02 dicembre 2009

Wto: l'unica certezza è che il modello (perdente) non si cambia

La fine della WTO, tante volte decretata, quante respinta e negata. E così le Ministeriali si continuano a fare, senza troppa passione e con sempre meno pubblicità, ma sempre con il pericolo che qualche infausta decisione passi sopra la testa delle popolazioni aggravandone di più la già pesante situazione.

Su quest'ultima in anticipo ci si è affrettati a dire che non si sarebbe negoziato nulla, ma poi invece nella conferenza stampa d'apertura hanno dichiarato di volere una conclusione "rapida e di successo" per il ciclo di negoziati "dello sviluppo" lanciato dalla Wto nel 2001 a Doha, ma anche che il contenuto di sviluppo si è annacquato nei testi in discussione, e che ad esso è appeso, però, il risultato finale delle trattative.

Sono giunti a Ginevra oltre 2.700 delegati, di cui solo 139 su 153 membri dell'organizzazione, 350 giornalisti e circa 500 rappresentanti della società civile, e dopo la giornata di sabato dedicata ad una manifestazione antiWTO con anche alcuni dei protagonisti della "Battaglia di Seattle", che si è snodata per la città con tanto di trattori, ed imbarcazioni dei pescatori trasportate su dei carri - ma purtroppo anche preceduta da un po' di bande giovanili più casseurs forse che veri black bloc, che hanno fatto razzia di vetrine ed auto parcheggiate - domenica invece e' stata utilizzata dai ministri al commercio di Brasile, Argentina, Sudafrica, e alcuni tra gli Stati emergenti più influenti del G20, che in ambito Wto guidano il raggruppamento del G33, per "posizionarsi" rispetto a Europa e Stati Uniti in vista dell'apertura.

I Paesi in via di sviluppo affermano infatti di voler tenere in vita questo ciclo di negoziati e volerlo concludere presto e con successo, specificando però che per successo intendono che lo vogliono amico dello sviluppo. La Wto, ha il peccato originale di essere nato come club dei Paesi ricchi che negli anni è anche molto cambiato, il Doha round infatti è stato lanciato per aiutare i paesi poveri a migliorare le proprie condizioni attraverso un commercio più libero, ma il processo è lungo e resta ancora tanta strada da fare nel negoziato perché questo proposito diventi realtà.

Sembrerebbe esserci un accordo chiuso all'80% secondo lo stesso segretario generale Pascal Lamy, ma rimangono grandi differenze, su come esattamente i membri taglieranno le proprie tariffe sui prodotti agricoli e industriali, elimineranno i sussidi in agricoltura e apriranno il mercato dei servizi.
Il gruppo dei G20 in ambito Wto, coordinato dal Brasile, sostiene la necessità di una maggiore apertura dei mercati agricoli a Nord ma anche a Sud, e ha lanciato in direzione della ministeriale un documento nel quale ha affermato che l'agricoltura deve essere tema centrale in ogni accordo per via di come i sussidi dei Paesi ricchi stanno schiacciando i più poveri fuori dal mercato.

Un altro comunicato dei G33, gruppo coordinato dall'Indonesia che combatte per assicurare che i Paesi più poveri siano protetti in qualche modo dagli effetti più destabilizzanti dell'apertura dei mercati, hanno chiarito però in un proprio documento che ogni accordo debba proteggere i mezzi di sussistenza dei piccoli produttori soprattutto agricoli. Ma il negoziatore statunitense al commercio Ron Kirk, prima della partenza per Ginevra, ha chiarito che il suo Paese si sente impegnato, insieme ad altri, a giocare un ruolo di leadership nella Wto per spingere le esportazioni americane e far crescere il numero dei posti di lavoro ben pagati che gli americani vogliono e di cui hanno bisogno.

Un posizionamento chiaro che da solo getta un'ombra di grande incertezza sulla ministeriale che si apre in questi momenti.
Questo è pure un vertice diverso da tutti gli altri perché arriva in piena crisi economica, finanziaria, sociale ed ambientale, ma mentre nelle riunioni di G8 e G20 i leaders globali fanno a gara per mettere faccia e firme sotto proposte di ri-regolazione di borse e mercati finanziari, qui non si presentano e quasi alla chetichella tentano di chiudere un nuovo pacchetto di liberalizzazioni che ha perso tutti i suoi contenuti di riequilibrio Nord-Sud, che rischia di rafforzare il predominio di pochi interessi forti, a Nord come a Sud, alle spese dei diritti di tutti gli altri.

La Wto si è arenata da anni nell'esame di 17 diversi trattati, un pugno dei quali si occupa davvero di barriere doganali, tariffe e protezionismo, mentre la maggior parte cerca di limitare la capacità degli Stati di sostenere le produzioni "pulite" e i piccoli e medi produttori agricoli e manifatturieri, di vietare la costruzione di fondi nazionali di stimolo alla ripresa, che aiutino le imprese e i lavoratori del proprio Paese, di fissare parametri di gestione dei servizi pubblici perché siano prevalentemente in mano ai privati senza che i Parlamenti nazionali possano dire niente al riguardo.

L'ultima crisi economico finanziaria ha dimostrato l'insostenibilità di un sistema dove la finanza ed i capitali si sganciano dall'economia reale, dove persino il cibo diventa oggetto di speculazione finanziaria condannando alla fame oltre un miliardo di persone e questa crisi complessa ha dimostrato come i fallimenti del mercato siano alla base dei peggiori squilibri del pianeta, e come le ricette per curare questi disastri non possano essere le stesse proposte e riproposte da quasi trent'anni.

La soluzione alle attuali crisi alimentare, produttiva e climatica richiede un profondo e radicale spostamento da un'agricoltura e un modello energetico, industriale, produttivo, di distribuzione ed orientato all'esportazione, verso un'economia attenta ai bisogni del territorio, a Nord come a Sud. Non è più il momento di stare a guardare, è a rischio la stabilità e la sopravvivenza di intere comunità per gli anni a venire.

di Maurizio Gubbiotti

01 dicembre 2009

Il banchiere espiatorio




Stiamo vivendo il passaggio decisivo della crisi sistemica globale in cui il feticcio del PIL - ancora oggi asse portante di tutte le mistificazioni sul prodigioso “sviluppo”, la “crescita”, il “benessere” illimitati - tende a diventare sempre di più DIL per gran parte delle società umane. Assumendo l’acronimo in questione il significato di Disagio Interno Lordo e in futuro - se peggioreranno ancora le cose, come del resto è probabile - di Disperazione Interna Lorda. Le serie di dati economici, che scorrono come un fiume quotidianamente sotto i nostri occhi, pur nella loro contraddittorietà – sospese come sono fra rimbalzi, recuperi finanziari, chiusure aziendali e cadute ulteriori del prodotto – palesano lo spettro del declino della produzione e dei consumi, che non sarà l’unico problema epocale delle sole economie occidentali un tempo trionfanti.



