12 marzo 2010

La guerra dei contadini

“La grande guerra dei contadini fu la prima rivoluzione sociale e nazionale della storia della Germania ma anche dell’Europa. I contadini tedeschi avevano anticipato i programmi rivoluzionari dei secoli seguenti. Avevano formulato la loro visione in un modo più ingenuo, ma anche più audace di quello che faranno le classi borghesi e proletarie dopo di loro. Avevano sollevato le fondamentali questioni dell’esistenza sociale e nazionale.”

W. Venohr, H. Diwald, S. Haffer in “Documente Deutschen Dasein: 1445 – 1945: 500 Jahre deutsche Nationalgeschichte“, Krefeld, Sinus Verlag, 1983.

I prodromi: la grande rivolta dei cavalieri

Si erano avuti diversi sintomi premonitori, come la predicazione del cosiddetto ‘Pifferaio di Niklashausen' del 1476; nel 1514 una rivolta della lega contadina dell'Armer Konrad (povero Corrado) viene sof­focata nel sangue da Ulrich von Württemberg . Già nel 1513 era nato nell’Alsazia meridionale il Bunschuh, letteralmente 'lega dello scapone’ - lo scarpone abbottonato dei contadini assurto a simbolo della rivolta che, iniziata come s’è detto in Alsazia, si propagherà nella Svevia,in Franconia, nella Germania centro-meridionale, nella Stiria, in Boemia e nel Tirolo. Ma i prodromi delle guerre contadine si hanno con la rivolta dei cavalieri, che decretò il colpo mortale per questo ceto ormai agonizzante.

Abbiamo già parlato della spaccatura che vede una parte della nobiltà schierarsi con i poveri e gli oppressi: è questo il caso della piccola aristocrazia rurale europea. In Italia essa è stata già piegata prima del 1500; nella Germania al principio del XVI secolo la piccola nobiltà era pronta a combattere per una radicale riforma della patria. Tutti quei nobili cavalieri che non avevano lasciato i loro castelli per mettersi al servizio dei vari potentati nei più svariati paesi, vivevano nella più grande povertà; come potevano assistere passi-al declino della loro influenza, alla miserevole vita che conducevano, mentre gli altri ceti - principi, grossi prelati e borghesi si arricchivano tirannegiando il contado? La storia medievale ci narra delle imprese dei cosiddetti Raubritter (cavalieri predoni) che in odio al clero e ai cittadini facoltosi, alla testa dei loro armigeri assaltavano e saccheggiavano conventi e cittadine sedi di ricchi mercati, imponendo pesanti balzelli ai mercanti che osavano far passare i loro carriaggi lungo le vie di comunicazicazione dominate dai loro castelli.

Ma l'unica speranza era un cambiamento radicale della società da attuarsi dopo la distruzione del ceto dominante e conseguente liberazione dell'Imperatore dall'influsso deleterio e dal parassitismo dei principi guelfi, del clero corrotto, degli usurai e dei vari Fugger, Welser, banchieri che tentavano già allora di monopolizzare il commercio; una salda cavalleria avrebbe difeso il nuovo Stato e costituito la sua classe dirigente.

L'ambizioso progetto crede di trovare in Martin Lutero ideologica dopo la pubblicazione del suo appello alla nobiltà tedesca (An den christlichen Adel deutscher Nation) , ma gli eventi vanificheranno anche quella speranza. Il tentativo dei cavalieri di sollevarsi contro i principi in nome d i tutto il popolo tedesco, del Vangelo e del Protestantesimo naufragragherà sanguinosamente per la défaillance dell'Imperatore, dell’alta nobiltà, della borghesia cittadina e non ultimo per il voltafaccia di Lutero che rimane abbarbicato al potere.

A guidare la rivolta troviamo il cavaliere-poeta Ulrich von Hutten e il suo amico Franz von Sickingen. Nell'estate del 1522 raccolgono un esercito di 5.000 fanti e 1.500 cavalieri, col quale battere i mercenari dei Vescovi di Treviri, Magonza e Colonia. Sickingen capiva che, senza una sollevazione popolare all'interno delle città, poco poteva contro le guarnite mura; ma la sua fiducia nei cittadini angariati dal regime curiale venne delusa durante l'assedio di Treviri. I borghesi dei ricchi centri commerciali avevano capito che i loro interessi si identificavano con quelli della cricca dominante e non lesinarono gli aiuti in danaro che permisero 1'arruolamento di altri mercenari, mentre i contadini che avevano seguito i cavalieri cominciavano a tornarsene ai cascinali. A Sickingen non rimase altra alternativa che quella di rinchiudersi nel suo castello di Landsstuhl, nell’illusoria speranza che altri rivoltosi accorressero in suo aiuto dalla Boemia e dalla Svizzera, ma invano. Nella primavera del 1523 un grande esercito con moderni cannoni sottopose ad un massiccio bombardamento i bastioni della cittadella che vennero sbriciolati da oltre 500 palle di pietra: lo stesso Sickingen venne mortalmente ferito e fece in tempo ad assistere alla capitolazione del suo maniero prima di spirare. Altri 26 castelli e borghi dei cavalieri rivoluzionari furono distrutti nei giorni successivi. Hutten si salvò con la fuga in Svizzera, ospitato da un certo Zwingli (che troveremo tra gli ideologi del movimento) e morì il 29 agosto 1523.

La guerra dei contadini del 1524-1526

Negli anni 1524-1526 si registrano numerose rivolte contadine in Germania che sfociano, all'inizio del 1525, in una vera guerra delle schiere contadine, contro gli eserciti mercenari dei diversi principati tedeschi.

Lutero mettendo alla berlina i preti indegni, aveva dato il segnale della rivolta; alcuni suoi seguaci, quali il predicatore Thomas Müntzer, Sebastian Lotzer, Ulrich Zwingli e altri, tengono prediche infuocate nei villaggi. Si formano le prime leghe contadine come quelle della Svevia che nel febbraio del 1525 sforna i “dodici articoli” nei quali si richiede la libera elezione dei parroci nei comuni rurali, la consegna delle decime in natura direttamente alle parrocchie locali, una riforma della giustizia che consenta la reintroduzione nei processi giudiziari dell’antico diritto germanico e l’abolizione dell’incomprensibile diritto romano, infine la restituzione ai contadini, da parte dei Signori, dei terreni comunitari costituenti l’Allmende. Si costituiscono bande armate come l'Odenwälder Hau,fèn organizzata dall’oste Georg Metzler e comandata da Wendel Hipler, ex segretario di corte del Principe Hohenhohe, lo Schwarzer Haufen (il battaglione nero) guidato dall’ex condottiero di lanzichenecchi Florian Geyer; nella zona di Francoforte operava un gruppo capitanato dal celebre cavaliere Götz von Berlichingen; l'intera Turingia era nelle mani delle bande condotte da Thomas Müntzer.

