ruolo di assoluto controllo del suo settore di competenza e appare chiaro che una rete che mette in sinergia queste personalità può controllare con facilità il mondo intero.

Fra i membri del Bilderberg ve ne sono alcuni che hanno alle spalle una militanza decennale e che hanno acquisito notevole potere all’interno della stessa organizzazione, tanto da essere considerati come organizzatori e gestori dei meeting. Uno di essi è certamente il rappresentante della corona olandese, solitamente indicato come il chairman, il padrone di casa.

kissinger
All'interno del gruppo è di assoluta preminenza la posizione di Henry Kissinger
Di assoluta preminenza è poi la posizione di Henry Kissinger, che nella sua vita ha fatto praticamente di tutto, occupando sempre posizioni di potere; potere che è cresciuto sempre più – paradossalmente – dopo il suo ritiro dalla vita politica e pubblica in generale. Un altro pezzo grosso del Bilderberg è David Rockfeller, ultimo discendente di John e rappresentante di una famiglia che da sempre, mascherandosi dietro organizzazioni umanitarie e iniziative benefiche, ha perseguito l’ambizioso intento di instaurare il cosiddetto nuovo ordine mondiale.

Altri membri importanti e influenti del Bilderberg sono Zbigniew Brzezinski, Vernon Jordan, Cyrus Vance e altre personalità che ciclicamente vengono impiegate nei posti chiave delle amministrazioni politiche americane e internazionali, indipendentemente dal loro schieramento


Il Bilderberg può inoltre contare su altre organizzazioni parallele che cooperano con esso per la realizzazione dei suoi intenti. Una di queste è il CFR, Council on Foreign Relations, creato nel 1921 su iniziativa di Edward House, potente e influente consigliere del presidente Wilson (già avvezzo a questo tipo di iniziative, come testimonia la sua idea della Lega delle Nazioni), e massicciamente finanziato guarda caso dalla Fondazione Rockfeller. Inizialmente il CFR fu concepito come distaccamento americano della Tavola Rotonda Mondiale, ma sin da subito i suoi intenti erano chiari: «creare un governo unico mondiale, basato su un sistema finanziario centralizzato, caratterizzato da un particolare mix di capitalismo e socialismo, di opportunismo e di idealismo».

Inutile dirlo, tutti i più importanti protagonisti della recente storia politica americana – da Colin Powell a Madaleine Albright, da Condoleezza Rice a Donald Rumsfeld, da Dick Cheney a Richard Perle, ma non Gorge W. Bush – fanno parte del CFR. Così come facevano parte del CFR Bill Clinton, personaggio secondario nella scena politica statunitense fino al momento della sua elezione, e John Kerry, sfidante di Bush alle elezioni presidenziali del 2004 (della serie: proponendo un proprio candidato e appoggiando comunque quell’altro è impossibile perdere).

Un’altra organizzazione analoga, che si differenzia dal CFR per essere internazionale e non riservata agli americani, è la Trilateral Commission. La Trilateral è stata fondata e finanziata, ancora una volta, da David Rockfeller, che ebbe l’idea e la propose al meeting del Bilderberg del 1972, in Belgio. Pur privilegiando il settore della finanza e del commercio, l’obiettivo della Trilateral è sempre lo stesso: creare un governo unico mondiale.

il club bilderberg

La storia raccontata da Estulin ha inizio in un luogo e una data precisi, il 29 maggio del 1954 a Oosterbeek, una piccola cittadina dei Paesi Bassi, presso l’Hotel Bilderberg
Questo è dunque un breve schizzo dell’ampio e articolato quadro che Estulin delinea nel suo libro. Con particolare perizia, il giornalista spagnolo evita il qualunquismo che caratterizza spesso gli autori che affrontano queste tematiche e che inevitabilmente frutta loro le etichette di complottisti, paranoici e visionari. Il Club Bilderberg è infatti dotato di un’ampia ed esauriente appendice che propone fotografie, stralci di documenti, liste di partecipanti, verbali e resoconti riguardanti i meeting del Bilderberg che si sono tenuti dal 1954 a oggi.