In questo passaggio epocale assistiamo a un vero e proprio scontro fra irrealtà e realtà. Dove l’irrealtà è ben simboleggiata da una dimensione finanziaria “partita in orbita” intorno al globo terracqueo. Mentre la realtà è fatta di chiusure aziendali e dal downsizing, ovvero da licenziamenti a raffica. Ma soprattutto: la contrapposizione di fondo è tra la stabilità e la flessibilità; fra l’ordine e l’anarchia; fra la perduta solidità rappresentata da un mondo “burocratico” e da un tempo lineare, e l’evanescenza indotta da questo modello di capitalismo, con le sue pericolose discontinuità. In questa fase - di cui nessuno sa prevedere la durata perché “Ignota è l’architettura del domani” - la complessità che caratterizza il modo di produzione capitalistico dominante è tale che nessuno riesce compiutamente a definirlo ed indagarlo, sviluppando un’adeguata visione d’insieme.

Esistono tante definizioni di quel capitalismo contemporaneo che “viviamo sulla nostra pelle”. Ciascuna delle quali riesce forse a mettere in evidenza uno o due aspetti, pur rilevanti e caratterizzanti su vari piani – culturale ed ideologico, economico, sociologico, persino geopolitico – senza però riuscire a cogliere la totalità. Capitalismo neofeudale “senza classi” (questa è la definizione data dal filosofo Costanzo Preve); passaggio capitalistico dalla fase monocentrica “americana” a quella policentrica (Gianfranco La Grassa); capitalismo flessibile ( Richard Sennett); capitalismo parassitario ( Zygmunt Bauman); capitalismo totalitario (Marino Badiale e Massimo Bontempelli); e capitalismo assoluto. Queste definizioni rappresentano solo alcuni esempi di quanto affermo. Ma la stessa globalizzazione che costituisce la linfa vitale del modo di produzione dominante può essere intesa in molti modi: economico, culturale, salariale, e via dicendo.

Quello che è certo è che la prima fase della globalizzazione - iniziata in buona sostanza negli anni Ottanta del Novecento; consolidatasi progressivamente nei “ruggenti anni Novanta” (secondo una definizione dell’economista Stiglitz); e non ancora conclusa, ma già in via di esaurimento, come ci dimostra la persistenza della prima crisi del mondo globalizzato - è dominata da quello che potremmo, con una buona approssimazione, definire “modello capitalistico anglo-americano dell’economia dei servizi”. Un modello in cui i servizi finanziari hanno avuto la massima espansione e l’hanno fatta da padrone, “autonomizzandosi” rispetto all’economia reale e sopravanzandola di alcune lunghezze, ben oltre le sue capacità di assorbimento e sopportazione. Cosa che è accaduta a detrimento delle strutture produttive dei paesi “sviluppati”, provocando due effetti. Primo: una falcidia di posti di lavoro stabili soprattutto nelle produzioni a bassa intensità di capitale (e basso contenuto tecnologico); posti che sono stati solo in parte sostituiti da precari sottopagati. Secondo: trasferimenti significativi di know-how ai paesi detti emergenti, indotti dalla caduta delle barriere doganali e dal conseguente nomadismo planetario del capitale.

L’espansione finanziaria ha dato l’impressione alla massima potenza mondiale - ovvero gli Stati Uniti - di poter vivere per un tempo lungo, indefinito, al di sopra dei propri mezzi finanziando illimitatamente il debito. Mentre i “fondamentali” dell’economia, le produzioni tradizionali e le officine lasciavano il posto a produzione sempre più massiccia di carta e cartaccia: la paccottiglia del tipo CDS (Credit Default Swap) e CDO (Collateralized Debt Obligation). Come se la moltiplicazione della ricchezza di natura finanziaria fosse una riproposizione - in chiave storica e su un piano di immanenza del miracolo biblico - della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Nel frattempo la bassa produzione si affidava ai cosiddetti Paesi “emergenti”, realizzando il massimo della flessibilità dei lavoratori e sfruttando nuovi territori fino ad allora sotto-utilizzati o vergini, in un’assurda e suicida (in primo luogo per l’Occidente a guida americana) divisione internazionale del lavoro.

Anche per tali motivi, quelli che potremmo definire “i gruppi di comando elitistici” hanno avuto mano completamente libera nel reperimento di risorse sui mercati finanziari, e l’hanno fatto nel segno dell’assenza di limiti che connota il capitalismo in questa fase. Non ha torto Bauman – che nel saggio “Capitalismo parassitario” (pubblicato in Italia da Laterza) rievoca lo spettro di Rosa Luxemburg, l’autrice de “L’accumulazione del capitale”, che sosteneva che il capitalismo non può sopravvivere (e prosperare) senza le economie non capitalistiche - si diceva: non ha torto Bauman, quando mette in evidenza come il monstre che ci domina è nella sostanza nient’altro che un grande parassita, in costante ricerca di “terre vergini” da sfruttare fino all’esaurimento. O meglio di organismi ospitanti in cui si insedia per “nutrirsi” e riprodursi portandoli alla morte.

In realtà, i banchieri e i finanzieri fin dagli inizi dell’era globale hanno interpretato la completa assenza di limiti che connota il capitalismo contemporaneo come l’illimitata possibilità di accrescere una ricchezza apparentemente illusoria e smaterializzata. Con lo scopo immediato di una crescente “creazione del valore a favore dell’azionista”. E con il fine ultimo di mettere le mani su beni assai concreti: fabbriche, proprietà immobiliari, l’intero prodotto sociale. Le conseguenze del loro agire sui mercati ricordano molto l’effetto che io chiamo dello “sciame di cavallette”.

Le cavallette, divise in grandi sciami, si avventano affamate su campi e coltivi, predandoli fino all’esaurimento delle risorse, per poi spostarsi altrove rapidamente, come nubi minacciose nel cielo, e calare fameliche su altri campi e altri coltivi. I fertili coltivi - prima dello scoppio della crisi - erano rappresentati dai mercati dei crediti al consumo (rate e carte di credito) e dei mutui di seconda scelta (ovvero quelli concessi a persone che avevano scarse possibilità di pagarli, perchè avevano stipendi bassi e lavori instabili; mutui noti ai più come subprime). Mutui e crediti che sono stati allegramente cartolarizzati, per poi fare il “tranching”, tagliandoli a fette; e infine venduti, intascando le commissioni come prodotti in gran parte sopraffini, per niente adulterati e spesso degni addirittura del massimo dei voti in termini di affidabilità, cioè di una tripla “A”. Anche se poi si è scoperto che erano carta straccia.