In Alsazia e nel monastero di Bamberga i 12 articoli vennero accettati, altrove vengono imposti con la forza: conventi, chiese, borghi e città subiscono saccheggi ma, tranne che nella cittadella di Weisberg che aveva resistito a lungo, non ci furono eccessi da parte dei rivoltosi; la città di Heillbronn si consegna spontaneamente. Un contemporaneo dell'epoca informa da Trento che 300.000 contadini avevano aderito alle leghe, ma tra loro militavano pure minatori, proletari cittadini, nobili spiantati, lanzichenecchi, preti spretati e monaci smonacati. «Un odio quasi incomprensile per tutto ciò che finora è stato sacro per loro, un furore bestiale di distruzione verso chiostri e chiese, la profanazione delle suppellettili e degli usi liturgici, la derisione e il maltrattamento di preti, monaci e monache, inoltre la distruzione delle biblioteche - tutto _ mostra come i contadini considerino questa antica civiltà, in cui sono vissuti per secoli, come qualcosa di estraneo, a loro nemico”. Rimane l'infantile fiducia nella figura dell'Imperatore che ormai è troppo debole per imporre una pacificazione fra i principi e i suoi sudditi.

La reazione non si fece attendere: vennero arruolati anche mer­cenari stranieri - croati, ungheresi e perfino albanesi e si scatenò la vendetta dell'alto clero e dell'aristocrazia guelfa. I contadini, inferiori per armamento e addestramento, vengono sconfitti dai soldati di professione, anche per la frantumazione e la scarsa coordinazione delle bande ribelli. Nella battaglia di Frankenhausen in Turingia, combattuta il 15 maggio 1525, fu catturato Thomas Müntzer e subito eliminato. Altre battaglie perdute dalle bande contadine: quella del 12 maggio a Sindelfingen, a Zabern (Austria), il 16 maggio, a Königshofen in Franconia il 2 giugno, a Schwaz in Tirolo nel 1526; Florian Geyer muore presso Schwäbischhall, ma il suo nome rivive in numerose ballate e marce militari. In un anno la rivolta contadina della Germania meridionale fu soffocata nel sangue, con inumana ferocia, con distruzioni e saccheggi, con la tipica spietatezza che caratterizza gli anni della ‘Santa Inquisizione’. Queste le cifre: 80.000 giustiziati, 50.000 tagli della mano con la quale i villici avevano giurato, 35.000 accecati; istruttivo l’onorario presentato da un boia della Franconia per le sue ‘prestazioni’: 80 decapitazioni, 165 accecamenti, 532 tagli della mano! Si strapparono pure molte lingue a quanti avevano fatto propaganda rivoluzionaria.

Le cause

Dall’evoluzione del sistema feudale si andavano formando i primi elementi dell'economia capitalistica per un elevato grado di accumulazione di capitale commerciale e di capitale usuraio. Si assiste in quegli anni alla riapertura delle miniere e al tentativo di grandi società minerarie bavaresi capitanate dai Fugger, dai Welser, dagli Hochstetter e dai Baumgartner, di assicurarsene lo sfruttamento. La ricchezza cresce in misura mai vista, ma essa è nelle mani della grossa nobiltà e del ceto mercantile cittadino; nelle campagne invece, accanto a pochi contadini benestanti crescono quelli poveri e i non liberi ma soprattutto si accresce la massa dei senza terra che sotto l’incalzare dell'usura delle città hanno perduto i campi che una volta coltivavano: gli espropri ai danni dei contadini e la miseria dei piccoli artigiani crea grandi proprietari da un lato e declassati dall'altro; accanto a questo fenomeno vi è l'impoverimento della nobiltà rurale minore, erede della primitiva aristocrazia germanica e dei cavalieri, molti dei quali si mettono alla testa dei rustici in rivolta. Se a ciò si aggiunge la corruzione del clero romano che porta alla crisi confessionale, sfociata nella ribellione di Lutero, si comprenderanno appieno i motivi che portano alla più grande rivolta del XVI secolo. L’adesione formale dei e dei contadini al Protestantesimo è solo l'accentuazione del tentativo di liberarsi dalla tutela del Vaticano e soprattutto dall’aborrito Diritto Romano: il Los von Rom di allora era causato dall’identificazione del Diritto Romano e del Cattolicesimo corrotto e intollerante, con i suoi corollari di papismo, clericalismo e gesuitismo con la ‘Romanità’.

La condanna delle rivolte contadine da parte di Lutero si articola fra il 1523 e il 1525, in un profluvio di libelli e opuscoli tra cui le Lettere ai Principi di Sassonia sullo spirito sedizioso del luglio 1524; l’Esortazione alla pace in risposta ai dodici articoli dei contadini svevi dell’aprile del 1525; ed infine lo scritto Contro le bande omicide e saccheggiatrici dei contadini del maggio 1525, nel quale spicca un invocazione tanto violenta e decisa da non lasciar adito a dubbi sulla sua interpretazione: “Signori, liberateci, sterminate, e colui che ha il potere agisca.” Con questa esortazione sanguinaria il luteranesimo consolida la propria alleanza con i principi territoriali tedeschi.

Da G. Ciola, A. Colla, C. Mutti, T. Mudry “Rivolte e guerre contadine” Società Editrice Barbarossa, Milano, 1994



di Harm Wulf

11 marzo 2010

Il potere irresponsabile


Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.


Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
di MASSIMO GIANNINI

10 marzo 2010

Il più grande attacco valutario degli ultimi anni


La cena si è tenuta alla Townhouse, una sala privata ed esclusiva creata dal ristorante Park avenue winter al numero 100 sulla 63ª strada di Manhattan, quasi all'incrocio con Park avenue. In questa fascia dell'Upper east side, il quartiere prediletto dai miliardari newyorkesi, la sera si vedono solo domestici che portano a spasso cani che annusano le limousine nere parcheggiate in doppia fila.