Il reperimento di questo interessantissimo materiale è stato possibile grazie a una fitta rete di contatti che Estulin ha sapientemente intessuto, coinvolgendo funzionari, giornalisti, addetti ai lavori, fino ad agenti segreti e membri dei servizi di vari paesi. Interessanti e attuali – ma anche assai inquietanti – sono poi i collegamenti che vengono evidenziati fra importanti avvenimenti della seconda parte del ventesimo secolo e l’azione segreta del gruppo Bilderberg: il Piano Marshall, l’uccisione di Aldo Moro, il Watergate, il caso Iran-Contra, la guerra in Afghanistan e tanti altri episodi – incluso un presunto e clamoroso piano di annessione del Canada agli Stati Uniti – determinanti appartenenti alla recente storia mondiale vedono lo zampino dei propugnatori del nuovo ordine mondiale.

Estulin colpisce quindi questa organizzazione proprio dove fa più male: la priva della segretezza, della discrezione e dell’ombra di cui si è sempre servita e di cui necessita per attuare i suoi piani. La prova di ciò ce la fornisce lo stesso autore con la frase che fa da intestazione a Il Club Bilderberg: «Nel 1996 cercarono di uccidermi, nel 1998 di sequestrarmi, nel 1999 di corrompermi, nel 2000 di arrestarmi e l’anno dopo mi offrirono un assegno in bianco se avessi taciuto una volta per tutte». Per nostra fortuna, quell’assegno Estulin non lo accettò mai.

di Francesco Bevilacqua

14 settembre 2009

Mussolini doveva morire perché una intera classe dirigente potesse autoassolversi


