21 febbraio 2010

Potere e comando, volonta' e richiesta


Ogni volta che parlo di politica casco sempre nelle stesse inutili discussioni. Sembra che per l'italiano medio sia impossibile distinguere il potere dal comando, e che sia impossibile distinguere la volonta' dalle richieste. Andiamo un attimo nel dettaglio.

Nessuno capisce quello che intendo dire quando dico che Obama sta fallendo perche' non e' un uomo potente. Tutti dicono che e' Presidente, quindi e' potente. No. La democrazia NON da nessun genere di potere agli eletti. Da' soltanto la posizione di comando. Che non e' automaticamente una posizione di potere. Facciamo un esempio stupido: le leggi del presidente devono venire approvate dal senato. Cosa succede se un senatore democratico vota contro? Obama non gli puo' fare nulla di nulla, e la legge viene respinta o modificata. Adesso supponiamo che al posto di Obama ci sia Hillary. E il senatore democratico dell' Oklahoma vuole votare contro. Hillary lo convochera', e gli fara' sapere che e' il suo clan politico e la sua rete di networking a decidere chi sara' il prossimo candidato democratico in Oklahoma. E se il signore desidera continuare a sedere sulla sua sedia, e' meglio che voti la legge di Hillary. Questa e' la differenza tra potere e comando: la democrazia ha dato a Obama il comando. Ma non il potere. Il potere esiste a prescindere dalle elezioni, e puo' diventare comando se il cittadino vuole. Ma attenzione: il cittadino NON puo' decidere chi avra' il comando, ma quale potente avra' il comando. Perche' se si illude che il comando produca il potere, mettera' al comando un individuo impotente come Obama. E il comando sara' inutile. Lo stesso vale per le lobby. Se la lobby delle assicurazioni si oppone ad Obama, lui puo' farci poco. Se la lobby delle assicurazioni si oppone a Hillary, Hillary puo' semplicemente dire: signori, grazie allo spoil system(1) il direttore/altro pezzo grosso dell' IRS e' uno del mio clan. Siete in regola col fisco? Magicamente, la Lobby le obbedira'. Morale della storia: il popolo non puo' davvero decidere chi mandare al governo. Se vuole un governo ce faccia delle cose, deve garantirsi sia il comando (col voto) che il potere (un candidato con un grosso clan di amicizie e alleanze alle spalle). Ovviamente, il popolo puo' cortocircuitare il processo e mandare un uomo senza potere al comando. Il risultato sara' che dopo due anni di "change" non si e' ancora visto nulla. Perche' Obama e' al comando ma NON ha il potere. Questa e' la ragione per cui approvo l'attuale sistema elettorale italiano: poiche' il partito decide chi candidare e chi no, ha potere sui parlamentari, tranne alcune finestre nelle quali si apre una trattativa coi gia' eletti, prima delle elezioni amministrative. In questo modo, i parlamentari devono marciare allineati e coperti, e chi ha il comando ha anche il potere. Inoltre, Berlusconi e' gia' potente senza elezioni, quindi ha ancora piu' leve. Anche se vincesse la sinistra, essendo praticamente un partito privo di potere, non combinerebbe una cippa, come e' sempre stato sinora. In Emilia governano perche' oltre al comando hanno un certo potere collaterale: altrimenti , non hanno speranza. Non votero' mai, alle politiche, un candidato che non abbia potere, perche' so come finira'. In definitiva, Governo = Comando * Potere. Se il potere e' nullo, non si governa: pur avendo ricevuto il comando dalle elezioni. Il vero requisito alla candidatura dovrebbe essere il potere gia' in mano al candidato. Altrimenti, questo rendera' inutile il comando. E si mandera' al comando un inutile temporeggiatore. Le elezioni possono dare un posto di comando, ma non il potere. Secondo punto: la democrazia fa sempre quello che il cittadino VUOLE. Quando dico questo, nasce un gigantesco malinteso tra cio' che il cittadino "vuole" e cio' che il cittadino "chiede". La richiesta e' l'argomento politico, che permette al partito di fare politica. La volonta' e' il risultato oggettivo che il cittadino desidera sperimentare nella vita quotidiana. Tutti i cittadini di Milano chiedono al comune meno traffico e meno inquinamento. Esistono in commercio automobili ibride che consumano, sul tratto urbano, circa un terzo delle altre.(2) Se tutti usassero auto ibride in citta', sarebbe come fermare il traffico due giorni alla settimana. I cittadini che chiedono meno inquinamento si sono tuffati a comprare auto ibride? Lo hanno fatto i verdi? No. Il cittadino CHIEDE meno inquinamento, ma VUOLE guidate un'automobile inquinante. I cittadini chiedono un traffico migliore. Quando il cittadino di Milano parcheggia in doppia fila, che cosa vuole? Vuole , ovviamente, che nessuno gli faccia una contravvenzione. Molto bene: torniamo alla mia affermazione. Il governo democratico fa quello che il cittadino VUOLE e non quello che il cittadino CHIEDE significa che accontentera' il cittadino quando compra auto inquinanti in citta' e quando parcheggia in doppia fila. Se possibile, si sforzera' anche di migliorare il traffico, ma la priorita' e' quanto il cittadino VUOLE. Se tutti CHIEDIAMO piu' meritocrazia ma contemporaneamente ci presentiamo agli esami con tesine copiate e appunti nascosti ovunque, quello che vogliamo e' MENO meritocrazia. E la democrazia fa sempre quello che VOGLIAMO. E' semplice: non sempre si chiede cio' che si vuole. Non e' possibile fare un partito che dica "voglio parcheggiare in doppia fila", il partito puo' solo "chiedere meno traffico". I governi democratici hanno imparato bene questa differenza, e sanno bene che se non danno al cittadino quel che chiede, bastano due o tre chiacchiere e il cittadino li rivota. Se invece non danno al cittadino cio' che VUOLE, egli viene colpito nella sua esistenza quotidiana, e si infuria. Il cittadino essenzialmente VUOLE delle cose che esistono gia', ma CHIEDE delle cose che non esistono ancora. Ovviamente, e' molto piu' sgradito al cittadino il governo che colpisca l'esistente, piuttosto che un governo che non realizzi l'inesistente. Se il comune di Milano non da' un traffico migliore, si rimane cosi'. Il cittadino valuta se accettare o meno le scuse per il mancato miglioramento. Se invece iniziamo a multare chi parcheggia in doppia fila, a tappeto, il cittadino perde qualcosa che ha gia': la possibilita' di fare i propri porci comodi.

  • Il cittadino VUOLE le cose che effettivamente fa o ha fatto o fara', con i relativi vantaggi.
  • Il cittadino CHIEDE cose che non ci sono ancora e delle quali piacerebbe godere.