Fuori si annuncia una tempesta di neve che, da lì a poche ore, immobilizzerà New York, ma dentro quella palazzina si progetta la tempesta finanziaria che nelle prossime settimane potrebbe sconvolgere ancora una volta l'economia globale.

Neppure Tom Wolfe, che nel Falò delle vanità fu il primo a raccontare i vezzi e la spietatezza dei raider di borsa americani, «i padroni dell'universo», come li chiamava lui, avrebbe mai potuto immaginare una cena come quella dello scorso lunedì 8 febbraio a New York.

Nella foto: La copertina del ”Der Spiegel” in edicola questa settimana

Sulle sedie color cioccolata siedono le migliori menti speculative americane, compresi gli emissari dei tre gestori di hedge fund più ricchi e potenti del mondo: George Soros, John Paulson e Steven Cohen. Ed è della loro prossima scommessa miliardaria che si discute mentre i camerieri fanno circolare lo champagne Krug e lo chef Craig Koketsu prepara il suo menu con pollo al limone e filet mignon.

Stavolta l'obiettivo è più grande del mercato immobiliare distrutto nel 2008. Per colpire la nuova preda nel mirino, l'euro, la moneta unica europea che tanti successi ha ottenuto durante la crisi internazionale contro il biglietto verde americano, ci vuole una strategia più sofisticata che permetta di giocare non solo sulla crisi della Grecia (300 miliardi di euro di debito sovrano e un deficit del 12,7 per cento rispetto al pil), ma anche su paesi di maggiore peso economico che i convitati giudicano vulnerabili. Il Portogallo, sì, ma è piccolo. L'Irlanda, va bene, ma siamo sempre lì.

La Spagna, certo, quella andrebbe bene. Già, sono i Pigs, maiali da mandare al macello, ridacchia qualcuno. E, perché no?, perché non provare ad azzannare addirittura l'Italia? Un paese finanziariamente più solido degli altri, ricorda uno dei commensali, ma politicamente così diviso che sarebbe facile da spolpare grazie a molti appoggi interni. Lì per lì, si inventa un nuovo acronimo Piigs (la doppia I sta per Irlanda e Italia). Già due giorni dopo, se ne approprierà la Cnn nel suo programma dedicato alla finanza.

Ai tavoli, dove, per accompagnare il filet mignon con costolettine brasate e verdure grigliate, è stato scelto un Montrachet d'annata, si approfondiscono strategie finanziarie come l'«Hong Kong double play». Sempre alla ricerca di riferimenti alle proprie imprese passate, i manager degli hedge fund si riferiscono alla doppia scommessa che tentarono durante la crisi delle economie asiatiche a cavallo tra il 1997 e il 1998.

Quella volta i raider fecero due scommesse contemporanee: una contro la borsa e l'altra contro il dollaro di Hong Kong, che sembrava resistere meglio alla crisi mentre, con effetto domino, si svalutavano tutte le monete della regione. Molti però ricordano bene che solo un intervento particolarmente tempestivo delle autorità di Hong Kong aveva sventato il loro tentativo di fare soldi abbattendo anche quella moneta.

Per portare l'euro alla parità col dollaro dalla soglia massima di dicembre di 1,51 euro contro 1 dollaro, in una discesa vertiginosa che potrebbe rappresentare il colpaccio di una vita, ristabilendo il primato finanziario degli Stati Uniti, dovrà essere usata una versione riveduta e aggiornata di quella stretta mortale. I lavori, per la verità, sono già in corso da tempo: a novembre i mercati davano la possibilità di una tale discesa del dollaro a 33 a 1.

Oggi le puntate vengono accettate a 14 a 1. Quello che agli occhi dei comuni mortali potrebbe sembrare un complotto, nel linguaggio dei manager degli hedge fund ha un nome molto più rispettabile: «Idea dinner», una sorta di brain storming della speculazione. Abbattere la moneta unica europea è infatti solo uno di 23 possibili spunti d'investimento messi nel menù della serata: si parla anche di scommettere sul rialzo del dollaro canadese e della Philip Morris, e di trafiggere con «put» al ribasso la Bank of America e la Wells Fargo.

Ma che la distruzione dell'euro non rappresenti un'idea qualunque lo dimostra il fatto che, una settimana dopo la cena, raccontata per la prima volta dal Wall Street Journal, il dipartimento della Giustizia americano ha chiesto ad alcuni dei fondi presenti di non distruggere alcuna transazione delle loro scommesse contro l'euro. Non si tratta ancora dell'apertura di un'indagine formale, ma quasi. A differenza di quel che si pensa, infatti, i raider degli hedge fund adorano scambiarsi informazioni, perlomeno quelle che non violano i segreti più inconfessati li, come gli algoritmi che governano i loro computer.

Il consenso, quasi sempre transatlantico fra Wall Street e la City londinese, può essere persino utile perché porta a un effetto cartello che aumenta in modo esponenziale le possibilità di guadagno. Tutti sanno che la vera bravura non sta nell'identificare il bersaglio, ma nel colpirlo e affondarlo.

Si fa presto a determinare che scommettendo sul ribasso dell'euro si può fare l'affare della propria vita, ma l'importante è come costruire la propria puntata e quando metterla sul tavolo. Che la finanza ad alto rischio sia un grande casinò nessuno lo sa meglio dei presenti, a partire da Andy Monness, fondatore della boutique della finanza Monness, Crespi, Hardt and Co., che ha organizzato la cena

Lui che negli anni Settanta è stato addirittura costretto a dichiarare bancarotta dopo un azzardo clamorosamente sbagliato sulla Levitz, un gruppo produttore di mobili, ora è resuscitato tanto da chiamare a raccolta i titani delle borse. Ci sono gli emergenti come Donald Morgan di Brigade capital e David Einhorn, il quarantenne presidente di Greenlight capital: fu lui che, a fine 2008, intuì che la Lehman Brothers aveva scarse possibilità di sopravvivere e quindi scommise sulla discesa del titolo, accelerandone il fallimento.

