25 marzo 2010

Cos'é il collasso, in fin dei conti?

In ogni blog trovate discussioni in corso, spesso aperte da molto tempo, con numerosi commenti e con gente che invece vi si affaccia per la prima volta. Talvolta i lettori hanno un punto di vista contrario al vostro, oppure sono incuriositi o preoccupati per quel che trovano, o magari sono poco interessati; a volte partecipano attivamente, altre volte gettano uno sguardo distratto e se ne vanno. Riuscire a mantenere un giusto equilibrio tra quello che scrivete per i lettori regolari e quello che scrivete per i lettori saltuari è un esercizio sempre molto interessante, che ho dovuto recentemente affrontare: da alcuni mesi mi occupo infatti di blog scientifici e sono entrato in contatto con un mucchio di gente nuova. È un fatto positivo, che richiede però un'attenta calibrazione: che livello di conoscenza devo presupporre? Quanti concetti di base devo spiegare a quelli che non sono esperti, tornando a ripetere cose già note a molti di coloro che invece mi seguono regolarmente?

PalMD ha di recente indicato, e gliene sono sinceramente grato, uno dei siti in cui evidentemente non sto facendo abbastanza per illustrare le mie idee ai lettori. Ha scritto infatti:

E per finire adoro Sharon Astyk su Casaubon's Book...anche se non condivido alcuni punti fondamentali. Mi piace il suo esperimento IRL (In Real Life. NdT) per una vita (illusoriamente) sostenibile, ma la sua concezione di vita sostenibile mi sembra veramente antisociale. È un progetto per sopravvivere da soli a un disastro che distrugga il tessuto sociale. Il post di oggi parla di come far sopravvivere la famiglia creando una riserva di alimenti indispensabili, e quello di ieri parlava di come far in modo che possa profittare di tutto il cibo accantonato. Molto interessante, ma apparentemente poco utile quando si arriva a fine corsa nel mondo reale: prima di cominciare a sbranarsi a vicenda, i componenti di una qualche milizia per la supremazia bianca vi avrà sterminato per il vostro cibo.

Evidentemente sto commettendo qualche errore; tra l'altro quello di dare per scontato che la gente sappia perché dovrebbe fare scorta di alimenti, o mangiare tutto l'anno prodotti locali. PalMD ritiene che mettere da parte alimenti sia roba da apocalisse, e che in ogni caso una decisione di questo tipo sia un fatto personale e non sociale. Entro certi limiti è un principio corretto; ho scritto parecchio sull'apocalisse, un termine che è accompagnato immancabilmente da idee quali "zombie, supremazia bianca, e sciacallaggio per mangiare".

È irritante scrivere un articolo accattivante e ben presentato e ritrovarsi con qualcuno che risponde formulando una lunga e serissima analisi, e mi dispiace doverlo fare. Nel mio caso è proprio quello che mi ha "fatto staccare" il cervello, e gli sono profondamente grato per avermi offerto l'occasione di smetterla con la critica di cui mi stavo occupando e passare a qualcosa di più interessante!

In effetti, il termine "collasso" non presuppone alcuna forma di cannibalismo nella maggior parte delle società civili, che sono ovviamente contrarie al modello "bambino allo spiedo". I taboo contro una simile pratica sono talmente radicati che la maggior parte degli esseri umani preferirebbe morire di fame piuttosto che violarli, come vediamo nelle società con alti tassi di denutrizione (cfr il libro di Margaret Visser: The Rituals of Dinner) in cui il cannibalismo non viene mai considerato una soluzione alla penuria di cibo ma piuttosto una pratica estremamente ritualizzata e attentamente strutturata, spesso associata a una guerra formale. E non deve necessariamente far pensare a Mad Max. Ne ho già parlato nella mia risposta a Zuska , ma ho pensato di usare adesso un approccio più pragmatico: nel nostro secolo, che cosa è veramente successo quando le società sono arrivate al collasso? Ci sono mezzi per ridurre questa follia? Gli eventi storici non possono fornirci una risposta sufficientemente accurata, ma possono almeno offrirci un punto di partenza.