E' ovvio che disattendere la prima richiesta colpisce direttamente il cittadino nel quotidiano, mentre disattendere la seconda si limita a mortificare i suoi desideri o i suoi ideali. E' ovvio che un governo basato sul consenso badera' alla prima delle richieste, e si dedichera' alla seconda solo se resta tempo, o restano risorse. Se le due richieste sono incompatibili, perche' e' impossibile avere un traffico migliore (richiesta) se tutti parcheggiano in doppia fila impuniti (volonta') allora vincera' la volonta' sulla richiesta. E' semplicissimo, e mi meraviglia di dover puntualizzare questi due semplicissimi concetti ogni volta che parlo di politica.

note

(1) In italiano: lottizzazione. Ma in USA e' figo perche' si chiama spoil system, provincialotti che non siete altro. (2) Ho chiesto conferma di questa affermazione ad alcuni tassisti, che la usano e ne sono entusiasti. Tra l'altro apprezzano molto la sua silenziosita', cosa che capisco perche' abitano l'auto per molto tempo.

di Uriel

19 febbraio 2010

Il perché dobbiamo cambiare il capitalismo.




In un estratto del suo nuovo libro, Freefall, l'ex economista capo della Banca mondiale spiega perché le banche dovrebbero essere smembrate e perché l'Occidente dovrebbe ridurre i consumi.

Nel corso della Grande recessione cominciata nel 2008 milioni di persone, negli USA e nel resto del mondo, hanno perso casa e lavoro, molti altri hanno temuto di dover subire la stessa sorte, e praticamente tutti quelli che avevano accantonato soldi per la pensione o per l'istruzione dei figli hanno visto i propri risparmi ridursi a una frazione del valore iniziale.

Una crisi scoppiata negli Usa è diventata ben presto globale, man mano che in tutto il mondo decine di milioni d'individui – venti nella sola Cina - perdevano il posto di lavoro e altrettanti si scoprivano poveri.



Non è così che si pensava sarebbero andate le cose. I moderni economisti, con la loro cieca fede nel libero mercato e nella globalizzazione, avevano promesso prosperità per tutti, e davano per scontato che la tanto decantata "Nuova economia", con le stupefacenti innovazioni (tra l'altro liberalizzazione e ingegneria finanziaria) che avevano marcato la seconda metà del XX secolo, avrebbe consentito una migliore gestione dei rischi e posto fine al susseguirsi dei cicli economici. Se la combinazione di Nuova economia e nuovi strumenti economici non poteva eliminare del tutto le fluttuazioni economiche poteva quanto meno tenerle sotto controllo. O almeno questo ci hanno raccontato.

La Grande recessione, il peggior incubo dopo la Grande depressione di 75 anni prima, ha spazzato via tutte le illusioni, e ci sta obbligando a ripensare i nostri tanto amati punti di vista.

Per 25 anni alcune dottrine sui liberi mercati hanno dominato incontrastate: i mercati liberi e senza controlli sono efficienti e se sbagliano si autocorreggono rapidamente, il miglior governo è un governo con pochi poteri, le normative non fanno altro che ostacolare l'innovazione, le banche centrali dovrebbero essere indipendenti e concentrarsi sul contenimento dell'inflazione.

Oggigiorno anche Alan Greenspan, il grande sacerdote dell'ideologia liberista a capo della FED nel periodo in cui tali opinioni prevalevano, ha dovuto ammettere che in questo modo di pensare c'erano delle falle, ma la sua confessione è arrivata troppo tardi per tutti coloro che ne hanno subito le conseguenze.

Col tempo qualsiasi crisi viene superata, ma tutte, in particolare se così drammatiche, lasciano il segno. Quella del 2008 offre nuovi punti di riflessione nella tradizionale disputa sul sistema economico capace di distribuire i massimi benefici.

Credo che i mercati siano alla base di qualsiasi economia di successo, ma che non funzionino automaticamente bene. In questo senso seguo la linea del noto economista britannico John Maynard Keynes, la cui influenza domina negli studi dei moderni economisti.

I governi hanno un ruolo da svolgere, che non si riduce a salvare l'economia quando i mercati crollano o a regolamentarli per evitare il tipo di problemi che abbiamo appena sperimentato. Le economie esigono un equilibrio tra il ruolo dei mercati e quello del governo, con apporti fondamentali delle istituzioni private e senza fine di lucro; ma negli ultimi 25 anni gli USA non hanno rispettato questo equilibrio e hanno anzi esportato la loro visione distorta in tutto il mondo.

La crisi attuale ha messo in luce i difetti fondamentali del capitalismo, o per meglio dire di quella particolare versione del capitalismo (a volte definito capitalismo in stile americano) che ha visto la luce nell'ultima parte del XX secolo negli USA. Non si tratta solo di singole persone, di errori specifici, di problemi di dettaglio da risolvere, o di norme da modificare.

È stato difficile scoprire le falle, perché noi americani volevamo assolutamente credere nel nostro sistema economico: i "nostri ragazzi" avevano ottenuto risultati così spettacolari rispetto ai tradizionali arcinemici del blocco sovietico.

I numeri rafforzano la delusione. Dopo tutto la nostra economia stava crescendo molto più velocemente di quasi tutte le altre, a eccezione della Cina; e alla luce delle difficoltà che credevamo di scorgere nel sistema bancario cinese, era solo questione di tempo prima che implodesse.

Anche adesso, molti negano l'ampiezza dei problemi cui deve far fronte la nostra economia di mercato; una volta usciti dalla situazione attuale, e tutte le recessioni finiscono prima o poi, scommettono su una nuova vigorosa crescita. Ma uno sguardo più attento all'economia statunitense lascia intravedere altri problemi ben più profondi: una società in cui persino la classe media ha visto i propri guadagni stagnare per decenni, caratterizzata da una crescente ineguaglianza, e in cui, anche se vi sono notevoli eccezioni, le probabilità per un americano povero di arrivare al vertice sono inferiori a quelle della "vecchia Europa".

Si dice che l'esperienza di premorte obbliga a rivalutare le priorità e la scala di valori, e l'economia globale l'ha appunto provata. La crisi ha portato in luce non solo i difetti del modello economico imperante, ma anche quelli della nostra società: troppa gente ha profittato dei suoi simili. Quasi ogni giorno sono venuti alla luce comportamenti scorretti di coloro che lavorano nel settore finanziario: schema di Ponzi (una sorta di catena di S.Antonio in campo economico. NdT), uso d'informazioni riservate, comportamenti predatori, programmi di concessione di carte di credito per scroccare il più possibile agli sfortunati utilizzatori.

Il mio libro, Freefall, si occupa però non di quelli che hanno violato la legge ma di tutti coloro che, pur nel suo rispetto formale, hanno creato, impacchettato, spacchettato, e venduto prodotti tossici, lasciandosi coinvolgere in una spericolata attività che ha rischiato di distruggere l'intero sistema economico e finanziario. Il sistema è stato salvato, ma a un prezzo che è ancora difficile valutare.

Dovremmo considerare quello attuale un momento di analisi e riflessione, per pensare al tipo di società in cui vogliamo vivere e per chiederci: stiamo creando un'economia in grado di aiutarci a soddisfare le nostre aspirazioni?