A un tavolo, dove la scelta è caduta soprattutto sul pollo arrosto al profumo di limone, troneggiano gli uomini della Sac capital di Steven Cohen, 52 anni, l'eccentrico finanziere che tiene il suo trading floor alla temperatura costante di 21 gradi per impedire che qualcuno dei suoi 180 broker possa appisolarsi. Tra i maggiori collezionisti d'arte moderna, Cohen è famoso per avere comprato lo squalo in formaldeide di Damien Hirst, che ora ha prestato al Metropolitan Museum di New York. Tutt'altro stile è quello di John Paulson, il minuto ed enigmatico fondatore del Paulson and Co.

Dopo avere creato il suo fondo con 2 milioni di dollari nel 1994, Paulson lo ha portato a 12,5 miliardi all'inizio del 2007, che si sono trasformati in 32 miliardi ora: non c'è altro finanziere al mondo che abbia saputo approfittare meglio della recente grande crisi, anche grazie ai consigli del finanziere italiano Paolo Pellegrini, che fu il primo a prevedere l'imminente crollo del mercato immobiliare. Ora Paulson ha un patrimonio personale stimato attorno a 7 miliardi di dollari.

Ma gli occhi degli invitati sono tutti puntati sul manager che rappresenta George Soros, il quale ha sicuramente più dimestichezza di tutti nelle scommesse sulle valute: l'attacco del finanziere di origine ungherese alla sterlina nel 1992 gli portò in tasca 1 miliardo di dollari e costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi temporaneamente dallo Sme, il sistema monetario europeo. Nessuno crede realisticamente che Soros possa ripetere l'impresa con l'euro, la cui forza sul mercato è ben maggiore rispetto a quella della sterlina: circa 1.200 miliardi vengono scambiati ogni giorno nella moneta comune europea. Ma nella Banca centrale europea di Francoforte preoccupa, e non poco, la campagna di stampa che il vecchio finanziere sta conducendo contro l'euro (nello schema qui sopra i possibili effetti sui cittadini). In mancanza di una riforma politica, ha scritto Soros di recente sul Financial Times, ovvero se non si crea un Tesoro unico capace di agire sul piano fiscale a fianco della Bce, il dissolvimento della moneta unica europea è quasi certo.

Cosa che non significa necessariamente che lui punti per forza sul dollaro. Mentre a Davos, al World economic forum, parlava pubblicamente a fine gennaio dell'imminente bolla speculativa dell'oro, si è scoperto che nell'ultimo trimestre Soros ha raddoppiato le sue posizioni sul metallo giallo. Andy Cowen, il manager della Sac, è il primo a intervenire durante la cena dicendo che, secondo i suoi analisti, in qualsiasi modo finisca la crisi greca, l'euro è destinato comunque a uscirne indebolito.



Molti dei presenti hanno già fatto centinaia di milioni di dollari di guadagno sulla crisi di Atene comprando cds, i credit default swap, che rappresentano un'assicurazione sulla possibilità di bancarotta della Grecia. Ora quasi tutti hanno chiuso la loro esposizione sotto il Partenone e sono passati alla fase successiva della campagna di distruzione dell'economia europea, concentrandosi sulle incursioni contro l'euro.

«Voglio capire... voglio sapere chi ha fatto che cosa» ha detto al Financial Times il commissario Ue Michel Barnier. Pochi giorni dopo la cena alla Townhouse i future contro l'euro raggiungevano la cifra di 60 mila, la più alta mai toccata dal 1999. Ma nell'ultima settimana di febbraio anche quel record era già infranto. I future sono già più di 70 mila.

È guerra aperta: i fondi speculativi contro i governi dell'Eurozona. Più si fortificano le difese dell'Ue, più sfrontata diventa la sfida degli squali di Wall Street e della City londinese. Come nei conflitti armati vengono messi in azione per la prima vol- ta anche i servizi segreti.

Prima, l'Eyp greco, che svela la manovra congiunta degli hedge fund Brevan Howard, con sede a Londra, e di quelli americani Moore capital, Fidelity international, Pimco e soprattutto Paulson & Co. Anche a Madrid il governo socialista di José Luis Zapatero incarica il Cni di scoprire e neutralizzare chi punta a destabilizzare la Spagna. Suona l'allarme pure in largo Santa Susanna, a Roma, negli uffici romani del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Proprio nell'ultima relazione al Parlamento sulle attività dell'intelligence italiana, resa nota a fine febbraio, il prefetto Gianni De Gennaro, direttore generale del Dis, ha messo nero su bianco a pagina 99: «Il dispositivo di intelligence sul versante economico-finanziario è stato significativamente potenziato, traducendosi in un volume di produzione informativa e di analisi secondo solo a quello sul terrorismo internazionale».

E mentre a Parigi il ministro del Tesoro Christine Lagarde afferma che «i derivati dovrebbero essere vigorosamente regolati o addirittura vietati», e in Lussemburgo il primo ministro Jean-Claude Junker, responsabile anche dell'Eurogruppo, minaccia di usare «strumenti di tortura» contro gli speculatori, a Berlino Angela Merkel ( che ha promesso di non dare neppure un euro alla Grecia) è fuori di sé dalla rabbia perché è convinta che anche le fughe di notizie sui progetti franco-tedesco- olandesi per salvare la Grecia (da 30 a 40 miliardi di euro) siano state pilotate dalle centrali speculative per mettere sotto pressione il governo tedesco portando nuovi soldi ai soliti noti.

A Roma, nei maestosi corridoi del ministero del Tesoro, nessuno sottovaluta le intenzioni degli speculatori tanto più che proprio Giulio Tremonti è stato il primo a sollevare già nel G8 di Osaka del 2008 la questione dei contratti speculativi richiedendo meccanismi obbligatori di controllo e di riequilibrio temporale delle posizioni di perdite e di guadagno così da limitare la formazione di bolle.

Ma a confortare il governo sono i più recenti rapporti delle grandi banche di affari e delle agenzie di rating che esprimono giudizi positivi sulla tenuta dei conti italiani. Non solo: contro coloro che agiscono per affossare l'euro Tremonti fa valere quello che ripete spesso in questi giorni: «Sulla base delle mie informazioni non esiste affatto una strategia imperiale del dollaro contro l'euro. Semmai una precisa strategia di Barack Obama contro le banche». Come dire che quella cena prima o poi potrebbe risultare più che indigesta.
di Pino Buongiorno e Marco De Martino

12 marzo 2010

La guerra dei contadini

“La grande guerra dei contadini fu la prima rivoluzione sociale e nazionale della storia della Germania ma anche dell’Europa. I contadini tedeschi avevano anticipato i programmi rivoluzionari dei secoli seguenti. Avevano formulato la loro visione in un modo più ingenuo, ma anche più audace di quello che faranno le classi borghesi e proletarie dopo di loro. Avevano sollevato le fondamentali questioni dell’esistenza sociale e nazionale.”