Da questo punto di vista, il "collasso" è in effetti un fenomeno molto comune: le società arrivano a uno specifico livello funzionale, si scontrano con limiti invalicabili (spesso ecologici, come hanno documentato tra gli altri Jared Diamond in "Collapse: How Societies Choose to Succeed or Fail" e Joseph Tainter in "The Collapse of Complex Systems"), e ricadono a un livello funzionale più basso. Quanto più basso, dipende dal modo in cui la società reagisce. Pensiamo per esempio all'Isola di Pasqua. E più di recente Ruanda e Burundi sono ripetutamente piombati in una violenza insostenibile e in guerre civili senza sbocchi, con conseguenze umane terribili e non molto dissimili da quelle di Mad Max.

D'altro canto pensiamo all'ultima società in ordine di tempo ad aver collassato: l'Islanda. Nel 2008 e l'isola, che era diventata estremamente ricca e prospera, ha conosciuto un crollo economico i cui effetti si fanno ancora sentire. Quello bancario è stato il più grave, se si rapporta alle dimensioni del paese, mai registrato nella storia economica.

Gli avvenimenti islandesi rassicureranno certamente la gente che si preoccupa all'idea di un collasso: la situazione era diventata molto sgradevole, ma in confronto al Ruanda si è trattato di poca cosa. Ci sono state manifestazioni violente, suicidi, emigrazione, e il governo è stato esautorato. Per affrontare la crisi è stato pagato un costo enorme: disoccupazione generalizzata, forte aumento dei tassi d'interesse, crollo delle importazioni, esplosione del numero di pignoramenti, necessità per molti professionisti ben pagati di riciclarsi nell'industria della pesca (e le riserve ittiche sono rapidamente calate), costi proibitivi dei beni importati, rapido impoverimento della popolazione. Ma d'altro canto i beni essenziali sono stati in buona misura preservati.

In conclusione, la prima cosa che possiamo dire del collasso è che si tratta di un evento estremamente variabile (economico, energetico, politico, o tale da sfociare in una guerra civile) e che alcuni casi sono meno gravi di altri. In effetti, Dmitry Orlov, autore di "Reinventing Collapse", in cui paragona quello che succederà, secondo lui, negli USA con quello che è successo nell'Unione Sovietica (evento parzialmente vissuto in prima persona), ha scritto un ponderato e interessante saggio, in cui si sofferma in particolare su un punto:

Anche se molti vedono il collasso come una specie di ascensore che scende al livello delle cantine (il nostro Stato 5), indipendentemente dal pulsante che abbiamo premuto, in realtà non si vede nessun meccanismo automatico di questo tipo. Passare allo Stadio 5 richiede invece uno sforzo concertato a ogni livello. Il fatto che tutti sembrino pronti a farlo può dare al collasso l'apparenza di una tragedia classica, una marcia consapevole ma inesorabile verso la perdizione, piuttosto che di una farsa (Perbacco! Eccoci allo Stadio 5. Chi ci mangiamo per primo? Cominciate con me. Sono prelibato!).

Lo ammetto, trovo estremamente difficile immaginare uno scenario in cui gli USA non collassino almeno in parte; in qualunque modo lo si veda, il paese sta correndo proprio questo pericolo. Continuiamo a proclamare che il crollo economico è stato evitato, ma in realtà lo abbiamo solo rimandato di qualche anno; cosicché l'enorme carico economico ricadrà quasi sicuramente sulle spalle di quelli che oggi hanno meno di 50 anni e delle future generazioni. Si può dire lo stesso della crisi energetica, e a maggior ragione di quella climatica. Nessuno oserà negare, penso, che le nostre politiche in queste tre aree sono a corto termine e pensate per evitare di farci subito carico del peso, non certo per sfuggire alla crisi.