La filosofia di fondo delle Brigate Rosse e, in generale, del terrorismo di sinistra degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, partiva dal presupposto che la Resistenza fosse stata tradita; che i soliti, avvolgenti «poteri forti» (Chiesa, finanza, grande industria, alta burocrazia, esercito) avessero trovato il modo di affossarla, subdolamente e silenziosamente; che, dopo il 1945, fosse stata vanificata una occasione unica, non solo di avviare una profonda riforma sociale, ma anche una vera e propria rinascita morale della nazione.
Questa filosofia, anche se non sembra, era figlia della teoria crociana e liberale sulla genesi del fascismo come «malattia temporanea» del Paese, malattia che avrebbe colpito un corpo sostanzialmente sano. Pietosa menzogna: perché l'Italia, nel 1919, era tutt'altro che un Paese sano, una democrazia compiuta; e, se il fascismo andò al potere con il consenso della monarchia e delle classi dirigenti, qualche motivo ci sarà pure stato; come ci sarà stato se, ancora nel 1924, dopo il delitto Matteotti, molti liberali - Croce compreso - consigliavano gli Italiani di fidarsi del fascismo e di scommettere sulla sua capacità di rientrare nella piena legalità, portando il Paese fuori dalla crisi del dopoguerra.
Ma come e perché è nata la leggenda del fascismo come malattia dolorosa, ma passeggera; chi aveva interesse a diffonderla, chi a divulgare il mito dell'Italia tradita, come recita il titolo di un famoso saggio di Ruggero Zangrandi (uno che di salti mortali se ne intendeva, essendo passato da una giovinezza da intellettuale fascista, ad una maturità da acerrimo e intransigente paladino della Vulgata storiografica antifascista)?
È nata perché la classe dirigente italiana potesse autoassolversi dalle proprie responsabilità; e, con essa, l'intero popolo italiano, che, nella stragrande maggioranza, aveva accettato il fascismo e, ad un certo punto - diciamo con la conquista dell'Impero, nel 1936 - lo aveva entusiasticamente appoggiato.
La verità è che, se Mussolini non avesse fatto la scelta sbagliata nel giugno del 1940, nessuno gli avrebbe presentato il conto della sua ventennale dittatura: sul piatto della bilancia, i meriti del suo regime - legislazione sociale, riassestamento dell'economia, aumento dell'occupazione e dell'industria, bonifica delle paludi, successi in politica estera - avrebbero finito per far scomparire tutte le ombre e per consegnarlo alla storia come il più abile e fortunato capo di governo dell'Italia, dalla morte di Cavour in poi.
Una volta messo bene a fuoco questo punto, si arriva anche a comprendere le ragioni per cui Mussolini venne ucciso in maniera così frettolosa e, per molti aspetti, così misteriosa; perché lo si volle sottrarre, ad ogni costo, ad un pubblico processo, sul tipo di quelli che la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja ha riservato ai dirigenti serbo-bosniaci, e poi anche a quelli serbi (Milosveic), dopo la fine della guerra civile nella ex Jugoslavia.
Mussolini doveva morire perché, se fosse stato sottoposto ad un pubblico processo, l'intera classe dirigente italiana, anzi, l'intero popolo italiano, sarebbero stati chiamati in causa per il lungo e caloroso sostegno accordato al suo regime. Ciò avrebbe inferto un colpo irreparabile alla teoria del fascismo come malattia temporanea in un corpo sociale sostanzialmente sano, cara alla Vulgata antifascista; e avrebbe posto ciascuno, compreso l'uomo della strada, davanti alle proprie responsabilità.
Invece, con il colpo di stato del 25 luglio e con l'obbrobrioso armistizio dell'8 settembre 1943, classi dirigenti e popolo italiano vollero passare un colpo di spugna sulle proprie responsabilità e fabbricarsi una verginità democratica nuova di zecca.
Tutti: i liberali, che nel primo dopoguerra non avevano saputo o voluto fare nulla per allargare la propria base di consenso, coinvolgendo le masse nella vita dello Stato; i socialisti, che avevano carezzato velleitari progetti di rivoluzione, senza mai pensare seriamente a farla; i cattolici, che avevano creduto di poter fare parte per se stessi, coltivando solo l'orticello dei loro interessi particolari; i comunisti, che sognavano di replicare il colpo dei bolscevichi russi e di instaurare una dittatura, al cui confronto quella fascista sarebbe impallidita: tutti costoro avevano i propri ingombranti scheletri nell'armadio, e non desideravano altro che di far sparire le tracce di ciò che avevano fatto per spingere la democrazia italiana nel vicoli cieco del 1919-22.