W. Venohr, H. Diwald, S. Haffer in “Documente Deutschen Dasein: 1445 – 1945: 500 Jahre deutsche Nationalgeschichte“, Krefeld, Sinus Verlag, 1983.

I prodromi: la grande rivolta dei cavalieri

Si erano avuti diversi sintomi premonitori, come la predicazione del cosiddetto ‘Pifferaio di Niklashausen' del 1476; nel 1514 una rivolta della lega contadina dell'Armer Konrad (povero Corrado) viene sof­focata nel sangue da Ulrich von Württemberg . Già nel 1513 era nato nell’Alsazia meridionale il Bunschuh, letteralmente 'lega dello scapone’ - lo scarpone abbottonato dei contadini assurto a simbolo della rivolta che, iniziata come s’è detto in Alsazia, si propagherà nella Svevia,in Franconia, nella Germania centro-meridionale, nella Stiria, in Boemia e nel Tirolo. Ma i prodromi delle guerre contadine si hanno con la rivolta dei cavalieri, che decretò il colpo mortale per questo ceto ormai agonizzante.

Abbiamo già parlato della spaccatura che vede una parte della nobiltà schierarsi con i poveri e gli oppressi: è questo il caso della piccola aristocrazia rurale europea. In Italia essa è stata già piegata prima del 1500; nella Germania al principio del XVI secolo la piccola nobiltà era pronta a combattere per una radicale riforma della patria. Tutti quei nobili cavalieri che non avevano lasciato i loro castelli per mettersi al servizio dei vari potentati nei più svariati paesi, vivevano nella più grande povertà; come potevano assistere passi-al declino della loro influenza, alla miserevole vita che conducevano, mentre gli altri ceti - principi, grossi prelati e borghesi si arricchivano tirannegiando il contado? La storia medievale ci narra delle imprese dei cosiddetti Raubritter (cavalieri predoni) che in odio al clero e ai cittadini facoltosi, alla testa dei loro armigeri assaltavano e saccheggiavano conventi e cittadine sedi di ricchi mercati, imponendo pesanti balzelli ai mercanti che osavano far passare i loro carriaggi lungo le vie di comunicazicazione dominate dai loro castelli.

Ma l'unica speranza era un cambiamento radicale della società da attuarsi dopo la distruzione del ceto dominante e conseguente liberazione dell'Imperatore dall'influsso deleterio e dal parassitismo dei principi guelfi, del clero corrotto, degli usurai e dei vari Fugger, Welser, banchieri che tentavano già allora di monopolizzare il commercio; una salda cavalleria avrebbe difeso il nuovo Stato e costituito la sua classe dirigente.

L'ambizioso progetto crede di trovare in Martin Lutero ideologica dopo la pubblicazione del suo appello alla nobiltà tedesca (An den christlichen Adel deutscher Nation) , ma gli eventi vanificheranno anche quella speranza. Il tentativo dei cavalieri di sollevarsi contro i principi in nome d i tutto il popolo tedesco, del Vangelo e del Protestantesimo naufragragherà sanguinosamente per la défaillance dell'Imperatore, dell’alta nobiltà, della borghesia cittadina e non ultimo per il voltafaccia di Lutero che rimane abbarbicato al potere.

A guidare la rivolta troviamo il cavaliere-poeta Ulrich von Hutten e il suo amico Franz von Sickingen. Nell'estate del 1522 raccolgono un esercito di 5.000 fanti e 1.500 cavalieri, col quale battere i mercenari dei Vescovi di Treviri, Magonza e Colonia. Sickingen capiva che, senza una sollevazione popolare all'interno delle città, poco poteva contro le guarnite mura; ma la sua fiducia nei cittadini angariati dal regime curiale venne delusa durante l'assedio di Treviri. I borghesi dei ricchi centri commerciali avevano capito che i loro interessi si identificavano con quelli della cricca dominante e non lesinarono gli aiuti in danaro che permisero 1'arruolamento di altri mercenari, mentre i contadini che avevano seguito i cavalieri cominciavano a tornarsene ai cascinali. A Sickingen non rimase altra alternativa che quella di rinchiudersi nel suo castello di Landsstuhl, nell’illusoria speranza che altri rivoltosi accorressero in suo aiuto dalla Boemia e dalla Svizzera, ma invano. Nella primavera del 1523 un grande esercito con moderni cannoni sottopose ad un massiccio bombardamento i bastioni della cittadella che vennero sbriciolati da oltre 500 palle di pietra: lo stesso Sickingen venne mortalmente ferito e fece in tempo ad assistere alla capitolazione del suo maniero prima di spirare. Altri 26 castelli e borghi dei cavalieri rivoluzionari furono distrutti nei giorni successivi. Hutten si salvò con la fuga in Svizzera, ospitato da un certo Zwingli (che troveremo tra gli ideologi del movimento) e morì il 29 agosto 1523.

La guerra dei contadini del 1524-1526

Negli anni 1524-1526 si registrano numerose rivolte contadine in Germania che sfociano, all'inizio del 1525, in una vera guerra delle schiere contadine, contro gli eserciti mercenari dei diversi principati tedeschi.

Lutero mettendo alla berlina i preti indegni, aveva dato il segnale della rivolta; alcuni suoi seguaci, quali il predicatore Thomas Müntzer, Sebastian Lotzer, Ulrich Zwingli e altri, tengono prediche infuocate nei villaggi. Si formano le prime leghe contadine come quelle della Svevia che nel febbraio del 1525 sforna i “dodici articoli” nei quali si richiede la libera elezione dei parroci nei comuni rurali, la consegna delle decime in natura direttamente alle parrocchie locali, una riforma della giustizia che consenta la reintroduzione nei processi giudiziari dell’antico diritto germanico e l’abolizione dell’incomprensibile diritto romano, infine la restituzione ai contadini, da parte dei Signori, dei terreni comunitari costituenti l’Allmende. Si costituiscono bande armate come l'Odenwälder Hau,fèn organizzata dall’oste Georg Metzler e comandata da Wendel Hipler, ex segretario di corte del Principe Hohenhohe, lo Schwarzer Haufen (il battaglione nero) guidato dall’ex condottiero di lanzichenecchi Florian Geyer; nella zona di Francoforte operava un gruppo capitanato dal celebre cavaliere Götz von Berlichingen; l'intera Turingia era nelle mani delle bande condotte da Thomas Müntzer.