Perfino inutile precisare che gli altri campi e gl’altri coltivi, predati dalle “cavallette” globaliste, sono gli essenziali mercati del petrolio e dell’energia, in cui il 95% dei futures trattati in questi ultimi anni non hanno avuto funzioni di copertura, a fronte di transazioni reali, ma bensì funzioni squisitamente speculative. Ed altri campi ed altri coltivi ancora erano i più decisivi prodotti agricoli e alimentari, dando così un significativo contributo alle esplosioni dei prezzi (inflazione da profitti), ma soprattutto alla malnutrizione e alla fame autentica di quasi un terzo dell’umanità. Ecco di cosa si è occupata - fra l’altro - la nuova “classe di servizio” del top globalista per creare valore in misura crescente, se non esponenziale, a vantaggio dei “Signori della mondializzazione”, in particolar modo a beneficio di quella Strategic Global class occidentale, che era intenta a “rastrellare” risorse ovunque e a qualsiasi costo sociale e ambientale.

Ma la difesa dei perversi meccanismi di questo capitalismo non è cessata neppure con la crisi. Anzi si è intensificata fino al delirio, con l’intensificarsi della caduta di tutti i suoi indicatori, dal PIL planetario a quello dei volumi del commercio mondiale.

Un temporaneo rimbalzo finanziario - per esempio: una ripresa dei guadagni speculativi o una crescita del PIL americano, dopo quattro trimestri negativi consecutivi e l’espulsione di milioni di lavoratori dal processo produttivo, con parte del “ceto medio” che perde la casa e va a vivere in roulotte - viene oggi venduta dalla propaganda del nuovo clero sistemico-mediatico come “l’uscita dalla crisi”, l’auspicato ritorno ad una “normalità” decisamente abnorme. Una “normalità” fondata su instabilità e cambiamento discontinuo ma irreversibile; sul fallimento esistenziale per moltissimi; sulla concentrazione di risorse in mani elitistiche; sul pieno controllo del “capitale umano” e del “capitale naturale”; e su di un gigantesco disegno omologante di riorganizzazione ideologico-culturale, venduto propagandisticamente come “morte delle ideologie”.

Questo processo si è sviluppato nel passaggio dalla routine alla flessibilità (come ha osservato Richard Sennett); dal mondo solido alla vita liquida (Zygmunt Bauman); dal capitalismo dialettico al capitalismo speculativo in senso hegeliano (Costanzo Preve). E non solo. A mio avviso: questo processo si è sviluppato anche nel passaggio dall’ordine sociale fondato sulla tripartizione “Borghesia-ceti medi figli del welfare novecentesco-Proletariato” alla dicotomia “Global class-Pauper class” che tenderà in futuro a cristallizzarsi in un nuovo ordine dagli aspetti quasi castali.

In questo quadro inquietante - di autentica “rimozione” di tutte le certezze e dei punti fermi esistenti nelle precedenti fasi capitalistiche - va inquadrato il problema dei finanzieri, dei manager della “industria del credito” e dei banchieri che hanno sbagliato, scatenando la prima crisi globale di origine chiaramente sistemica. In altra sede mi sono divertito a proporre l’amaramente ironico paragone fra i banchieri-manager che hanno sbagliato e i “compagni che sbagliano” nella stagione italiana del lungo sessantotto, della P38, del terrorismo e della clandestinità. Ma questo perché la pubblicistica del neoliberismo imperante ha spesso invocato - a discolpa del sistema - le responsabilità individuali di singoli soggetti, che mal avrebbero colto le splendide ed emancipative opportunità offerte dal libero mercato globale. Un esempio su tutti: il vituperato e incarcerato Bernie Madoff.

Perchè accusare i banchieri che sbagliano? Ovvio. Per nascondere agli occhi delle neoplebi e dei “ceti medi” occidentali, soggetti alla flessibilizzazione e alla ri-plebeizzazione, la natura squisitamente sistemica della crisi, come dovrebbe essere ormai evidente a chi non si limita ad osservare la superficie dei fenomeni. Le colpe, però, devono - e non può essere diversamente - essere fatte risalire direttamente al modello (di sviluppo) economico adottato e alle sue logiche interne. Un modello in cui i mercati finanziari non erano ospiti o estranei. I mercati finanziari avevano e hanno un ruolo chiave. Che era (e rimane) quello di moltiplicare – con annessa proliferazione di prodotti sempre più rischiosi e truffaldini – la “rendita” prodotta dall’impiego del capitale e nel contempo riuscire a gestire il rischio (che avrebbe dovuto essere sopportato, in primo luogo, dalla cosiddetta impresa del credito) facendovi fronte in modo efficiente.

Da un punto di vista mecroeconomico, sappiamo che fin dall’affermazione delle teorie monetariste di Milton Friedman e in contesti non uguali all’attuale, si è ampiamente utilizzata la leva monetaria, abbandonando quella fiscale per giungere ad una rilevante defiscalizzazione del capitale, ma anche al fine di sostenere ed espandere la domanda, e possiamo notare come l’ormai epocale trasferimento di ricchezza dal Lavoro al Capitale ha creato insufficienze crescenti della domanda nei paesi “ricchi”, che in parte significativa la esprimono, con esiti decisamente recessivi. Dal lato micro, invece, si può fare direttamente riferimento ai modelli di business adottati in campo finanziario dalle “imprese” che trattano il credito – fra le quali le grandi banche commerciali anglo-americane, ben rappresentate nella vicenda dalla Leheman Brothers – in un contesto di privatizzazione, esteso a tutto l’occidente e sulla scorta della “tradizione” anglosassone, dei sistemi bancari e creditizi, per sottrarli definitivamente ad interferenze “esterne” non gradite e al controllo pubblico, rispondendo in toto ai desideri (e alle imposizioni) del top globalista.

La tensione verso una sempre maggiore “creazione di valore” nel breve e la necessità di liberarsi dai rischi crescenti che ciò implicava - CDO e CDS sono, in tal senso, prodotti “simbolo” dell’epoca e della realizzazione pratica del paradigma neoliberista - si diceva: questa tensione verso il massimo dei profitti possibile nel più breve tempo possibile oltre a spingere alla speculazione su ogni cosa nella ricerca inesausta di nuove “terre vergini” da sfruttare – nel caso sub-prime la povertà, la necessità di avere una casa, anche se si è ridotti con pochi mezzi e scarse prospettive, il disagio sociale diffuso, eccetera – ha imposto di scaricare i crescenti rischi “sul mercato”, innescando una micidiale “catena di Sant’Antonio”. Che aveva un unico obiettivo: incassare le commissioni subito e liberarsi quanto prima del “pacco esplosivo”, che poi però in diverse occasioni - (s)fortuanatamente - è tornato al mittente. Cioè a quei banchieri e a quei finanzieri che speravano di essersene liberati.