Allora sorse la leggenda dell'Italia tradita: l'Italia non aveva voluto il fascismo, lo aveva subito; i fascisti erano dei Marziani sbarcati dalle loro astronavi e, al servizio degli industriali e degli agrari, avevano messo la museruola alle masse lavoratrici, ormai sul punto di realizzare chissà qual magnifiche sorti e progressive; ma poi era giunta la Resistenza, che, restituendo dignità al popolo italiano, aveva tenuto a battesimo la rinascita della democrazia.
Già, l'Italia tradita. Ma tradita da chi? Dagli altri, sempre dagli altri: da Mussolini, dai fascisti, da Hitler e, magari, anche dal Mikado; insomma, da quelli che la Vulgata storica antifascista ha inequivocabilmente schedato fra i cattivi (mentre Churchill, Roosevelt e perfino Stalin erano i buoni). Così è anche oggi: di qualunque problema sociale e morale si parli: dalla mafia alla 'ndrangheta, dall'evasione fiscale alla corruzione, dalla speculazione edilizia al malcostume dilagante di politici e pubblici amministratori, i responsabili di ogni stortura e di ogni crimine sono sempre gli altri.
Una cosa appariva chiara: se l'Italia, nel 1943, era stata tradita, allora essa, nel suo complesso, era pura e innocente: era vittima, non colpevole. I traditori erano coloro che avevano trascinato l'Italia in guerra; e, più tardi, coloro che, manovrando nell'ombra, vanificarono la preziosa occasione di rinnovamento morale portata dal «vento del Nord»: una esigua minoranza, comunque. La classe dirigente, nel suo complesso, non era messa in discussione; né, meno ancora, lo era il popolo italiano: l'una e l'altro erano stati traditi da pochi ribaldi, senza loro colpa.
Sì: più tardi - nei due, tre decenni successivi - i poteri forti avevano ripreso a tramare come prima, instaurando un fascismo larvato e mascherato, sempre allo scopo di garantirsi i loro sporchi affari; ma, di nuovo, il popolo era stato ingannato e defraudato dei frutti della Resistenza; e anche la classe dirigente, tutto sommato, era stata vittima di un tradimento: specialmente i quadri del partito socialista e di quello comunista, che erano stati raggirati dalla perfidia democristiana e dalle oscure manovre del Vaticano e degli Stati Uniti.
L'ideologia dell'antifascismo permanente, come strumento per mantenere in piedi una surrettizia divisione degli Italiani in buoni e cattivi, con la ferma e feroce volontà di includere se stessi fra i primi e nell'avocare a sé tutti i vantaggi derivanti dallo status morale di essere i vincitori della seconda guerra mondiale (?) e della guerra civile del 1943-45.
Uno dei più lucidi interpreti di questo processo, è stato l'ambasciatore e politologo Sergio Romano, che ha levato una delle poche voci libere e dignitose nel coro servile dei conformisti e dei menestrelli di regime.
Ha scritto, dunque, Sergio Romano, nel suo saggio «Le Italie parallele. Perché l'Italia non riesce a diventare un paese moderno» (Milano, TEA, 1996, pp. Se le tracce d'arsenico rinvenute nei capelli di Napoleone rilanciano periodicamente la tesi dell'avvelenamento, è facile prevedere che della fucilazione di Mussolini le cronache si occuperanno per molto tempo.
Ma l'aspetto più importante della vicenda è perfettamente chiaro. Possono esservi dubbi sul modo in cui il capo del fascismo fu ucciso, ma non può esservene alcuno sulle ragioni della sua morte. Fu ucciso perché il suo processo, se egli fosse rimasto in vita, si sarebbe inevitabilmente trasformato in un processo al fascismo. il nome dei ministri liberal-democatici che parteciparono al suo primo governo, il risultato delle elezioni del 1924, il voto di fiducia al Senato dopo l'assassinio di Matteotti, il velleitarismo degli aventiniani, il "plebiscito" del 1929,, i meriti sociali del regime, , l'ammirazione internazionale per le sue realizzazioni, lo straordinario consenso dopo la guerra d'Etiopia, l'atto di omaggio che egli aveva ricevuto da molti vecchi antifascisti dopo la conquista dell'impero. Molte delle sue affermazioni sarebbero state contestabili, ma il risultato del processo sarebbe stato pur sempre un grande dibattito nazionale sul fascismo e sulle sue responsabilità storiche.