In Alsazia e nel monastero di Bamberga i 12 articoli vennero accettati, altrove vengono imposti con la forza: conventi, chiese, borghi e città subiscono saccheggi ma, tranne che nella cittadella di Weisberg che aveva resistito a lungo, non ci furono eccessi da parte dei rivoltosi; la città di Heillbronn si consegna spontaneamente. Un contemporaneo dell'epoca informa da Trento che 300.000 contadini avevano aderito alle leghe, ma tra loro militavano pure minatori, proletari cittadini, nobili spiantati, lanzichenecchi, preti spretati e monaci smonacati. «Un odio quasi incomprensile per tutto ciò che finora è stato sacro per loro, un furore bestiale di distruzione verso chiostri e chiese, la profanazione delle suppellettili e degli usi liturgici, la derisione e il maltrattamento di preti, monaci e monache, inoltre la distruzione delle biblioteche - tutto _ mostra come i contadini considerino questa antica civiltà, in cui sono vissuti per secoli, come qualcosa di estraneo, a loro nemico”. Rimane l'infantile fiducia nella figura dell'Imperatore che ormai è troppo debole per imporre una pacificazione fra i principi e i suoi sudditi.

La reazione non si fece attendere: vennero arruolati anche mer­cenari stranieri - croati, ungheresi e perfino albanesi e si scatenò la vendetta dell'alto clero e dell'aristocrazia guelfa. I contadini, inferiori per armamento e addestramento, vengono sconfitti dai soldati di professione, anche per la frantumazione e la scarsa coordinazione delle bande ribelli. Nella battaglia di Frankenhausen in Turingia, combattuta il 15 maggio 1525, fu catturato Thomas Müntzer e subito eliminato. Altre battaglie perdute dalle bande contadine: quella del 12 maggio a Sindelfingen, a Zabern (Austria), il 16 maggio, a Königshofen in Franconia il 2 giugno, a Schwaz in Tirolo nel 1526; Florian Geyer muore presso Schwäbischhall, ma il suo nome rivive in numerose ballate e marce militari. In un anno la rivolta contadina della Germania meridionale fu soffocata nel sangue, con inumana ferocia, con distruzioni e saccheggi, con la tipica spietatezza che caratterizza gli anni della ‘Santa Inquisizione’. Queste le cifre: 80.000 giustiziati, 50.000 tagli della mano con la quale i villici avevano giurato, 35.000 accecati; istruttivo l’onorario presentato da un boia della Franconia per le sue ‘prestazioni’: 80 decapitazioni, 165 accecamenti, 532 tagli della mano! Si strapparono pure molte lingue a quanti avevano fatto propaganda rivoluzionaria.

Le cause

Dall’evoluzione del sistema feudale si andavano formando i primi elementi dell'economia capitalistica per un elevato grado di accumulazione di capitale commerciale e di capitale usuraio. Si assiste in quegli anni alla riapertura delle miniere e al tentativo di grandi società minerarie bavaresi capitanate dai Fugger, dai Welser, dagli Hochstetter e dai Baumgartner, di assicurarsene lo sfruttamento. La ricchezza cresce in misura mai vista, ma essa è nelle mani della grossa nobiltà e del ceto mercantile cittadino; nelle campagne invece, accanto a pochi contadini benestanti crescono quelli poveri e i non liberi ma soprattutto si accresce la massa dei senza terra che sotto l’incalzare dell'usura delle città hanno perduto i campi che una volta coltivavano: gli espropri ai danni dei contadini e la miseria dei piccoli artigiani crea grandi proprietari da un lato e declassati dall'altro; accanto a questo fenomeno vi è l'impoverimento della nobiltà rurale minore, erede della primitiva aristocrazia germanica e dei cavalieri, molti dei quali si mettono alla testa dei rustici in rivolta. Se a ciò si aggiunge la corruzione del clero romano che porta alla crisi confessionale, sfociata nella ribellione di Lutero, si comprenderanno appieno i motivi che portano alla più grande rivolta del XVI secolo. L’adesione formale dei e dei contadini al Protestantesimo è solo l'accentuazione del tentativo di liberarsi dalla tutela del Vaticano e soprattutto dall’aborrito Diritto Romano: il Los von Rom di allora era causato dall’identificazione del Diritto Romano e del Cattolicesimo corrotto e intollerante, con i suoi corollari di papismo, clericalismo e gesuitismo con la ‘Romanità’.

La condanna delle rivolte contadine da parte di Lutero si articola fra il 1523 e il 1525, in un profluvio di libelli e opuscoli tra cui le Lettere ai Principi di Sassonia sullo spirito sedizioso del luglio 1524; l’Esortazione alla pace in risposta ai dodici articoli dei contadini svevi dell’aprile del 1525; ed infine lo scritto Contro le bande omicide e saccheggiatrici dei contadini del maggio 1525, nel quale spicca un invocazione tanto violenta e decisa da non lasciar adito a dubbi sulla sua interpretazione: “Signori, liberateci, sterminate, e colui che ha il potere agisca.” Con questa esortazione sanguinaria il luteranesimo consolida la propria alleanza con i principi territoriali tedeschi.

Da G. Ciola, A. Colla, C. Mutti, T. Mudry “Rivolte e guerre contadine” Società Editrice Barbarossa, Milano, 1994



di Harm Wulf

11 marzo 2010

Il potere irresponsabile


Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.


Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
di MASSIMO GIANNINI

10 marzo 2010

Il più grande attacco valutario degli ultimi anni


La cena si è tenuta alla Townhouse, una sala privata ed esclusiva creata dal ristorante Park avenue winter al numero 100 sulla 63ª strada di Manhattan, quasi all'incrocio con Park avenue. In questa fascia dell'Upper east side, il quartiere prediletto dai miliardari newyorkesi, la sera si vedono solo domestici che portano a spasso cani che annusano le limousine nere parcheggiate in doppia fila.