Siamo andati ben avanti su una strada alternativa, creando una società in cui il materialismo ha il sopravvento sull'impegno morale, in cui il rapido sviluppo che abbiamo ottenuto non è sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, in cui non operiamo tutti assieme come società civile per far fronte ai bisogni comuni, in parte perché un feroce individualismo e un mercato fondamentalista hanno eroso il senso di appartenenza a un gruppo e hanno reso possibili un violento sfruttamento degl'individui privi di protezione.

Senza volerlo, gli economisti hanno offerto una giustificazione a questa mancanza di responsabilità morale. Una lettura superficiale dei suoi scritti ha instillato l'idea che Adam Smith avesse escluso ogni scrupolo morale da parte di chi operava sui mercati. Dopo tutto, se la ricerca dell'interesse personale conduce, come una mano invisibile, al benessere della società, tutto quello che bisogna fare è assicurarsi di star perseguendo al meglio l'interesse personale. Ed è proprio quello che sembrano aver fatto gli operatori del settore finanziario. Ma ovviamente, la ricerca dell'interesse personale, l'ingordigia, non ha condotto al benessere della società.

Il modello che combina individualismo esasperato e fondamentalismo di mercato ha modificato non solo il modo in cui i singoli vedono se stessi e le loro preferenze, ma anche il modo in cui si relazionano con gli altri. In un mondo d'individualismo esasperato non c'è bisogno di una comunità di soggetti o di una forma di società civile. Il governo rappresenta un ostacolo; è il problema, non la soluzione.

Ma se i difetti del mercato sono pervasivi è necessaria un'azione collettiva; gli accordi volontari non sono sufficienti (semplicemente perché non c'è alcun "obbligo"). Peggio ancora, l'individualismo esasperato e il materialismo rampante hanno finito col minare la fiducia. Anche in un'economia di mercato, la fiducia è il lubrificante che fa funzionare la società. Talvolta la società può funzionare anche in mancanza di fiducia, ma è un'alternativa molto meno interessante.


Nella crisi attuale i banchieri hanno perso la nostra fiducia e quella reciproca. Gli storici dell'economia hanno sottolineato il ruolo della fiducia nello sviluppo del commercio e delle attività bancarie. Se certe comunità si sono sviluppate a livello globale nei settori commerciale e finanziario è proprio perché i suoi membri avevano fiducia gli uni negli altri. La grande lezione di questa crisi è che, nonostante tutti i cambiamenti degli ultimi secoli, il nostro complesso settore finanziario continua a fondarsi sulla fiducia: quando viene meno, il sistema finanziario si blocca.

È facile evitare l'assunzione di rischi eccessivi; basta diffidare le banche dal farlo. Impedire alle istituzioni bancarie di usare meccanismi d'incentivazione che incoraggiano l'assunzione di rischi eccessivi e obbligarle ad una maggiore trasparenza richiederà molto tempo. Costringerà tra l'altro quelle che s'ingaggeranno in attività ad alto rischio ad aumentare di molto il capitale e a pagare più elevati premi assicurativi sui depositi. Ma sono necessarie anche altre riforme: sarà necessario limitare i leverage (quoziente d'indebitamento. NdT) e imporre restrizioni su alcuni prodotti particolarmente rischiosi.

Visto quello che è accaduto al settore economico, è ovvio che il governo federale dovrà approvare una versione aggiornata del Glass-Steagall Act. Non c'è scelta: bisogna severamente limitare la possibilità di assunzione dei rischi da parte delle istituzioni che sfruttano la posizione di banca commerciale – incluse le reti di protezione governative.

Ci sono troppi conflitti d'interesse e troppe difficoltà per consentire che le attività delle banche commerciali si mescolino con quelle delle banche d'investimento. I vantati benefici legati all'abolizione del Glass-Steagall Act si sono rivelati illusori, e i costi di gran lunga maggiori di quelli che anche i più feroci critici avevano temuto. I problemi sono particolarmente gravi nel caso delle banche "troppo grandi per poter fallire".

La necessità di rimettere in vigore il più rapidamente possibile il Glass-Steagall Act ci viene suggerita dal recente comportamento di alcune banche d'investimento, per le quali, ancora una volta, la trattazione di titoli si è dimostrata una proficua fonte d'investimenti.

La rapidità con cui, nell'autunno 2008, tutte le più importanti banche d'investimento si sono riconvertite in banche commerciali è preoccupante: avevano previsto il regalo del governo federale, ed erano evidentemente sicure che il loro modo di assumere rischi non avrebbe subito serie limitazioni. Adesso possono sfruttare le facilitazione offerte dalla FED e ottenere prestiti a costo zero. Sanno di essere protette da una nuova rete di sicurezza ma di potere al tempo stesso continuare indisturbate le loro operazioni ad alto rischio. È una situazione totalmente inaccettabile.

Esiste una ovvia soluzione al problema delle banche "troppo grandi per poter fallire": smembrarle. La sopravvivenza di queste istituzioni sarebbe giustificata solamente se permettessero significative economie di scala o copertura che altrimenti andrebbero perse. Non solo non ho trovato nessuna prova di un tale effetto, ma anzi tutto punta verso la conclusione che queste banche "troppo grandi per poter fallire" e troppo grandi per poter essere smembrate sono anche troppo grandi per poter essere gestite. Il loro vantaggio sul piano della concorrenza deriva dal loro potere monopolistico e dai sussidi governativi.

La crisi ha messo in luce, da Wall Street a Main Street, un profondo abisso tra la classe ricca statunitense e il resto della società: mentre i ricchi hanno ottenuto ottimi risultati negli ultimi 30 anni, le entrate della maggior parte dei cittadini sono rimaste stagnanti o si sono ridotte.

Le conseguenze sono state celate: quelli della classe inferiore, o anche della classe media, sono stati sollecitati a continuare a spendere come se i loro stipendi aumentassero senza sosta, a prendere soldi in prestito e a vivere al di sopra dei propri mezzi (e le bolle speculative hanno reso la cosa possibile). Le conseguenze del brusco ritorno alla realtà sono semplici: il livello di vita dovrà ridursi.

Qualcuno dovrà pagare il conto del salvataggio delle banche. Per la maggior parte degli americani, anche una ripartizione proporzionale sarebbe disastrosa. Con un reddito familiare mediano (reddito medio e reddito mediano non sono la stessa cosa. Il primo è la media dei vari valori della seriazione, il secondo è il suo valore centrale. NdT) che dal 2000 ha perso circa il 4%, non c'è scelta: se vogliamo preservare un barlume di giustizia, i costi devono essere a carico della classe alta, che ha tratto vantaggi sproporzionati negli ultimi 30 anni, e del settore finanziario, che ha scaricato tutti gli oneri sul resto della società.

Ma passare ai fatti non sarà facile. Il settore finanziario è riluttante ad ammettere i propri errori. Fa parte del comportamento morale e della responsabilità individuale accettare il biasimo quando è meritato: tutti gli esseri umani sono fallibili, anche i banchieri, che però, come possiamo constatare, si sono dati da fare per scaricarlo sugli altri, anche sulle vittime.