Per dirla con le parole di Alberto Berrini, tratte dall’ottimo libro “Come si esce dalla crisi”: “Il modello di business (appena descritto, Nda) è stato definito Originate to Distribute (OTD; faccio un prestito e cedo il rischio) rispetto al precedente Originate to Hold (faccio un prestito e tengo il rischio)”. Se ci si addentra nei meandri della vicenda sub-prime - che è stato unanimemente riconosciuto come l’innesco che ha fatto esplodere la crisi - si comprende come l’origine della stessa non può essere che sistemica e non certo individuale. Per la semplice ragione che i suoi presupposti derivano direttamente dalle logiche del capitalismo contemporaneo e dai modelli adottati dalle imprese creditizie, compresi i grandi “incentivi” concessi agli stessi banchieri-manager, in una perversa “meritocrazia”, in realtà completamente priva di riscontri nella realtà economica.

In conclusione. L’espressione banchieri che hanno sbagliato è quindi destituita di ogni fondamento ed è una fola diffusa dalla propaganda sistemica per fuorviare l’opinione pubblica. I banchieri non hanno sbagliato e ne sono consapevoli. Si sono limitati, in un contesto “sfidante” - dominato dalla tensione al cambiamento e dalla flessibilità - a aderire alle logiche di questo brutto modello di capitalismo. E anzi si può dire che ne abbiano saputo cogliere la sostanza.

Come degli autentici “animal spirits” liberati dal capitalismo finanziario, questi soggetti hanno semplicemente assicurato al top globalista e a loro stessi enormi guadagni (di rapina) nel breve termine, unico orizzonte temporale possibile quando si naviga nel procelloso mare della globalizzazione. I banchieri-manager sono stati - e sono tuttora, - i generali e i quadri di eserciti mercenari, predatori, senza divise e disciplina di campo – in una curiosa e ardita similitudine con le estenuanti guerre europee di religione e nazionali degli ottanta anni, che si sono concluse, nel 1648, con la pace di Westfalia – incaricati della lotta per il reperimento delle risorse nella mal frequentata dimensione finanziaria. Infatti, la profondità e la gravità dei dissesti finanziari che hanno provocato una concreta crisi economica planetaria altro non sono che indicatori dell’intensità, e della “violenza”, raggiunte dallo scontro fra i gruppi di vertice della classe globale, i quali sono da tempo saldamente insediati nei gangli vitali della riproduzione strategica della totalità sociale, e quindi anche nei centri del potere finanziario.

L’aspetto drammatico della questione è che le conseguenze di queste lotte elitistiche, e dell’agire di tali soggetti, non restano confinate in una dimensione “superiore” a quella del nostro quotidiano, ma le avvertiamo anche noi, nella vita di tutti i giorni, negli ambienti di lavoro, in supermercati e negozi, nei rapporti interpersonali occasionali o consolidati, fin dentro le stesse mura domestiche.

Eugenio Orso

26 novembre 2009

Daniel Estulin sulla sua inchiesta sul Club Bilderberg

club bilderberg
La copertina
Il libro, pubblicato fino ad oggi in Spagna, Portogallo, Bulgaria, Brasile, Olanda, Giappone, Usa, arriva anche in Italia: contiene foto degli incontri e vari documenti tra cui alcune lettere di invito alla riunione e liste dei partecipanti. E dal libro sarà realizzato anche un film a Hollywood: la Halcyon Company infatti, proprietaria dei diritti cinematografici della saga di Terminator, ha comprato i diritti del libro di Daniel Estulin e ha in programma di realizzare un film da 120milioni di dollari.

La riunione del Gruppo di quest'anno si è svolta in Grecia dal 14 al 17 maggio: il nostro paese era rappresentato da Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Draghi, Romano Prodi, Franco Bernabè, John Elkann. E l'autore dell'inchiesta Daniel Estulin, in Italia per presentare l'ultima versione del suo libro, sceglie Affaritaliani.it per svelare i retroscena degli incontri del Club.

Nel suo libro ha scritto che l'obiettivo della riunione 2009 del Club è stato quello di trasformare l'Unione Europea in un governo multinazionale. Pensa che questo sarà davverò realizzato?
"E' stato approvato il trattato di Lisbona. Esiste di fatto una dittatura europea di un gruppo di persone le cui decisioni non sono appellabili da nessuno".

daniel estulin
Daniel Estulin


Esistono degli obiettivi del Club che sono stati realizzati nel corso degli anni?
"Si, esistono. Per esempio la guerra in Iraq, progettata a maggio del 2002 per febbraio-marzo del 2003; il prezzo del petrolio, salito da 20 a 100 dollari al barile dal 2002 al 2007 e ancora da 100 a 150 dollari al barile dal 2005 a metà 2008. Oppure l'implosione dei prezzi delle case nel 2006 o la guerra in Kosovo nel 1996".

Come è cambiata la funzione del Club nel corso degli anni?

"Dalla caduta del Comunismo il Club Bilderberg ha incluso personalità provenienti dai paesi del Patto di Varsavia mentre prima il Gruppo si basava sull'alleanza della Nato".


Le riunioni del Gruppo hanno una connotazione politica? Se si, a destra o a sinistra? Ed è cambiata nel corso degli anni?

"Il gruppo è formato da personalità che hanno una visione globale e di conseguenza imperialista, come se fossero costruttori di un impero. Un impero costruito alle spese delle varie repubbliche nazionali. Non ci sono connotazioni politiche, né di destra né di sinistra: è applicato il concetto di sinarchia internazionale (un ipotetico governo occulto planetario, o "governo ombra", che gestisce invisibilmente le trame della politica e dell'economia mondiale e che decide i destini dell'umanità, ndr)".

Quali sono i paesi che hanno maggiore influenza all'interno del Club?

"Ovviamente gli Stati Uniti: un terzo dei delegati proviene infatti da questo paese. A parte gli Usa, anche la Gran Bretagna e la Germania sono ben rappresentati. L'Italia ha una forte rappresentanza attraverso le antiche famiglie italiane, come gli Agnelli che sono oggi rappresentati da John Elkann".

Secondo lei qual è il ruolo dell'Italia nel Club? E' cambiato nel corso degli anni?

"L'Italia è l'epicentro del potere del Club attraverso la nobiltà veneziana. La regina di Inghilterra, il membro più influente del Gruppo, appartiene infatti per discendenza ai Marchesi d'Este di Venezia".

C'è qualcosa che avrebbe voluto scrivere nel libro e non ha fatto?

"Se si riferisce alla censura, no non c'è: ho scritto tutto quello che volevo nell'edizione inglese del libro. La versione italiana è la diretta traduzione di quella inglese. In Spagna invece il mio editore, Planeta, mi ha vietato di menzionare i reali di Spagna e il loro ruolo all'interno del Club. Sono stato lasciato invece più libero di parlare di altre cose. Ho seguito queste indicazioni anche se quando il libro è uscito ho pubblicamente criticato il ruolo della famiglia reale spagnola nel Club".