Fuori si annuncia una tempesta di neve che, da lì a poche ore, immobilizzerà New York, ma dentro quella palazzina si progetta la tempesta finanziaria che nelle prossime settimane potrebbe sconvolgere ancora una volta l'economia globale.

Neppure Tom Wolfe, che nel Falò delle vanità fu il primo a raccontare i vezzi e la spietatezza dei raider di borsa americani, «i padroni dell'universo», come li chiamava lui, avrebbe mai potuto immaginare una cena come quella dello scorso lunedì 8 febbraio a New York.

Nella foto: La copertina del ”Der Spiegel” in edicola questa settimana

Sulle sedie color cioccolata siedono le migliori menti speculative americane, compresi gli emissari dei tre gestori di hedge fund più ricchi e potenti del mondo: George Soros, John Paulson e Steven Cohen. Ed è della loro prossima scommessa miliardaria che si discute mentre i camerieri fanno circolare lo champagne Krug e lo chef Craig Koketsu prepara il suo menu con pollo al limone e filet mignon.

Stavolta l'obiettivo è più grande del mercato immobiliare distrutto nel 2008. Per colpire la nuova preda nel mirino, l'euro, la moneta unica europea che tanti successi ha ottenuto durante la crisi internazionale contro il biglietto verde americano, ci vuole una strategia più sofisticata che permetta di giocare non solo sulla crisi della Grecia (300 miliardi di euro di debito sovrano e un deficit del 12,7 per cento rispetto al pil), ma anche su paesi di maggiore peso economico che i convitati giudicano vulnerabili. Il Portogallo, sì, ma è piccolo. L'Irlanda, va bene, ma siamo sempre lì.

La Spagna, certo, quella andrebbe bene. Già, sono i Pigs, maiali da mandare al macello, ridacchia qualcuno. E, perché no?, perché non provare ad azzannare addirittura l'Italia? Un paese finanziariamente più solido degli altri, ricorda uno dei commensali, ma politicamente così diviso che sarebbe facile da spolpare grazie a molti appoggi interni. Lì per lì, si inventa un nuovo acronimo Piigs (la doppia I sta per Irlanda e Italia). Già due giorni dopo, se ne approprierà la Cnn nel suo programma dedicato alla finanza.

Ai tavoli, dove, per accompagnare il filet mignon con costolettine brasate e verdure grigliate, è stato scelto un Montrachet d'annata, si approfondiscono strategie finanziarie come l'«Hong Kong double play». Sempre alla ricerca di riferimenti alle proprie imprese passate, i manager degli hedge fund si riferiscono alla doppia scommessa che tentarono durante la crisi delle economie asiatiche a cavallo tra il 1997 e il 1998.

Quella volta i raider fecero due scommesse contemporanee: una contro la borsa e l'altra contro il dollaro di Hong Kong, che sembrava resistere meglio alla crisi mentre, con effetto domino, si svalutavano tutte le monete della regione. Molti però ricordano bene che solo un intervento particolarmente tempestivo delle autorità di Hong Kong aveva sventato il loro tentativo di fare soldi abbattendo anche quella moneta.

Per portare l'euro alla parità col dollaro dalla soglia massima di dicembre di 1,51 euro contro 1 dollaro, in una discesa vertiginosa che potrebbe rappresentare il colpaccio di una vita, ristabilendo il primato finanziario degli Stati Uniti, dovrà essere usata una versione riveduta e aggiornata di quella stretta mortale. I lavori, per la verità, sono già in corso da tempo: a novembre i mercati davano la possibilità di una tale discesa del dollaro a 33 a 1.

Oggi le puntate vengono accettate a 14 a 1. Quello che agli occhi dei comuni mortali potrebbe sembrare un complotto, nel linguaggio dei manager degli hedge fund ha un nome molto più rispettabile: «Idea dinner», una sorta di brain storming della speculazione. Abbattere la moneta unica europea è infatti solo uno di 23 possibili spunti d'investimento messi nel menù della serata: si parla anche di scommettere sul rialzo del dollaro canadese e della Philip Morris, e di trafiggere con «put» al ribasso la Bank of America e la Wells Fargo.

Ma che la distruzione dell'euro non rappresenti un'idea qualunque lo dimostra il fatto che, una settimana dopo la cena, raccontata per la prima volta dal Wall Street Journal, il dipartimento della Giustizia americano ha chiesto ad alcuni dei fondi presenti di non distruggere alcuna transazione delle loro scommesse contro l'euro. Non si tratta ancora dell'apertura di un'indagine formale, ma quasi. A differenza di quel che si pensa, infatti, i raider degli hedge fund adorano scambiarsi informazioni, perlomeno quelle che non violano i segreti più inconfessati li, come gli algoritmi che governano i loro computer.

Il consenso, quasi sempre transatlantico fra Wall Street e la City londinese, può essere persino utile perché porta a un effetto cartello che aumenta in modo esponenziale le possibilità di guadagno. Tutti sanno che la vera bravura non sta nell'identificare il bersaglio, ma nel colpirlo e affondarlo.

Si fa presto a determinare che scommettendo sul ribasso dell'euro si può fare l'affare della propria vita, ma l'importante è come costruire la propria puntata e quando metterla sul tavolo. Che la finanza ad alto rischio sia un grande casinò nessuno lo sa meglio dei presenti, a partire da Andy Monness, fondatore della boutique della finanza Monness, Crespi, Hardt and Co., che ha organizzato la cena

Lui che negli anni Settanta è stato addirittura costretto a dichiarare bancarotta dopo un azzardo clamorosamente sbagliato sulla Levitz, un gruppo produttore di mobili, ora è resuscitato tanto da chiamare a raccolta i titani delle borse. Ci sono gli emergenti come Donald Morgan di Brigade capital e David Einhorn, il quarantenne presidente di Greenlight capital: fu lui che, a fine 2008, intuì che la Lehman Brothers aveva scarse possibilità di sopravvivere e quindi scommise sulla discesa del titolo, accelerandone il fallimento.