Gli USA non sono i soli a dover affrontare un duro riallineamento. Il sistema finanziario britannico è stato ancor più presuntuoso di quello statunitense. Prima del collasso, la Royal Bank of Scotland era la più grande banca europea; nel 2008 ha subito più perdite di qualsiasi altra banca al mondo. Proprio come negli USA, anche nel Regno Unito abbiamo assistito a una bolla speculativa immobiliare che è ora scoppiata. Adattarsi alla nuova realtà può significare una riduzione dei consumi del 10%.

Ne ho dedotto che le difficoltà cui devono far fronte il nostro paese e il resto del mondo impongono qualcosa di più di un piccolo riallineamento del sistema finanziario. Alcuni hanno detto che abbiamo avuto un piccolo problema nel nostro impianto idraulico: alcuni tubi si sono ostruiti. E abbiamo chiamato gli stessi idraulici che avevano installato l'impianto: avendo creato il pasticcio erano probabilmente gli unici a sapere come tirarcene fuori. Poco importa se ci hanno fatturato l'impianto e se ora ci fatturano la riparazione: dovremmo essere contenti perché il sistema funziona di nuovo, pagare il conto senza protestare, e sperare che questa volta abbiano fatto un lavoro migliore.

Ma si tratta di qualcosa di più grave di un semplice "problema idraulico": i difetti del sistema finanziario sono il segno di difetti ancora più gravi del sistema economico, e i difetti del sistema economico riflettono a loro volta quelli più profondi della nostra società. Abbiamo avviato il salvataggio senza avere le idee chiare sul tipo di sistema finanziario che volevamo, e il risultato è stato manipolato dalle stesse forze politiche che ci avevano messo nei guai. Eppure credevamo che il cambiamento fosse non solo possibile ma necessario.

Che alla fine della crisi vi saranno stati dei cambiamenti è sicuro; non possiamo tornare al mondo di prima. Ma le domande da porsi sono: quanto saranno profondi e importanti i cambiamenti? E andranno nella giusta direzione? In varie aree critiche, le cose sono andate ancora peggiorando nel corso della crisi. Abbiamo distorto non solo le nostre istituzioni, incoraggiando una maggiore concentrazione nel settore finanziario, ma le stesse regole del capitalismo. Abbiamo annunciato che le istituzioni privilegiate verranno sottoposte a una disciplina limitata, o nulla. Abbiamo creato un surrogato di capitalismo con regole poco chiare ma con prevedibili risultati: crisi future, assunzione indebita di rischi a spese della comunità (quali che siano le promesse di un nuovo regime normativo), e un'accresciuta inefficienza.

Abbiamo sostenuto l'importanza della trasparenza, ma abbiamo aumentato le possibilità delle banche di manipolare i libri contabili. Nelle crisi precedenti ci si preoccupava del rischio morale e degl'incentivi forniti dalle procedure di salvataggio; l'ampiezza di quella attuale ha mutato il significato di tali principi.

È diventato un luogo comune sottolineare che i caratteri cinesi della parola "crisi" riflettono "pericolo" e "opportunità". Ci siamo resi conto del pericolo. La domanda è: approfitteremo dell'opportunità per ridar vigore al principio di equilibrio tra mercato e stato, tra individualismo e comunità, tra uomo e natura, tra fine e mezzi?

In questo momento abbiamo l'opportunità di dar vita a un nuovo sistema finanziario che faccia ciò che gli essere umani pensano debba fare, di dar vita a un nuovo sistema economico che crei posti di lavoro utili e un lavoro dignitoso per tutti, e nel quale la differenza tra chi ha e chi non ha si riduca invece di allargarsi, e, soprattutto, di dar vita a una nuova società in cui ciascuno sia in grado di realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini condividano ideali e valori, in cui il nostro pianeta venga trattato col rispetto che esige. Ecco le vere opportunità. Il vero pericolo è che l'umanità non sia in grado di approfittarne.

Joseph Stiglitz

18 febbraio 2010

La politica: un poker con carte truccate

Chi scende in politica deve preventivare di sporcarsi le mani. I protagonisti di Razz (Daniela Piazza Editore, pagg. 228, euro 17) se le sporcano come non mai. Uomini e donne, di sinistra e di destra, non se ne salva nessuno. La Torino descritta da Augusto Grandi, giornalista del Sole 24 Ore, non è quella della Fiat, delle tradizioni occulte, dell’immigrazione selvaggia. È invece quella del sottobosco della politica-politicante che l’autore narra quasi in presa diretta, senza far sconti a nessuno. Un mondo che conosce molto bene e che ammanta del velo, in alcuni casi trasparente, in altri assai meno, dell’«opera di totale fantasia» sicché «ogni riferimento a persone e avvenimenti è del tutto casuale».

Sarà pure così, ma l’avventura di Dario Lo Gatto, avellinese trapiantato a Torino dove è diventato uno dei maggiori amministratori di condominio della città, e di tutte le figure politiche del centrodestra e del centrosinistra che lo circondano è emblematica di un modo corrente di vedere questo ambiente, sia piemontese che di ogni altra regione italiana. Emblematico quanto il titolo, perché Razz è il nome del poker californiano che si vince con il punteggio più basso. Siamo lì: la genìa rappresentata da Lo Gatto & soci esprime una politica in cui vince chi scende sempre più in basso moralmente, pur se in apparenza abita ai piani alti: dai capigruppo in Comune ai segretari politici locali, ai vicesegretari nazionali, dai sindaci ai prefetti, ai procuratori generali. È tutto un turbinoso incrociarsi di lotte intestine, spesso complicatissime, che servono a fare le scarpe non tanto ai nemici quanto agli amici, con l’unico scopo della carriera politica, costi quel che costi, anche vendendo e prostituendo (sapendo benissimo di farlo) corpi, menti e anime, maschili e femminili. Unico vero nemico è la cultura perché «con la filosofia non si mangia»…

Razz è la storia dell’ignorante ma saccente Dario, coinvolto in una partita di poker più grande di lui che vede dall’altro lato del tavolo massoneria, mafia russa, politica internazionale sotto forma di speculazione edilizia. La bolla si gonfierà, poi esploderà, ma alla fine, grazie a compromessi insospettabili fra politica, magistratura e stampa, si affloscerà. Passata la grande paura ogni cosa ricomincerà come prima. Gli unici a rimetterci saranno Dario, alle prese con un figlio insospettabilmente drogato, e la povera signora Gina, brava a vincere a poker, ma non a sfuggire a una morte che poteva servire a qualcuno e invece non servirà a nulla.

Chiari i bersagli di Grandi: la cosiddetta società civile, arrogante e incolta; la sfrenata corsa al potere a ogni livello; l’assoluta mancanza di onestà, dignità e idealità: l’amicizia è bandita, e l’accordo sotterraneo fra apparenti avversari politici per il bene di ognuno è quasi la prassi; soprattutto il disprezzo per la cultura che si manifesta attraverso un linguaggio sboccato e da trivio. Insomma, un affresco terribilmente impietoso, ma purtroppo veritiero quello di Augusto Grandi che evidentemente certi ambienti li conosce bene.

di Gianfranco de Turris

21 febbraio 2010

Potere e comando, volonta' e richiesta


Ogni volta che parlo di politica casco sempre nelle stesse inutili discussioni. Sembra che per l'italiano medio sia impossibile distinguere il potere dal comando, e che sia impossibile distinguere la volonta' dalle richieste. Andiamo un attimo nel dettaglio.