02 dicembre 2009

Wto: l'unica certezza è che il modello (perdente) non si cambia

La fine della WTO, tante volte decretata, quante respinta e negata. E così le Ministeriali si continuano a fare, senza troppa passione e con sempre meno pubblicità, ma sempre con il pericolo che qualche infausta decisione passi sopra la testa delle popolazioni aggravandone di più la già pesante situazione.

Su quest'ultima in anticipo ci si è affrettati a dire che non si sarebbe negoziato nulla, ma poi invece nella conferenza stampa d'apertura hanno dichiarato di volere una conclusione "rapida e di successo" per il ciclo di negoziati "dello sviluppo" lanciato dalla Wto nel 2001 a Doha, ma anche che il contenuto di sviluppo si è annacquato nei testi in discussione, e che ad esso è appeso, però, il risultato finale delle trattative.

Sono giunti a Ginevra oltre 2.700 delegati, di cui solo 139 su 153 membri dell'organizzazione, 350 giornalisti e circa 500 rappresentanti della società civile, e dopo la giornata di sabato dedicata ad una manifestazione antiWTO con anche alcuni dei protagonisti della "Battaglia di Seattle", che si è snodata per la città con tanto di trattori, ed imbarcazioni dei pescatori trasportate su dei carri - ma purtroppo anche preceduta da un po' di bande giovanili più casseurs forse che veri black bloc, che hanno fatto razzia di vetrine ed auto parcheggiate - domenica invece e' stata utilizzata dai ministri al commercio di Brasile, Argentina, Sudafrica, e alcuni tra gli Stati emergenti più influenti del G20, che in ambito Wto guidano il raggruppamento del G33, per "posizionarsi" rispetto a Europa e Stati Uniti in vista dell'apertura.

I Paesi in via di sviluppo affermano infatti di voler tenere in vita questo ciclo di negoziati e volerlo concludere presto e con successo, specificando però che per successo intendono che lo vogliono amico dello sviluppo. La Wto, ha il peccato originale di essere nato come club dei Paesi ricchi che negli anni è anche molto cambiato, il Doha round infatti è stato lanciato per aiutare i paesi poveri a migliorare le proprie condizioni attraverso un commercio più libero, ma il processo è lungo e resta ancora tanta strada da fare nel negoziato perché questo proposito diventi realtà.

Sembrerebbe esserci un accordo chiuso all'80% secondo lo stesso segretario generale Pascal Lamy, ma rimangono grandi differenze, su come esattamente i membri taglieranno le proprie tariffe sui prodotti agricoli e industriali, elimineranno i sussidi in agricoltura e apriranno il mercato dei servizi.
Il gruppo dei G20 in ambito Wto, coordinato dal Brasile, sostiene la necessità di una maggiore apertura dei mercati agricoli a Nord ma anche a Sud, e ha lanciato in direzione della ministeriale un documento nel quale ha affermato che l'agricoltura deve essere tema centrale in ogni accordo per via di come i sussidi dei Paesi ricchi stanno schiacciando i più poveri fuori dal mercato.

Un altro comunicato dei G33, gruppo coordinato dall'Indonesia che combatte per assicurare che i Paesi più poveri siano protetti in qualche modo dagli effetti più destabilizzanti dell'apertura dei mercati, hanno chiarito però in un proprio documento che ogni accordo debba proteggere i mezzi di sussistenza dei piccoli produttori soprattutto agricoli. Ma il negoziatore statunitense al commercio Ron Kirk, prima della partenza per Ginevra, ha chiarito che il suo Paese si sente impegnato, insieme ad altri, a giocare un ruolo di leadership nella Wto per spingere le esportazioni americane e far crescere il numero dei posti di lavoro ben pagati che gli americani vogliono e di cui hanno bisogno.

Un posizionamento chiaro che da solo getta un'ombra di grande incertezza sulla ministeriale che si apre in questi momenti.
Questo è pure un vertice diverso da tutti gli altri perché arriva in piena crisi economica, finanziaria, sociale ed ambientale, ma mentre nelle riunioni di G8 e G20 i leaders globali fanno a gara per mettere faccia e firme sotto proposte di ri-regolazione di borse e mercati finanziari, qui non si presentano e quasi alla chetichella tentano di chiudere un nuovo pacchetto di liberalizzazioni che ha perso tutti i suoi contenuti di riequilibrio Nord-Sud, che rischia di rafforzare il predominio di pochi interessi forti, a Nord come a Sud, alle spese dei diritti di tutti gli altri.

La Wto si è arenata da anni nell'esame di 17 diversi trattati, un pugno dei quali si occupa davvero di barriere doganali, tariffe e protezionismo, mentre la maggior parte cerca di limitare la capacità degli Stati di sostenere le produzioni "pulite" e i piccoli e medi produttori agricoli e manifatturieri, di vietare la costruzione di fondi nazionali di stimolo alla ripresa, che aiutino le imprese e i lavoratori del proprio Paese, di fissare parametri di gestione dei servizi pubblici perché siano prevalentemente in mano ai privati senza che i Parlamenti nazionali possano dire niente al riguardo.

L'ultima crisi economico finanziaria ha dimostrato l'insostenibilità di un sistema dove la finanza ed i capitali si sganciano dall'economia reale, dove persino il cibo diventa oggetto di speculazione finanziaria condannando alla fame oltre un miliardo di persone e questa crisi complessa ha dimostrato come i fallimenti del mercato siano alla base dei peggiori squilibri del pianeta, e come le ricette per curare questi disastri non possano essere le stesse proposte e riproposte da quasi trent'anni.

La soluzione alle attuali crisi alimentare, produttiva e climatica richiede un profondo e radicale spostamento da un'agricoltura e un modello energetico, industriale, produttivo, di distribuzione ed orientato all'esportazione, verso un'economia attenta ai bisogni del territorio, a Nord come a Sud. Non è più il momento di stare a guardare, è a rischio la stabilità e la sopravvivenza di intere comunità per gli anni a venire.

di Maurizio Gubbiotti

01 dicembre 2009

Il banchiere espiatorio




Stiamo vivendo il passaggio decisivo della crisi sistemica globale in cui il feticcio del PIL - ancora oggi asse portante di tutte le mistificazioni sul prodigioso “sviluppo”, la “crescita”, il “benessere” illimitati - tende a diventare sempre di più DIL per gran parte delle società umane. Assumendo l’acronimo in questione il significato di Disagio Interno Lordo e in futuro - se peggioreranno ancora le cose, come del resto è probabile - di Disperazione Interna Lorda. Le serie di dati economici, che scorrono come un fiume quotidianamente sotto i nostri occhi, pur nella loro contraddittorietà – sospese come sono fra rimbalzi, recuperi finanziari, chiusure aziendali e cadute ulteriori del prodotto – palesano lo spettro del declino della produzione e dei consumi, che non sarà l’unico problema epocale delle sole economie occidentali un tempo trionfanti.