I partiti del Comitato di liberazione nazionale, e in particolare il partito comunista, vollero evitarlo. L'Italia, in tal modo, esce dal fascismo e rientra in democrazia senza chiedersi perché è stata fascista. Sulla realtà censurata e rimossa prevale da allora nella vita politica italiana una versione ortodossa: il fascismo è "un regime reazionario di massa" imposto con un violento "colpo di coda" dagli ambienti più retrivi del paese in un momento in cui, cessati ormai i torbidi dell'immediato dopoguerra, esistevano le condizioni per il ripristino della normalità. Alla definizione di questa ortodossia concorse una sorta di patto tacito fra l'antifascismo militante, da poco rientrato in patria, e la grande maggioranza degli italiani.
La democrazia restaurata aveva bisogno dei veri e propri eroi e ogni partito era fortemente interessato alla ricostruzione della propria dinastia.
Furono dimenticati i duri articoli di Gramsci nell'"Ordine Nuovo" contro i socialisti riformisti e furono taciuti i contrasti che avevano diviso i comunisti italiani, persino in carcere, tra la fine degli anni 20 e l'inizio degli anni '30. Furono dimenticati l'imbelle riformismo di Turati, il massimalismo declamatorio di Serrati, il velleitarismo degli aventiniani, il narcisismo intellettuale di Nitti. La verità canonica voleva che le libertà degli italiani fossero state violate da una sorta di complotto fra la monarchia, i gradi industriali, gli agrari e alcune squadre di teppisti o avventurieri con la complicità della burocrazia e delle forze armate.
Tale versione conveniva alla grande maggioranza degli italiani. L'uomo della strada poteva sostenere che egli era stato spettatore passivo di un regime in cui non aveva creduto. I burocrati e i professori, che si erano iscritti al partito per esigenze di vita. I generali, che non avevano alcuna responsabilità nell'impreparazione delle forze armate allo scoppio del conflitto. La prima conseguenza del patto tacito che gli antifascisti militanti strinsero con la grande maggioranza dei loro connazionali fu la rinuncia all'epurazione. Il tentativo di ripulire l'Italia dalle sue scorie fasciste durò quattro anni, dalla fine del 1943 al febbraio del 1948. Il primo provvedimento fu una decisione del governo Badoglio del 28 dicembre 1943, ma l'operazione cominciò con un regio decreto del 12 aprile 1944 che istituì un Alto commissariato per la "defascistizzazione delle amministrazioni pubbliche".[…]
L'amnistia e la fine dell'epurazione furono una prova di realismo e di buon senso. Mani veri motivi della decisione furono taciuti e la tesi su cui poggiava la filosofia della punizione continuò a essere proclamata come verità ufficiale. Per la storia politica e civile degli italiani questa ipocrisia fu una bomba a scoppio ritardato, destinata a provocare gravi danni alla società e allo Stato. Nell'immediato dopoguerra, quando i provvedimenti furono adottati, tutti sapevano che la politica della punizione sarebbe stata iniqua e selettiva; e tutti capirono perfettamente, quindi, le ragioni dell'amnistia e dell'archiviazione de procedimenti d'epurazione. Come aruspici che s'incontrano nel foro, la maggior parte degli italiani avrebbe sorriso del proprio antifascismo e di quello del proprio interlocutore. Ma col passare del tempo, a mano a ,mano che nuove generazioni si affacciavano nella società, la verità canonica divenne verità storica e fu persa memoria delle ragioni per cui la punizione era stata impossibile. Martellata nei giornali, nei manuali e nelle celebrazioni ufficiali della Repubblica, l'ortodossia antifascista divenne l'ideologia fondatrice della Repubblica italiana e proclamò come articolo di fede l'esistenza di uno Stato nato dalla Resistenza in cui un popolo schiavo aveva finalmente spezzato le catene di un regime minoritario e poliziesco. La tesi divenne la piattaforma morale del partito comunista che se ne servì per presentarsi al paese come il più legittimo erede dell'antifascismo militante, come l'unico partito che avesse sempre combattuto contro il