Che cosa mi fa credere che le crisi saranno talmente dure da portare al collasso? Le previsioni di analisti degni di fiducia e imparziali. Ad esempio, nel 2005 l'US DOE (Department of Energy, il ministero statunitense per l'energia. NdT) aveva commissionato uno studio, l' Hirsch Report , per capire se il picco petrolifero rappresentasse un vero pericolo. Robert Hirsch, il ricercatore responsabile del rapporto, ne è oggi un convinto assertore, ma all'inizio la pensava diversamente. Il rapporto per il DOE era arrivato alla conclusione che avremmo potuto evitare il collasso investendo a un livello paragonabile a quello della II guerra per almeno 20 anni (un periodo più breve avrebbe indotto una grave crisi). È la conclusione del DOE, non la mia: dato che non stiamo destinando alle energie rinnovabili somme paragonabili a quelle della II guerra mondiale, e dato che anche l'USGS (United States Geological Survey. NdT) prevede il picco petrolifero entro il 2023, un semplice calcolo suggerisce che ci dobbiamo aspettare seri problemi. L ' Army ha preparato un rapporto simile.

E a proposito del cambio climatico? Beh, guardate The Stern Review di Sir Nicholas Stern sulle conseguenze economiche del fenomeno. Tra le altre conclusioni (i presupposti sugli obiettivi climatici sono oramai superati; riteneva infatti che 550 ppm avrebbero potuto evitare più guai di quanto potranno in realtà fare), c'era quella secondo cui cambiamenti climatici non controllati potrebbero indurre costi superiori al 20% del PIB mondiale, un peso che nessuna economia potrebbe sopportare senza, appunto, collassare. Poiché niente lascia pensare a una nostra capacità di stabilizzare l'ecologia a livelli inferiori, sembra ragionevole presupporre che ci troveremo ad affrontare elevati costi, con gravi conseguenze economiche.

E ciò vale anche per le mie idee sulle conseguenze pratiche e materiali del cambiamento climatico: le previsioni dell'IPCC e di altri studi suggeriscono, tra gli altri effetti inevitabili del fenomeno, l'afflusso di un alto numero di rifugiati, conflitti per le scarse risorse, siccità, ridotti tassi di produzione alimentare, maggiori malattie infettive, tempeste più violente e disastri naturali più numerosi... Questo eventi implicano elevati costi, non solo economici ma anche materiali, che porteranno inevitabilmente al collasso delle società. Si può ragionevolmente affermare, ad esempio, che New Orleans è destinata a restare a un livello funzionale molto più basso per un lungo periodo; anzi, non è chiaro se riuscirà mai a venirne fuori.

A questo punto, non penso di dover spiegare perché secondo me avremo un crollo economico; può sopravvenire in qualsiasi momento, e anzi sappiamo che ci siamo andati vicino nell'autunno 2008.

Sappiamo che possiamo aspettarci un collasso energetico, magari assieme a uno economico: l'ex primo ministro sovietico Yegor Gaider ha scritto un libro in cui afferma che, secondo lui, l'Unione sovietica collassò per la sua dipendenza dalle esportazioni energetiche e per lo spostamento della popolazione dalla campagna alle città. Il paese aveva fatto a lungo affidamento sulle esportazioni energetiche per comprare prodotti alimentari sui mercati esteri, ma dopo il crollo dei prezzi nel settore il numero di contadini risultò insufficiente per aumentare la produzione agricola, e il governo non fu capace di gestire la situazione.

Sappiamo anche che l'evento provocò ulteriori cedimenti: Cuba crollò perché l'Unione sovietica era collassata e aveva sospeso le spedizioni di petrolio. L'isola perse 1/5 delle sue importazioni energetiche e le strutture sociali si disgregarono in parte: la gente cominciò a soffrire la fame e a nutrirsi di scorze di agrumi dato che non c'era più energia per mandare avanti il suo sistema agricolo altamente tecnologico.