In questo passaggio epocale assistiamo a un vero e proprio scontro fra irrealtà e realtà. Dove l’irrealtà è ben simboleggiata da una dimensione finanziaria “partita in orbita” intorno al globo terracqueo. Mentre la realtà è fatta di chiusure aziendali e dal downsizing, ovvero da licenziamenti a raffica. Ma soprattutto: la contrapposizione di fondo è tra la stabilità e la flessibilità; fra l’ordine e l’anarchia; fra la perduta solidità rappresentata da un mondo “burocratico” e da un tempo lineare, e l’evanescenza indotta da questo modello di capitalismo, con le sue pericolose discontinuità. In questa fase - di cui nessuno sa prevedere la durata perché “Ignota è l’architettura del domani” - la complessità che caratterizza il modo di produzione capitalistico dominante è tale che nessuno riesce compiutamente a definirlo ed indagarlo, sviluppando un’adeguata visione d’insieme.

Esistono tante definizioni di quel capitalismo contemporaneo che “viviamo sulla nostra pelle”. Ciascuna delle quali riesce forse a mettere in evidenza uno o due aspetti, pur rilevanti e caratterizzanti su vari piani – culturale ed ideologico, economico, sociologico, persino geopolitico – senza però riuscire a cogliere la totalità. Capitalismo neofeudale “senza classi” (questa è la definizione data dal filosofo Costanzo Preve); passaggio capitalistico dalla fase monocentrica “americana” a quella policentrica (Gianfranco La Grassa); capitalismo flessibile ( Richard Sennett); capitalismo parassitario ( Zygmunt Bauman); capitalismo totalitario (Marino Badiale e Massimo Bontempelli); e capitalismo assoluto. Queste definizioni rappresentano solo alcuni esempi di quanto affermo. Ma la stessa globalizzazione che costituisce la linfa vitale del modo di produzione dominante può essere intesa in molti modi: economico, culturale, salariale, e via dicendo.

Quello che è certo è che la prima fase della globalizzazione - iniziata in buona sostanza negli anni Ottanta del Novecento; consolidatasi progressivamente nei “ruggenti anni Novanta” (secondo una definizione dell’economista Stiglitz); e non ancora conclusa, ma già in via di esaurimento, come ci dimostra la persistenza della prima crisi del mondo globalizzato - è dominata da quello che potremmo, con una buona approssimazione, definire “modello capitalistico anglo-americano dell’economia dei servizi”. Un modello in cui i servizi finanziari hanno avuto la massima espansione e l’hanno fatta da padrone, “autonomizzandosi” rispetto all’economia reale e sopravanzandola di alcune lunghezze, ben oltre le sue capacità di assorbimento e sopportazione. Cosa che è accaduta a detrimento delle strutture produttive dei paesi “sviluppati”, provocando due effetti. Primo: una falcidia di posti di lavoro stabili soprattutto nelle produzioni a bassa intensità di capitale (e basso contenuto tecnologico); posti che sono stati solo in parte sostituiti da precari sottopagati. Secondo: trasferimenti significativi di know-how ai paesi detti emergenti, indotti dalla caduta delle barriere doganali e dal conseguente nomadismo planetario del capitale.

L’espansione finanziaria ha dato l’impressione alla massima potenza mondiale - ovvero gli Stati Uniti - di poter vivere per un tempo lungo, indefinito, al di sopra dei propri mezzi finanziando illimitatamente il debito. Mentre i “fondamentali” dell’economia, le produzioni tradizionali e le officine lasciavano il posto a produzione sempre più massiccia di carta e cartaccia: la paccottiglia del tipo CDS (Credit Default Swap) e CDO (Collateralized Debt Obligation). Come se la moltiplicazione della ricchezza di natura finanziaria fosse una riproposizione - in chiave storica e su un piano di immanenza del miracolo biblico - della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Nel frattempo la bassa produzione si affidava ai cosiddetti Paesi “emergenti”, realizzando il massimo della flessibilità dei lavoratori e sfruttando nuovi territori fino ad allora sotto-utilizzati o vergini, in un’assurda e suicida (in primo luogo per l’Occidente a guida americana) divisione internazionale del lavoro.

Anche per tali motivi, quelli che potremmo definire “i gruppi di comando elitistici” hanno avuto mano completamente libera nel reperimento di risorse sui mercati finanziari, e l’hanno fatto nel segno dell’assenza di limiti che connota il capitalismo in questa fase. Non ha torto Bauman – che nel saggio “Capitalismo parassitario” (pubblicato in Italia da Laterza) rievoca lo spettro di Rosa Luxemburg, l’autrice de “L’accumulazione del capitale”, che sosteneva che il capitalismo non può sopravvivere (e prosperare) senza le economie non capitalistiche - si diceva: non ha torto Bauman, quando mette in evidenza come il monstre che ci domina è nella sostanza nient’altro che un grande parassita, in costante ricerca di “terre vergini” da sfruttare fino all’esaurimento. O meglio di organismi ospitanti in cui si insedia per “nutrirsi” e riprodursi portandoli alla morte.

In realtà, i banchieri e i finanzieri fin dagli inizi dell’era globale hanno interpretato la completa assenza di limiti che connota il capitalismo contemporaneo come l’illimitata possibilità di accrescere una ricchezza apparentemente illusoria e smaterializzata. Con lo scopo immediato di una crescente “creazione del valore a favore dell’azionista”. E con il fine ultimo di mettere le mani su beni assai concreti: fabbriche, proprietà immobiliari, l’intero prodotto sociale. Le conseguenze del loro agire sui mercati ricordano molto l’effetto che io chiamo dello “sciame di cavallette”.

Le cavallette, divise in grandi sciami, si avventano affamate su campi e coltivi, predandoli fino all’esaurimento delle risorse, per poi spostarsi altrove rapidamente, come nubi minacciose nel cielo, e calare fameliche su altri campi e altri coltivi. I fertili coltivi - prima dello scoppio della crisi - erano rappresentati dai mercati dei crediti al consumo (rate e carte di credito) e dei mutui di seconda scelta (ovvero quelli concessi a persone che avevano scarse possibilità di pagarli, perchè avevano stipendi bassi e lavori instabili; mutui noti ai più come subprime). Mutui e crediti che sono stati allegramente cartolarizzati, per poi fare il “tranching”, tagliandoli a fette; e infine venduti, intascando le commissioni come prodotti in gran parte sopraffini, per niente adulterati e spesso degni addirittura del massimo dei voti in termini di affidabilità, cioè di una tripla “A”. Anche se poi si è scoperto che erano carta straccia.