Nessuno capisce quello che intendo dire quando dico che Obama sta fallendo perche' non e' un uomo potente. Tutti dicono che e' Presidente, quindi e' potente. No. La democrazia NON da nessun genere di potere agli eletti. Da' soltanto la posizione di comando. Che non e' automaticamente una posizione di potere. Facciamo un esempio stupido: le leggi del presidente devono venire approvate dal senato. Cosa succede se un senatore democratico vota contro? Obama non gli puo' fare nulla di nulla, e la legge viene respinta o modificata. Adesso supponiamo che al posto di Obama ci sia Hillary. E il senatore democratico dell' Oklahoma vuole votare contro. Hillary lo convochera', e gli fara' sapere che e' il suo clan politico e la sua rete di networking a decidere chi sara' il prossimo candidato democratico in Oklahoma. E se il signore desidera continuare a sedere sulla sua sedia, e' meglio che voti la legge di Hillary. Questa e' la differenza tra potere e comando: la democrazia ha dato a Obama il comando. Ma non il potere. Il potere esiste a prescindere dalle elezioni, e puo' diventare comando se il cittadino vuole. Ma attenzione: il cittadino NON puo' decidere chi avra' il comando, ma quale potente avra' il comando. Perche' se si illude che il comando produca il potere, mettera' al comando un individuo impotente come Obama. E il comando sara' inutile. Lo stesso vale per le lobby. Se la lobby delle assicurazioni si oppone ad Obama, lui puo' farci poco. Se la lobby delle assicurazioni si oppone a Hillary, Hillary puo' semplicemente dire: signori, grazie allo spoil system(1) il direttore/altro pezzo grosso dell' IRS e' uno del mio clan. Siete in regola col fisco? Magicamente, la Lobby le obbedira'. Morale della storia: il popolo non puo' davvero decidere chi mandare al governo. Se vuole un governo ce faccia delle cose, deve garantirsi sia il comando (col voto) che il potere (un candidato con un grosso clan di amicizie e alleanze alle spalle). Ovviamente, il popolo puo' cortocircuitare il processo e mandare un uomo senza potere al comando. Il risultato sara' che dopo due anni di "change" non si e' ancora visto nulla. Perche' Obama e' al comando ma NON ha il potere. Questa e' la ragione per cui approvo l'attuale sistema elettorale italiano: poiche' il partito decide chi candidare e chi no, ha potere sui parlamentari, tranne alcune finestre nelle quali si apre una trattativa coi gia' eletti, prima delle elezioni amministrative. In questo modo, i parlamentari devono marciare allineati e coperti, e chi ha il comando ha anche il potere. Inoltre, Berlusconi e' gia' potente senza elezioni, quindi ha ancora piu' leve. Anche se vincesse la sinistra, essendo praticamente un partito privo di potere, non combinerebbe una cippa, come e' sempre stato sinora. In Emilia governano perche' oltre al comando hanno un certo potere collaterale: altrimenti , non hanno speranza. Non votero' mai, alle politiche, un candidato che non abbia potere, perche' so come finira'. In definitiva, Governo = Comando * Potere. Se il potere e' nullo, non si governa: pur avendo ricevuto il comando dalle elezioni. Il vero requisito alla candidatura dovrebbe essere il potere gia' in mano al candidato. Altrimenti, questo rendera' inutile il comando. E si mandera' al comando un inutile temporeggiatore. Le elezioni possono dare un posto di comando, ma non il potere. Secondo punto: la democrazia fa sempre quello che il cittadino VUOLE. Quando dico questo, nasce un gigantesco malinteso tra cio' che il cittadino "vuole" e cio' che il cittadino "chiede". La richiesta e' l'argomento politico, che permette al partito di fare politica. La volonta' e' il risultato oggettivo che il cittadino desidera sperimentare nella vita quotidiana. Tutti i cittadini di Milano chiedono al comune meno traffico e meno inquinamento. Esistono in commercio automobili ibride che consumano, sul tratto urbano, circa un terzo delle altre.(2) Se tutti usassero auto ibride in citta', sarebbe come fermare il traffico due giorni alla settimana. I cittadini che chiedono meno inquinamento si sono tuffati a comprare auto ibride? Lo hanno fatto i verdi? No. Il cittadino CHIEDE meno inquinamento, ma VUOLE guidate un'automobile inquinante. I cittadini chiedono un traffico migliore. Quando il cittadino di Milano parcheggia in doppia fila, che cosa vuole? Vuole , ovviamente, che nessuno gli faccia una contravvenzione. Molto bene: torniamo alla mia affermazione. Il governo democratico fa quello che il cittadino VUOLE e non quello che il cittadino CHIEDE significa che accontentera' il cittadino quando compra auto inquinanti in citta' e quando parcheggia in doppia fila. Se possibile, si sforzera' anche di migliorare il traffico, ma la priorita' e' quanto il cittadino VUOLE. Se tutti CHIEDIAMO piu' meritocrazia ma contemporaneamente ci presentiamo agli esami con tesine copiate e appunti nascosti ovunque, quello che vogliamo e' MENO meritocrazia. E la democrazia fa sempre quello che VOGLIAMO. E' semplice: non sempre si chiede cio' che si vuole. Non e' possibile fare un partito che dica "voglio parcheggiare in doppia fila", il partito puo' solo "chiedere meno traffico". I governi democratici hanno imparato bene questa differenza, e sanno bene che se non danno al cittadino quel che chiede, bastano due o tre chiacchiere e il cittadino li rivota. Se invece non danno al cittadino cio' che VUOLE, egli viene colpito nella sua esistenza quotidiana, e si infuria. Il cittadino essenzialmente VUOLE delle cose che esistono gia', ma CHIEDE delle cose che non esistono ancora. Ovviamente, e' molto piu' sgradito al cittadino il governo che colpisca l'esistente, piuttosto che un governo che non realizzi l'inesistente. Se il comune di Milano non da' un traffico migliore, si rimane cosi'. Il cittadino valuta se accettare o meno le scuse per il mancato miglioramento. Se invece iniziamo a multare chi parcheggia in doppia fila, a tappeto, il cittadino perde qualcosa che ha gia': la possibilita' di fare i propri porci comodi.

  • Il cittadino VUOLE le cose che effettivamente fa o ha fatto o fara', con i relativi vantaggi.
  • Il cittadino CHIEDE cose che non ci sono ancora e delle quali piacerebbe godere.