A un tavolo, dove la scelta è caduta soprattutto sul pollo arrosto al profumo di limone, troneggiano gli uomini della Sac capital di Steven Cohen, 52 anni, l'eccentrico finanziere che tiene il suo trading floor alla temperatura costante di 21 gradi per impedire che qualcuno dei suoi 180 broker possa appisolarsi. Tra i maggiori collezionisti d'arte moderna, Cohen è famoso per avere comprato lo squalo in formaldeide di Damien Hirst, che ora ha prestato al Metropolitan Museum di New York. Tutt'altro stile è quello di John Paulson, il minuto ed enigmatico fondatore del Paulson and Co.

Dopo avere creato il suo fondo con 2 milioni di dollari nel 1994, Paulson lo ha portato a 12,5 miliardi all'inizio del 2007, che si sono trasformati in 32 miliardi ora: non c'è altro finanziere al mondo che abbia saputo approfittare meglio della recente grande crisi, anche grazie ai consigli del finanziere italiano Paolo Pellegrini, che fu il primo a prevedere l'imminente crollo del mercato immobiliare. Ora Paulson ha un patrimonio personale stimato attorno a 7 miliardi di dollari.

Ma gli occhi degli invitati sono tutti puntati sul manager che rappresenta George Soros, il quale ha sicuramente più dimestichezza di tutti nelle scommesse sulle valute: l'attacco del finanziere di origine ungherese alla sterlina nel 1992 gli portò in tasca 1 miliardo di dollari e costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi temporaneamente dallo Sme, il sistema monetario europeo. Nessuno crede realisticamente che Soros possa ripetere l'impresa con l'euro, la cui forza sul mercato è ben maggiore rispetto a quella della sterlina: circa 1.200 miliardi vengono scambiati ogni giorno nella moneta comune europea. Ma nella Banca centrale europea di Francoforte preoccupa, e non poco, la campagna di stampa che il vecchio finanziere sta conducendo contro l'euro (nello schema qui sopra i possibili effetti sui cittadini). In mancanza di una riforma politica, ha scritto Soros di recente sul Financial Times, ovvero se non si crea un Tesoro unico capace di agire sul piano fiscale a fianco della Bce, il dissolvimento della moneta unica europea è quasi certo.

Cosa che non significa necessariamente che lui punti per forza sul dollaro. Mentre a Davos, al World economic forum, parlava pubblicamente a fine gennaio dell'imminente bolla speculativa dell'oro, si è scoperto che nell'ultimo trimestre Soros ha raddoppiato le sue posizioni sul metallo giallo. Andy Cowen, il manager della Sac, è il primo a intervenire durante la cena dicendo che, secondo i suoi analisti, in qualsiasi modo finisca la crisi greca, l'euro è destinato comunque a uscirne indebolito.



Molti dei presenti hanno già fatto centinaia di milioni di dollari di guadagno sulla crisi di Atene comprando cds, i credit default swap, che rappresentano un'assicurazione sulla possibilità di bancarotta della Grecia. Ora quasi tutti hanno chiuso la loro esposizione sotto il Partenone e sono passati alla fase successiva della campagna di distruzione dell'economia europea, concentrandosi sulle incursioni contro l'euro.

«Voglio capire... voglio sapere chi ha fatto che cosa» ha detto al Financial Times il commissario Ue Michel Barnier. Pochi giorni dopo la cena alla Townhouse i future contro l'euro raggiungevano la cifra di 60 mila, la più alta mai toccata dal 1999. Ma nell'ultima settimana di febbraio anche quel record era già infranto. I future sono già più di 70 mila.

È guerra aperta: i fondi speculativi contro i governi dell'Eurozona. Più si fortificano le difese dell'Ue, più sfrontata diventa la sfida degli squali di Wall Street e della City londinese. Come nei conflitti armati vengono messi in azione per la prima vol- ta anche i servizi segreti.

Prima, l'Eyp greco, che svela la manovra congiunta degli hedge fund Brevan Howard, con sede a Londra, e di quelli americani Moore capital, Fidelity international, Pimco e soprattutto Paulson & Co. Anche a Madrid il governo socialista di José Luis Zapatero incarica il Cni di scoprire e neutralizzare chi punta a destabilizzare la Spagna. Suona l'allarme pure in largo Santa Susanna, a Roma, negli uffici romani del Dis, il dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Proprio nell'ultima relazione al Parlamento sulle attività dell'intelligence italiana, resa nota a fine febbraio, il prefetto Gianni De Gennaro, direttore generale del Dis, ha messo nero su bianco a pagina 99: «Il dispositivo di intelligence sul versante economico-finanziario è stato significativamente potenziato, traducendosi in un volume di produzione informativa e di analisi secondo solo a quello sul terrorismo internazionale».

E mentre a Parigi il ministro del Tesoro Christine Lagarde afferma che «i derivati dovrebbero essere vigorosamente regolati o addirittura vietati», e in Lussemburgo il primo ministro Jean-Claude Junker, responsabile anche dell'Eurogruppo, minaccia di usare «strumenti di tortura» contro gli speculatori, a Berlino Angela Merkel ( che ha promesso di non dare neppure un euro alla Grecia) è fuori di sé dalla rabbia perché è convinta che anche le fughe di notizie sui progetti franco-tedesco- olandesi per salvare la Grecia (da 30 a 40 miliardi di euro) siano state pilotate dalle centrali speculative per mettere sotto pressione il governo tedesco portando nuovi soldi ai soliti noti.

A Roma, nei maestosi corridoi del ministero del Tesoro, nessuno sottovaluta le intenzioni degli speculatori tanto più che proprio Giulio Tremonti è stato il primo a sollevare già nel G8 di Osaka del 2008 la questione dei contratti speculativi richiedendo meccanismi obbligatori di controllo e di riequilibrio temporale delle posizioni di perdite e di guadagno così da limitare la formazione di bolle.

Ma a confortare il governo sono i più recenti rapporti delle grandi banche di affari e delle agenzie di rating che esprimono giudizi positivi sulla tenuta dei conti italiani. Non solo: contro coloro che agiscono per affossare l'euro Tremonti fa valere quello che ripete spesso in questi giorni: «Sulla base delle mie informazioni non esiste affatto una strategia imperiale del dollaro contro l'euro. Semmai una precisa strategia di Barack Obama contro le banche». Come dire che quella cena prima o poi potrebbe risultare più che indigesta.
di Pino Buongiorno e Marco De Martino