Perfino inutile precisare che gli altri campi e gl’altri coltivi, predati dalle “cavallette” globaliste, sono gli essenziali mercati del petrolio e dell’energia, in cui il 95% dei futures trattati in questi ultimi anni non hanno avuto funzioni di copertura, a fronte di transazioni reali, ma bensì funzioni squisitamente speculative. Ed altri campi ed altri coltivi ancora erano i più decisivi prodotti agricoli e alimentari, dando così un significativo contributo alle esplosioni dei prezzi (inflazione da profitti), ma soprattutto alla malnutrizione e alla fame autentica di quasi un terzo dell’umanità. Ecco di cosa si è occupata - fra l’altro - la nuova “classe di servizio” del top globalista per creare valore in misura crescente, se non esponenziale, a vantaggio dei “Signori della mondializzazione”, in particolar modo a beneficio di quella Strategic Global class occidentale, che era intenta a “rastrellare” risorse ovunque e a qualsiasi costo sociale e ambientale.

Ma la difesa dei perversi meccanismi di questo capitalismo non è cessata neppure con la crisi. Anzi si è intensificata fino al delirio, con l’intensificarsi della caduta di tutti i suoi indicatori, dal PIL planetario a quello dei volumi del commercio mondiale.

Un temporaneo rimbalzo finanziario - per esempio: una ripresa dei guadagni speculativi o una crescita del PIL americano, dopo quattro trimestri negativi consecutivi e l’espulsione di milioni di lavoratori dal processo produttivo, con parte del “ceto medio” che perde la casa e va a vivere in roulotte - viene oggi venduta dalla propaganda del nuovo clero sistemico-mediatico come “l’uscita dalla crisi”, l’auspicato ritorno ad una “normalità” decisamente abnorme. Una “normalità” fondata su instabilità e cambiamento discontinuo ma irreversibile; sul fallimento esistenziale per moltissimi; sulla concentrazione di risorse in mani elitistiche; sul pieno controllo del “capitale umano” e del “capitale naturale”; e su di un gigantesco disegno omologante di riorganizzazione ideologico-culturale, venduto propagandisticamente come “morte delle ideologie”.

Questo processo si è sviluppato nel passaggio dalla routine alla flessibilità (come ha osservato Richard Sennett); dal mondo solido alla vita liquida (Zygmunt Bauman); dal capitalismo dialettico al capitalismo speculativo in senso hegeliano (Costanzo Preve). E non solo. A mio avviso: questo processo si è sviluppato anche nel passaggio dall’ordine sociale fondato sulla tripartizione “Borghesia-ceti medi figli del welfare novecentesco-Proletariato” alla dicotomia “Global class-Pauper class” che tenderà in futuro a cristallizzarsi in un nuovo ordine dagli aspetti quasi castali.

In questo quadro inquietante - di autentica “rimozione” di tutte le certezze e dei punti fermi esistenti nelle precedenti fasi capitalistiche - va inquadrato il problema dei finanzieri, dei manager della “industria del credito” e dei banchieri che hanno sbagliato, scatenando la prima crisi globale di origine chiaramente sistemica. In altra sede mi sono divertito a proporre l’amaramente ironico paragone fra i banchieri-manager che hanno sbagliato e i “compagni che sbagliano” nella stagione italiana del lungo sessantotto, della P38, del terrorismo e della clandestinità. Ma questo perché la pubblicistica del neoliberismo imperante ha spesso invocato - a discolpa del sistema - le responsabilità individuali di singoli soggetti, che mal avrebbero colto le splendide ed emancipative opportunità offerte dal libero mercato globale. Un esempio su tutti: il vituperato e incarcerato Bernie Madoff.

Perchè accusare i banchieri che sbagliano? Ovvio. Per nascondere agli occhi delle neoplebi e dei “ceti medi” occidentali, soggetti alla flessibilizzazione e alla ri-plebeizzazione, la natura squisitamente sistemica della crisi, come dovrebbe essere ormai evidente a chi non si limita ad osservare la superficie dei fenomeni. Le colpe, però, devono - e non può essere diversamente - essere fatte risalire direttamente al modello (di sviluppo) economico adottato e alle sue logiche interne. Un modello in cui i mercati finanziari non erano ospiti o estranei. I mercati finanziari avevano e hanno un ruolo chiave. Che era (e rimane) quello di moltiplicare – con annessa proliferazione di prodotti sempre più rischiosi e truffaldini – la “rendita” prodotta dall’impiego del capitale e nel contempo riuscire a gestire il rischio (che avrebbe dovuto essere sopportato, in primo luogo, dalla cosiddetta impresa del credito) facendovi fronte in modo efficiente.

Da un punto di vista mecroeconomico, sappiamo che fin dall’affermazione delle teorie monetariste di Milton Friedman e in contesti non uguali all’attuale, si è ampiamente utilizzata la leva monetaria, abbandonando quella fiscale per giungere ad una rilevante defiscalizzazione del capitale, ma anche al fine di sostenere ed espandere la domanda, e possiamo notare come l’ormai epocale trasferimento di ricchezza dal Lavoro al Capitale ha creato insufficienze crescenti della domanda nei paesi “ricchi”, che in parte significativa la esprimono, con esiti decisamente recessivi. Dal lato micro, invece, si può fare direttamente riferimento ai modelli di business adottati in campo finanziario dalle “imprese” che trattano il credito – fra le quali le grandi banche commerciali anglo-americane, ben rappresentate nella vicenda dalla Leheman Brothers – in un contesto di privatizzazione, esteso a tutto l’occidente e sulla scorta della “tradizione” anglosassone, dei sistemi bancari e creditizi, per sottrarli definitivamente ad interferenze “esterne” non gradite e al controllo pubblico, rispondendo in toto ai desideri (e alle imposizioni) del top globalista.

La tensione verso una sempre maggiore “creazione di valore” nel breve e la necessità di liberarsi dai rischi crescenti che ciò implicava - CDO e CDS sono, in tal senso, prodotti “simbolo” dell’epoca e della realizzazione pratica del paradigma neoliberista - si diceva: questa tensione verso il massimo dei profitti possibile nel più breve tempo possibile oltre a spingere alla speculazione su ogni cosa nella ricerca inesausta di nuove “terre vergini” da sfruttare – nel caso sub-prime la povertà, la necessità di avere una casa, anche se si è ridotti con pochi mezzi e scarse prospettive, il disagio sociale diffuso, eccetera – ha imposto di scaricare i crescenti rischi “sul mercato”, innescando una micidiale “catena di Sant’Antonio”. Che aveva un unico obiettivo: incassare le commissioni subito e liberarsi quanto prima del “pacco esplosivo”, che poi però in diverse occasioni - (s)fortuanatamente - è tornato al mittente. Cioè a quei banchieri e a quei finanzieri che speravano di essersene liberati.