E' ovvio che disattendere la prima richiesta colpisce direttamente il cittadino nel quotidiano, mentre disattendere la seconda si limita a mortificare i suoi desideri o i suoi ideali. E' ovvio che un governo basato sul consenso badera' alla prima delle richieste, e si dedichera' alla seconda solo se resta tempo, o restano risorse. Se le due richieste sono incompatibili, perche' e' impossibile avere un traffico migliore (richiesta) se tutti parcheggiano in doppia fila impuniti (volonta') allora vincera' la volonta' sulla richiesta. E' semplicissimo, e mi meraviglia di dover puntualizzare questi due semplicissimi concetti ogni volta che parlo di politica.

note

(1) In italiano: lottizzazione. Ma in USA e' figo perche' si chiama spoil system, provincialotti che non siete altro. (2) Ho chiesto conferma di questa affermazione ad alcuni tassisti, che la usano e ne sono entusiasti. Tra l'altro apprezzano molto la sua silenziosita', cosa che capisco perche' abitano l'auto per molto tempo.

di Uriel

19 febbraio 2010

Il perché dobbiamo cambiare il capitalismo.




In un estratto del suo nuovo libro, Freefall, l'ex economista capo della Banca mondiale spiega perché le banche dovrebbero essere smembrate e perché l'Occidente dovrebbe ridurre i consumi.

Nel corso della Grande recessione cominciata nel 2008 milioni di persone, negli USA e nel resto del mondo, hanno perso casa e lavoro, molti altri hanno temuto di dover subire la stessa sorte, e praticamente tutti quelli che avevano accantonato soldi per la pensione o per l'istruzione dei figli hanno visto i propri risparmi ridursi a una frazione del valore iniziale.

Una crisi scoppiata negli Usa è diventata ben presto globale, man mano che in tutto il mondo decine di milioni d'individui – venti nella sola Cina - perdevano il posto di lavoro e altrettanti si scoprivano poveri.



Non è così che si pensava sarebbero andate le cose. I moderni economisti, con la loro cieca fede nel libero mercato e nella globalizzazione, avevano promesso prosperità per tutti, e davano per scontato che la tanto decantata "Nuova economia", con le stupefacenti innovazioni (tra l'altro liberalizzazione e ingegneria finanziaria) che avevano marcato la seconda metà del XX secolo, avrebbe consentito una migliore gestione dei rischi e posto fine al susseguirsi dei cicli economici. Se la combinazione di Nuova economia e nuovi strumenti economici non poteva eliminare del tutto le fluttuazioni economiche poteva quanto meno tenerle sotto controllo. O almeno questo ci hanno raccontato.

La Grande recessione, il peggior incubo dopo la Grande depressione di 75 anni prima, ha spazzato via tutte le illusioni, e ci sta obbligando a ripensare i nostri tanto amati punti di vista.

Per 25 anni alcune dottrine sui liberi mercati hanno dominato incontrastate: i mercati liberi e senza controlli sono efficienti e se sbagliano si autocorreggono rapidamente, il miglior governo è un governo con pochi poteri, le normative non fanno altro che ostacolare l'innovazione, le banche centrali dovrebbero essere indipendenti e concentrarsi sul contenimento dell'inflazione.

Oggigiorno anche Alan Greenspan, il grande sacerdote dell'ideologia liberista a capo della FED nel periodo in cui tali opinioni prevalevano, ha dovuto ammettere che in questo modo di pensare c'erano delle falle, ma la sua confessione è arrivata troppo tardi per tutti coloro che ne hanno subito le conseguenze.

Col tempo qualsiasi crisi viene superata, ma tutte, in particolare se così drammatiche, lasciano il segno. Quella del 2008 offre nuovi punti di riflessione nella tradizionale disputa sul sistema economico capace di distribuire i massimi benefici.

Credo che i mercati siano alla base di qualsiasi economia di successo, ma che non funzionino automaticamente bene. In questo senso seguo la linea del noto economista britannico John Maynard Keynes, la cui influenza domina negli studi dei moderni economisti.

I governi hanno un ruolo da svolgere, che non si riduce a salvare l'economia quando i mercati crollano o a regolamentarli per evitare il tipo di problemi che abbiamo appena sperimentato. Le economie esigono un equilibrio tra il ruolo dei mercati e quello del governo, con apporti fondamentali delle istituzioni private e senza fine di lucro; ma negli ultimi 25 anni gli USA non hanno rispettato questo equilibrio e hanno anzi esportato la loro visione distorta in tutto il mondo.

La crisi attuale ha messo in luce i difetti fondamentali del capitalismo, o per meglio dire di quella particolare versione del capitalismo (a volte definito capitalismo in stile americano) che ha visto la luce nell'ultima parte del XX secolo negli USA. Non si tratta solo di singole persone, di errori specifici, di problemi di dettaglio da risolvere, o di norme da modificare.

È stato difficile scoprire le falle, perché noi americani volevamo assolutamente credere nel nostro sistema economico: i "nostri ragazzi" avevano ottenuto risultati così spettacolari rispetto ai tradizionali arcinemici del blocco sovietico.

I numeri rafforzano la delusione. Dopo tutto la nostra economia stava crescendo molto più velocemente di quasi tutte le altre, a eccezione della Cina; e alla luce delle difficoltà che credevamo di scorgere nel sistema bancario cinese, era solo questione di tempo prima che implodesse.

Anche adesso, molti negano l'ampiezza dei problemi cui deve far fronte la nostra economia di mercato; una volta usciti dalla situazione attuale, e tutte le recessioni finiscono prima o poi, scommettono su una nuova vigorosa crescita. Ma uno sguardo più attento all'economia statunitense lascia intravedere altri problemi ben più profondi: una società in cui persino la classe media ha visto i propri guadagni stagnare per decenni, caratterizzata da una crescente ineguaglianza, e in cui, anche se vi sono notevoli eccezioni, le probabilità per un americano povero di arrivare al vertice sono inferiori a quelle della "vecchia Europa".

Si dice che l'esperienza di premorte obbliga a rivalutare le priorità e la scala di valori, e l'economia globale l'ha appunto provata. La crisi ha portato in luce non solo i difetti del modello economico imperante, ma anche quelli della nostra società: troppa gente ha profittato dei suoi simili. Quasi ogni giorno sono venuti alla luce comportamenti scorretti di coloro che lavorano nel settore finanziario: schema di Ponzi (una sorta di catena di S.Antonio in campo economico. NdT), uso d'informazioni riservate, comportamenti predatori, programmi di concessione di carte di credito per scroccare il più possibile agli sfortunati utilizzatori.

Il mio libro, Freefall, si occupa però non di quelli che hanno violato la legge ma di tutti coloro che, pur nel suo rispetto formale, hanno creato, impacchettato, spacchettato, e venduto prodotti tossici, lasciandosi coinvolgere in una spericolata attività che ha rischiato di distruggere l'intero sistema economico e finanziario. Il sistema è stato salvato, ma a un prezzo che è ancora difficile valutare.

Dovremmo considerare quello attuale un momento di analisi e riflessione, per pensare al tipo di società in cui vogliamo vivere e per chiederci: stiamo creando un'economia in grado di aiutarci a soddisfare le nostre aspirazioni?