fascismo, dalle origini ai suoi più recenti camuffamenti. È la stessa tesi che ispirò più tardi, nella sua versione più truce e radicale, alcuni movimenti terroristici degli anni '70. Ed è questa la ragione, in ultima analisi, per cui il partito comunista ne porta l'indiretta responsabilità.»Non fu una decisione dettata dal buon senso (quando mai la classe dirigente italiana si è fatta dettare il copione da considerazioni di buon senso?), e nemmeno da umanità e generosità (merci ancora più rare sul mercato della politica nazionale), ma solo da cinico opportunismo: tutti assolti, nessun colpevole, tranne quelli che avevano già pagato.
Ecco perché Mussolini doveva morire, e doveva morire in quel modo: e, con lui, i gerarchi di Salò, a dispetto del fatto che, in molti casi, non erano stati né peggiori, né più colpevoli di quelli del Ventennio; e sorvolando su particolari imbarazzanti, come, ad esempio, la presenza di un comunista della prima ora, come Nicola Bombacci, tra i fedelissimi del Duce che pagarono con la vita, o di un uomo di provata fede democratica, come Carlo Silvestri, fra coloro i quali cercarono di fare da intermediari affinché lo spargimento di sangue fratricida fosse ridotto al minimo, almeno nelle ultime settimane di guerra.
Si trattava di un fatto, non di una pia intenzione: ma come farlo quadrare con la Vulgata antifascista, che vedeva nel fascismo, appunto, soltanto un regime reazionario di massa, al soldo di industriali, finanzieri e agrari senza scrupoli? Semplice: sostenendo che si era trattato di un'operazione di facciata, insincera e puramente propagandistica. L'Italia democratica, nata dalla Resistenza, non seppe fare in circa mezzo secolo di vita pacifica, quello che la Repubblica Sociale aveva cercato di fare in pochi mesi, con la duplice invasione del territorio nazionale, in mezzo a difficoltà e distruzioni inimmaginabili, durante la fase più crudele della seconda guerra mondiale e della guerra civile.
Ma questo, non lo si poteva dire: bisognava che i repubblicani di Salò fossero, tutti senza eccezione, dei volgari «repubblichini»: gente senza onore, senza dignità, senza patria, al soldo dell'occupante tedesco. Solo delegittimando costoro, si poteva far rifulgere la nobiltà delle intenzioni della parte avversa; e, con ciò, conferire l'eterno imprimatur democratico ai partiti antifascisti, usciti dalle catacombe nel 1943-45 e ben decisi a far valere le loro vecchie logiche di potere: quelle stesse che avevano gettato l'Italia nella guerra civile «de facto» del 1919-22 e, infine, l'avevano consegnata al fascismo.
Soprattutto, bisognava che la memoria di Mussolini fosse inchiodata alla perpetua infamia di aver servito per due decenni gli egoistici interessi di un pugno di biechi capitalisti reazionari: proprio lui, che era stato sempre un uomo dell'estrema sinistra: il figlio del fabbro, socialista da sempre e ammiratore, a sua volta ammirato, di Lenin (che lo considerava l'unico rivoluzionario serio esistente in Italia nel primo dopoguerra).
Quanti scheletri nell'armadio, nella casa della sinistra italiana! Quanta ipocrisia nel voler negare a Mussolini, fino all'ultimo, la legittimità delle sue origini socialiste, della sua lunga e accanita militanza socialista; per ridurre la storia d'Italia fra il 1919 e il 1945 al delirio di onnipotenza di un pazzo megalomane, per di più squallidamente inserito sul libro paga dei capitalisti reazionari. Quanta ipocrisia, in tutti quegli uomini di partito e di sindacato, in tutti quegli intellettuali che, dopo aver collaborato più o meno entusiasticamente col fascismo, o dopo aver avuto tanta responsabilità nella sua vittoria (e che dire della politica filo-nazista dei comunisti, dopo il patto Molotov-Ribbentrop dell'agosto 1939?), nel 1945 fecero disinvoltamente il salto della quaglia e s'improvvisarono campioni integerrimi dell'antifascismo, magari sostenendo - come fece, ridicolmente, Ruggero Zangrandi - che essi avevano solo finto di aderire al fascio, per poterlo meglio indebolire e disgregare dall'interno?
A ben guardare, si tratta di una costante culturale, politica e morale del popolo italiano e della sua classe dirigente. I cattivi sono sempre gli altri, appunto; noi, siamo solo dei poveri traditi.