Per dirla con le parole di Alberto Berrini, tratte dall’ottimo libro “Come si esce dalla crisi”: “Il modello di business (appena descritto, Nda) è stato definito Originate to Distribute (OTD; faccio un prestito e cedo il rischio) rispetto al precedente Originate to Hold (faccio un prestito e tengo il rischio)”. Se ci si addentra nei meandri della vicenda sub-prime - che è stato unanimemente riconosciuto come l’innesco che ha fatto esplodere la crisi - si comprende come l’origine della stessa non può essere che sistemica e non certo individuale. Per la semplice ragione che i suoi presupposti derivano direttamente dalle logiche del capitalismo contemporaneo e dai modelli adottati dalle imprese creditizie, compresi i grandi “incentivi” concessi agli stessi banchieri-manager, in una perversa “meritocrazia”, in realtà completamente priva di riscontri nella realtà economica.

In conclusione. L’espressione banchieri che hanno sbagliato è quindi destituita di ogni fondamento ed è una fola diffusa dalla propaganda sistemica per fuorviare l’opinione pubblica. I banchieri non hanno sbagliato e ne sono consapevoli. Si sono limitati, in un contesto “sfidante” - dominato dalla tensione al cambiamento e dalla flessibilità - a aderire alle logiche di questo brutto modello di capitalismo. E anzi si può dire che ne abbiano saputo cogliere la sostanza.

Come degli autentici “animal spirits” liberati dal capitalismo finanziario, questi soggetti hanno semplicemente assicurato al top globalista e a loro stessi enormi guadagni (di rapina) nel breve termine, unico orizzonte temporale possibile quando si naviga nel procelloso mare della globalizzazione. I banchieri-manager sono stati - e sono tuttora, - i generali e i quadri di eserciti mercenari, predatori, senza divise e disciplina di campo – in una curiosa e ardita similitudine con le estenuanti guerre europee di religione e nazionali degli ottanta anni, che si sono concluse, nel 1648, con la pace di Westfalia – incaricati della lotta per il reperimento delle risorse nella mal frequentata dimensione finanziaria. Infatti, la profondità e la gravità dei dissesti finanziari che hanno provocato una concreta crisi economica planetaria altro non sono che indicatori dell’intensità, e della “violenza”, raggiunte dallo scontro fra i gruppi di vertice della classe globale, i quali sono da tempo saldamente insediati nei gangli vitali della riproduzione strategica della totalità sociale, e quindi anche nei centri del potere finanziario.

L’aspetto drammatico della questione è che le conseguenze di queste lotte elitistiche, e dell’agire di tali soggetti, non restano confinate in una dimensione “superiore” a quella del nostro quotidiano, ma le avvertiamo anche noi, nella vita di tutti i giorni, negli ambienti di lavoro, in supermercati e negozi, nei rapporti interpersonali occasionali o consolidati, fin dentro le stesse mura domestiche.

Eugenio Orso

26 novembre 2009

Daniel Estulin sulla sua inchiesta sul Club Bilderberg

club bilderberg
La copertina
Il libro, pubblicato fino ad oggi in Spagna, Portogallo, Bulgaria, Brasile, Olanda, Giappone, Usa, arriva anche in Italia: contiene foto degli incontri e vari documenti tra cui alcune lettere di invito alla riunione e liste dei partecipanti. E dal libro sarà realizzato anche un film a Hollywood: la Halcyon Company infatti, proprietaria dei diritti cinematografici della saga di Terminator, ha comprato i diritti del libro di Daniel Estulin e ha in programma di realizzare un film da 120milioni di dollari.

La riunione del Gruppo di quest'anno si è svolta in Grecia dal 14 al 17 maggio: il nostro paese era rappresentato da Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Draghi, Romano Prodi, Franco Bernabè, John Elkann. E l'autore dell'inchiesta Daniel Estulin, in Italia per presentare l'ultima versione del suo libro, sceglie Affaritaliani.it per svelare i retroscena degli incontri del Club.

Nel suo libro ha scritto che l'obiettivo della riunione 2009 del Club è stato quello di trasformare l'Unione Europea in un governo multinazionale. Pensa che questo sarà davverò realizzato?
"E' stato approvato il trattato di Lisbona. Esiste di fatto una dittatura europea di un gruppo di persone le cui decisioni non sono appellabili da nessuno".

daniel estulin
Daniel Estulin


Esistono degli obiettivi del Club che sono stati realizzati nel corso degli anni?
"Si, esistono. Per esempio la guerra in Iraq, progettata a maggio del 2002 per febbraio-marzo del 2003; il prezzo del petrolio, salito da 20 a 100 dollari al barile dal 2002 al 2007 e ancora da 100 a 150 dollari al barile dal 2005 a metà 2008. Oppure l'implosione dei prezzi delle case nel 2006 o la guerra in Kosovo nel 1996".

Come è cambiata la funzione del Club nel corso degli anni?

"Dalla caduta del Comunismo il Club Bilderberg ha incluso personalità provenienti dai paesi del Patto di Varsavia mentre prima il Gruppo si basava sull'alleanza della Nato".


Le riunioni del Gruppo hanno una connotazione politica? Se si, a destra o a sinistra? Ed è cambiata nel corso degli anni?

"Il gruppo è formato da personalità che hanno una visione globale e di conseguenza imperialista, come se fossero costruttori di un impero. Un impero costruito alle spese delle varie repubbliche nazionali. Non ci sono connotazioni politiche, né di destra né di sinistra: è applicato il concetto di sinarchia internazionale (un ipotetico governo occulto planetario, o "governo ombra", che gestisce invisibilmente le trame della politica e dell'economia mondiale e che decide i destini dell'umanità, ndr)".

Quali sono i paesi che hanno maggiore influenza all'interno del Club?

"Ovviamente gli Stati Uniti: un terzo dei delegati proviene infatti da questo paese. A parte gli Usa, anche la Gran Bretagna e la Germania sono ben rappresentati. L'Italia ha una forte rappresentanza attraverso le antiche famiglie italiane, come gli Agnelli che sono oggi rappresentati da John Elkann".

Secondo lei qual è il ruolo dell'Italia nel Club? E' cambiato nel corso degli anni?

"L'Italia è l'epicentro del potere del Club attraverso la nobiltà veneziana. La regina di Inghilterra, il membro più influente del Gruppo, appartiene infatti per discendenza ai Marchesi d'Este di Venezia".

C'è qualcosa che avrebbe voluto scrivere nel libro e non ha fatto?

"Se si riferisce alla censura, no non c'è: ho scritto tutto quello che volevo nell'edizione inglese del libro. La versione italiana è la diretta traduzione di quella inglese. In Spagna invece il mio editore, Planeta, mi ha vietato di menzionare i reali di Spagna e il loro ruolo all'interno del Club. Sono stato lasciato invece più libero di parlare di altre cose. Ho seguito queste indicazioni anche se quando il libro è uscito ho pubblicamente criticato il ruolo della famiglia reale spagnola nel Club".