Siamo andati ben avanti su una strada alternativa, creando una società in cui il materialismo ha il sopravvento sull'impegno morale, in cui il rapido sviluppo che abbiamo ottenuto non è sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, in cui non operiamo tutti assieme come società civile per far fronte ai bisogni comuni, in parte perché un feroce individualismo e un mercato fondamentalista hanno eroso il senso di appartenenza a un gruppo e hanno reso possibili un violento sfruttamento degl'individui privi di protezione.

Senza volerlo, gli economisti hanno offerto una giustificazione a questa mancanza di responsabilità morale. Una lettura superficiale dei suoi scritti ha instillato l'idea che Adam Smith avesse escluso ogni scrupolo morale da parte di chi operava sui mercati. Dopo tutto, se la ricerca dell'interesse personale conduce, come una mano invisibile, al benessere della società, tutto quello che bisogna fare è assicurarsi di star perseguendo al meglio l'interesse personale. Ed è proprio quello che sembrano aver fatto gli operatori del settore finanziario. Ma ovviamente, la ricerca dell'interesse personale, l'ingordigia, non ha condotto al benessere della società.

Il modello che combina individualismo esasperato e fondamentalismo di mercato ha modificato non solo il modo in cui i singoli vedono se stessi e le loro preferenze, ma anche il modo in cui si relazionano con gli altri. In un mondo d'individualismo esasperato non c'è bisogno di una comunità di soggetti o di una forma di società civile. Il governo rappresenta un ostacolo; è il problema, non la soluzione.

Ma se i difetti del mercato sono pervasivi è necessaria un'azione collettiva; gli accordi volontari non sono sufficienti (semplicemente perché non c'è alcun "obbligo"). Peggio ancora, l'individualismo esasperato e il materialismo rampante hanno finito col minare la fiducia. Anche in un'economia di mercato, la fiducia è il lubrificante che fa funzionare la società. Talvolta la società può funzionare anche in mancanza di fiducia, ma è un'alternativa molto meno interessante.


Nella crisi attuale i banchieri hanno perso la nostra fiducia e quella reciproca. Gli storici dell'economia hanno sottolineato il ruolo della fiducia nello sviluppo del commercio e delle attività bancarie. Se certe comunità si sono sviluppate a livello globale nei settori commerciale e finanziario è proprio perché i suoi membri avevano fiducia gli uni negli altri. La grande lezione di questa crisi è che, nonostante tutti i cambiamenti degli ultimi secoli, il nostro complesso settore finanziario continua a fondarsi sulla fiducia: quando viene meno, il sistema finanziario si blocca.

È facile evitare l'assunzione di rischi eccessivi; basta diffidare le banche dal farlo. Impedire alle istituzioni bancarie di usare meccanismi d'incentivazione che incoraggiano l'assunzione di rischi eccessivi e obbligarle ad una maggiore trasparenza richiederà molto tempo. Costringerà tra l'altro quelle che s'ingaggeranno in attività ad alto rischio ad aumentare di molto il capitale e a pagare più elevati premi assicurativi sui depositi. Ma sono necessarie anche altre riforme: sarà necessario limitare i leverage (quoziente d'indebitamento. NdT) e imporre restrizioni su alcuni prodotti particolarmente rischiosi.

Visto quello che è accaduto al settore economico, è ovvio che il governo federale dovrà approvare una versione aggiornata del Glass-Steagall Act. Non c'è scelta: bisogna severamente limitare la possibilità di assunzione dei rischi da parte delle istituzioni che sfruttano la posizione di banca commerciale – incluse le reti di protezione governative.

Ci sono troppi conflitti d'interesse e troppe difficoltà per consentire che le attività delle banche commerciali si mescolino con quelle delle banche d'investimento. I vantati benefici legati all'abolizione del Glass-Steagall Act si sono rivelati illusori, e i costi di gran lunga maggiori di quelli che anche i più feroci critici avevano temuto. I problemi sono particolarmente gravi nel caso delle banche "troppo grandi per poter fallire".

La necessità di rimettere in vigore il più rapidamente possibile il Glass-Steagall Act ci viene suggerita dal recente comportamento di alcune banche d'investimento, per le quali, ancora una volta, la trattazione di titoli si è dimostrata una proficua fonte d'investimenti.

La rapidità con cui, nell'autunno 2008, tutte le più importanti banche d'investimento si sono riconvertite in banche commerciali è preoccupante: avevano previsto il regalo del governo federale, ed erano evidentemente sicure che il loro modo di assumere rischi non avrebbe subito serie limitazioni. Adesso possono sfruttare le facilitazione offerte dalla FED e ottenere prestiti a costo zero. Sanno di essere protette da una nuova rete di sicurezza ma di potere al tempo stesso continuare indisturbate le loro operazioni ad alto rischio. È una situazione totalmente inaccettabile.

Esiste una ovvia soluzione al problema delle banche "troppo grandi per poter fallire": smembrarle. La sopravvivenza di queste istituzioni sarebbe giustificata solamente se permettessero significative economie di scala o copertura che altrimenti andrebbero perse. Non solo non ho trovato nessuna prova di un tale effetto, ma anzi tutto punta verso la conclusione che queste banche "troppo grandi per poter fallire" e troppo grandi per poter essere smembrate sono anche troppo grandi per poter essere gestite. Il loro vantaggio sul piano della concorrenza deriva dal loro potere monopolistico e dai sussidi governativi.

La crisi ha messo in luce, da Wall Street a Main Street, un profondo abisso tra la classe ricca statunitense e il resto della società: mentre i ricchi hanno ottenuto ottimi risultati negli ultimi 30 anni, le entrate della maggior parte dei cittadini sono rimaste stagnanti o si sono ridotte.

Le conseguenze sono state celate: quelli della classe inferiore, o anche della classe media, sono stati sollecitati a continuare a spendere come se i loro stipendi aumentassero senza sosta, a prendere soldi in prestito e a vivere al di sopra dei propri mezzi (e le bolle speculative hanno reso la cosa possibile). Le conseguenze del brusco ritorno alla realtà sono semplici: il livello di vita dovrà ridursi.

Qualcuno dovrà pagare il conto del salvataggio delle banche. Per la maggior parte degli americani, anche una ripartizione proporzionale sarebbe disastrosa. Con un reddito familiare mediano (reddito medio e reddito mediano non sono la stessa cosa. Il primo è la media dei vari valori della seriazione, il secondo è il suo valore centrale. NdT) che dal 2000 ha perso circa il 4%, non c'è scelta: se vogliamo preservare un barlume di giustizia, i costi devono essere a carico della classe alta, che ha tratto vantaggi sproporzionati negli ultimi 30 anni, e del settore finanziario, che ha scaricato tutti gli oneri sul resto della società.

Ma passare ai fatti non sarà facile. Il settore finanziario è riluttante ad ammettere i propri errori. Fa parte del comportamento morale e della responsabilità individuale accettare il biasimo quando è meritato: tutti gli esseri umani sono fallibili, anche i banchieri, che però, come possiamo constatare, si sono dati da fare per scaricarlo sugli altri, anche sulle vittime.