di Francesco Lamendola

13 settembre 2009

Il "compagno Tremonti" e la "sinistra finanziaria"


Vent’anni di politica di destra del centrosinistra, a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi
anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e
la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo
alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della
produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti
chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa
ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.
Un discorso eccezionale e coraggioso,
quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della
“destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori
agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della
possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure
con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto
sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha
detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi
imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le
principali responsabili della crisi planetaria odierna. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come
capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto
nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non
sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non
“principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica
controparte del “proletariato” - cioè a dire delle forze produttive che,
entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla
“rivoluzione” - sono i capitalisti industriali.
La breve citazione di Marx prima
riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la
capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili,
bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo
quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera
della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante -
è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3)
incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo
produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.
Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il
commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”,
completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal
punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta
sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il
commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale”
che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per
tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è
cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di
produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione,
ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di
agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di
capitalisti”. Il capitale finanziario non è un possibile
concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte
appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche),
ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti
ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale
mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato
“costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso
meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul
denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p.
329)
4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza
della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava
già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e
finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla
morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?
Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx
dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e
là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso,
giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della
storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina
di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana
(1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:
“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte,
accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de
Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri".
Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.
Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una
frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di
foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi;
insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs,
rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva,
con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato” 5
Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di
articoli per la Neue Rheinische Zeitung:
Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a
quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe
operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding –
diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson -
teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura
anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione
del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di
produzione capitalistico … una contraddizione che si distrugge da se stessa,
che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso
una nuova forma di produzione” 6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria”
poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come
oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della
rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e
arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici
residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.
Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista
della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per
questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson
Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice
culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di
pensiero marxista:
“Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del
capitalismo internazionale. 8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito
9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi
fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si
trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il
problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del
necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul
capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della
democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.
E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di
imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi
economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad
esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni
autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media,
i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione
“progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del
capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la
colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari
compresi. Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase
postbipolare in Italia e nel mondo …
Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte
di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche
prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III

10 James Petras
11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con
Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe
Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo
di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E
con George Soros”

Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il
capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e
fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista
dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione
geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni
del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore
Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario
come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto
del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con
l’intervento del Banco di Roma.
Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx
del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La
prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del
pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la
Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista
delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che
capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum
inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure
indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in
Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche
piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti)
dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di
bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco
borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano
alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo
vedé le case”.
La constatazione è duplice: primo, è proprio il
capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della
speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio
perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera
della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III
Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del
mondo. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e
12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato
simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio
imprenditoriali”. E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel
caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di
contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George
Soros. Già
Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre
della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di
Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités:
oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di
liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al
“pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.
Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?
La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non
vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo,
l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di
reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché

15 Giulio Tremonti, L' imposta progressiva? un mito " reazionario". necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994

subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. A quale miseria si è ridotto certo
marxleninismo del Terzo millennio! 16

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può
dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno
del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato,
della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non
porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e postcomunista.
Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana
e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai
vari don Rodrigo del centrosinistra. Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola,
quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare
l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a
codificare il “lavoro interinale”. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura
chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello
redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?
La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi
mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a
distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte
parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il
caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente
conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è
nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra
finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per
delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio
(ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del
Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può
intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle
privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro
i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono
anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. Sempre nel 1993, il nuovo
governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la
dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle
banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate
privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro
interinale con la legge 196 del 24 giugno.
Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo
D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della
Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto
privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che
una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più
dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La
filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata
strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime
da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di
Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge
destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI - è la solita solfa
dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer
dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno
portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei
è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale
dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione
pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla
sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il
tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del
corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale - rischia di
venire cancellata progressivamente.
Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del
centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o
hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di
prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il
disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre
qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e
dei cittadini. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul
nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava
mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del
paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.
Alle spalle
della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue
profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati
licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME
emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. La prima
Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali,
inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la
macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla
“rivoluzione” dipietrista.

di Claudio Moffa