Gli USA non sono i soli a dover affrontare un duro riallineamento. Il sistema finanziario britannico è stato ancor più presuntuoso di quello statunitense. Prima del collasso, la Royal Bank of Scotland era la più grande banca europea; nel 2008 ha subito più perdite di qualsiasi altra banca al mondo. Proprio come negli USA, anche nel Regno Unito abbiamo assistito a una bolla speculativa immobiliare che è ora scoppiata. Adattarsi alla nuova realtà può significare una riduzione dei consumi del 10%.

Ne ho dedotto che le difficoltà cui devono far fronte il nostro paese e il resto del mondo impongono qualcosa di più di un piccolo riallineamento del sistema finanziario. Alcuni hanno detto che abbiamo avuto un piccolo problema nel nostro impianto idraulico: alcuni tubi si sono ostruiti. E abbiamo chiamato gli stessi idraulici che avevano installato l'impianto: avendo creato il pasticcio erano probabilmente gli unici a sapere come tirarcene fuori. Poco importa se ci hanno fatturato l'impianto e se ora ci fatturano la riparazione: dovremmo essere contenti perché il sistema funziona di nuovo, pagare il conto senza protestare, e sperare che questa volta abbiano fatto un lavoro migliore.

Ma si tratta di qualcosa di più grave di un semplice "problema idraulico": i difetti del sistema finanziario sono il segno di difetti ancora più gravi del sistema economico, e i difetti del sistema economico riflettono a loro volta quelli più profondi della nostra società. Abbiamo avviato il salvataggio senza avere le idee chiare sul tipo di sistema finanziario che volevamo, e il risultato è stato manipolato dalle stesse forze politiche che ci avevano messo nei guai. Eppure credevamo che il cambiamento fosse non solo possibile ma necessario.

Che alla fine della crisi vi saranno stati dei cambiamenti è sicuro; non possiamo tornare al mondo di prima. Ma le domande da porsi sono: quanto saranno profondi e importanti i cambiamenti? E andranno nella giusta direzione? In varie aree critiche, le cose sono andate ancora peggiorando nel corso della crisi. Abbiamo distorto non solo le nostre istituzioni, incoraggiando una maggiore concentrazione nel settore finanziario, ma le stesse regole del capitalismo. Abbiamo annunciato che le istituzioni privilegiate verranno sottoposte a una disciplina limitata, o nulla. Abbiamo creato un surrogato di capitalismo con regole poco chiare ma con prevedibili risultati: crisi future, assunzione indebita di rischi a spese della comunità (quali che siano le promesse di un nuovo regime normativo), e un'accresciuta inefficienza.

Abbiamo sostenuto l'importanza della trasparenza, ma abbiamo aumentato le possibilità delle banche di manipolare i libri contabili. Nelle crisi precedenti ci si preoccupava del rischio morale e degl'incentivi forniti dalle procedure di salvataggio; l'ampiezza di quella attuale ha mutato il significato di tali principi.

È diventato un luogo comune sottolineare che i caratteri cinesi della parola "crisi" riflettono "pericolo" e "opportunità". Ci siamo resi conto del pericolo. La domanda è: approfitteremo dell'opportunità per ridar vigore al principio di equilibrio tra mercato e stato, tra individualismo e comunità, tra uomo e natura, tra fine e mezzi?

In questo momento abbiamo l'opportunità di dar vita a un nuovo sistema finanziario che faccia ciò che gli essere umani pensano debba fare, di dar vita a un nuovo sistema economico che crei posti di lavoro utili e un lavoro dignitoso per tutti, e nel quale la differenza tra chi ha e chi non ha si riduca invece di allargarsi, e, soprattutto, di dar vita a una nuova società in cui ciascuno sia in grado di realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini condividano ideali e valori, in cui il nostro pianeta venga trattato col rispetto che esige. Ecco le vere opportunità. Il vero pericolo è che l'umanità non sia in grado di approfittarne.

Joseph Stiglitz

18 febbraio 2010

La politica: un poker con carte truccate

Chi scende in politica deve preventivare di sporcarsi le mani. I protagonisti di Razz (Daniela Piazza Editore, pagg. 228, euro 17) se le sporcano come non mai. Uomini e donne, di sinistra e di destra, non se ne salva nessuno. La Torino descritta da Augusto Grandi, giornalista del Sole 24 Ore, non è quella della Fiat, delle tradizioni occulte, dell’immigrazione selvaggia. È invece quella del sottobosco della politica-politicante che l’autore narra quasi in presa diretta, senza far sconti a nessuno. Un mondo che conosce molto bene e che ammanta del velo, in alcuni casi trasparente, in altri assai meno, dell’«opera di totale fantasia» sicché «ogni riferimento a persone e avvenimenti è del tutto casuale».

Sarà pure così, ma l’avventura di Dario Lo Gatto, avellinese trapiantato a Torino dove è diventato uno dei maggiori amministratori di condominio della città, e di tutte le figure politiche del centrodestra e del centrosinistra che lo circondano è emblematica di un modo corrente di vedere questo ambiente, sia piemontese che di ogni altra regione italiana. Emblematico quanto il titolo, perché Razz è il nome del poker californiano che si vince con il punteggio più basso. Siamo lì: la genìa rappresentata da Lo Gatto & soci esprime una politica in cui vince chi scende sempre più in basso moralmente, pur se in apparenza abita ai piani alti: dai capigruppo in Comune ai segretari politici locali, ai vicesegretari nazionali, dai sindaci ai prefetti, ai procuratori generali. È tutto un turbinoso incrociarsi di lotte intestine, spesso complicatissime, che servono a fare le scarpe non tanto ai nemici quanto agli amici, con l’unico scopo della carriera politica, costi quel che costi, anche vendendo e prostituendo (sapendo benissimo di farlo) corpi, menti e anime, maschili e femminili. Unico vero nemico è la cultura perché «con la filosofia non si mangia»…

Razz è la storia dell’ignorante ma saccente Dario, coinvolto in una partita di poker più grande di lui che vede dall’altro lato del tavolo massoneria, mafia russa, politica internazionale sotto forma di speculazione edilizia. La bolla si gonfierà, poi esploderà, ma alla fine, grazie a compromessi insospettabili fra politica, magistratura e stampa, si affloscerà. Passata la grande paura ogni cosa ricomincerà come prima. Gli unici a rimetterci saranno Dario, alle prese con un figlio insospettabilmente drogato, e la povera signora Gina, brava a vincere a poker, ma non a sfuggire a una morte che poteva servire a qualcuno e invece non servirà a nulla.

Chiari i bersagli di Grandi: la cosiddetta società civile, arrogante e incolta; la sfrenata corsa al potere a ogni livello; l’assoluta mancanza di onestà, dignità e idealità: l’amicizia è bandita, e l’accordo sotterraneo fra apparenti avversari politici per il bene di ognuno è quasi la prassi; soprattutto il disprezzo per la cultura che si manifesta attraverso un linguaggio sboccato e da trivio. Insomma, un affresco terribilmente impietoso, ma purtroppo veritiero quello di Augusto Grandi che evidentemente certi ambienti li conosce bene.

di Gianfranco de Turris