L'esempio di Cuba è interessante perché è una ulteriore dimostrazione del fatto che anche piccole alterazioni delle risorse energetiche possono dar luogo a conseguenze disastrose: 1/5 di petrolio in meno non avrebbe dovuto ridurre la gente alla fame. Molti potrebbero ragionevolmente pensare che il contraccolpo avrebbe potuto essere assorbito eliminando gli sprechi del sistema e distribuendo meglio le risorse, o magari che la responsabilità ricada sul governo cubano. Quest'ultimo punto è probabilmente in parte vero, ma non dimentichiamo che anche negli USA abbiamo casi che dimostrano come piccoli cambi nelle forniture energetiche portano a conseguenze estremamente distruttive: lo shock petrolifero degli anni '70 e la susseguente recessione furono dovute a una contrazione delle importazioni petrolifere di poco più del 5%.

In conclusione, ritengo che ci stiamo avviando a una qualche forma di collasso (senza necessariamente collegarla a cannibalismo o bande criminali in difesa della razza bianca) che mi piacerebbe allontanare al più presto: ho anche altre cose da fare! Quando cominciai a scrivere sul tema, nel 2003, mi sembrava probabile che il cambiamento climatico si sarebbe manifestato molto più lentamente e che saremmo stati in grado di affrontare una crisi alla volta.

Mi pare oramai evidente che ci avviamo verso una crisi al tempo stesso economica, energetica e climatica, e non vedo come superarla con successo. Impossibile? Forse no, ma di sicuro improbabile; la ristrutturazione sociale sarebbe enorme e coinvolgerebbe tutti i fattori cui ho prima accennato. Quasi tutti quelli che si occupano del tema fanno paragoni con la II Guerra mondiale e con il clima di guerra (Niels Bohr affermò che sarebbe stato impossibile sviluppare la bomba atomica senza trasformare l'intera nazione in una fabbrica, e nel 1944 osservò che ci eravamo riusciti). Dover rifare la stessa cosa affrontando al tempo stesso una crisi poliedrica sembra ancora più difficile.

In ogni caso, dovremmo comunque prospettarci la possibilità di un fallimento. E questo è un problema in una società che sembra credere a un'alternativa dicotomica: non potete preparavi all'insuccesso e mettere a punto un piano di riserva in caso di fallimento. Psicologicamente ci convinciamo che se pensiamo seriamente alla possibilità di fallire, allora falliremo; e quindi non lo facciamo perché ci sembra morboso. Non ci prepariamo per il disastro, anche quando ci sembra imminente: non creiamo una riserva alimentare, anche se la FEMA (Federal Emergency Management Agency, l'agenzia federale per la gestione delle emergenze. NdT) e la Croce rossa ci mettono in guardia, e anche se recentemente il responsabile della FEMA ha ricordato che la prima linea di difesa è la preparazione individuale. Tendiamo a un approccio dicotomico, mentre in realtà abbiamo bisogno delle due alternative: volontà "e" attenzione nell'attraversare la strada, preparare gli strumenti "e" avere un piano di evacuazione, stipare cibo nella dispensa "e" perseguire una maggiore coesione sociale.

Inoltre, buona parte di quel che raccomando va bene per gente che non è coinvolta in un crollo dichiarato, ma la cui vita sta per collassare: senza lavoro, in procinto di perdere la casa, con possibilità alimentari insufficienti, gravati da problemi medici e privi di assicurazione sanitaria... in gran parte quello che incoraggio la gente a fare, compresa la creazione di una scorta di alimenti e un maggior sostegno sociale funziona con la "gente" che sta per cedere, anche se la società non li ha ancora etichettati come falliti.

Quali sono i punti comuni delle varie società in collasso? Potrei risalire a Roma, ovviamente, ma non mi sembra necessario. Eccone alcuni:

1.La gente, estremamente irritata col governo, arriva di solito a qualche forma di resistenza civile e spesso il governo cambia; talvolta è una buona cosa, talvolta invece no. In certi casi, come ben sappiamo, il governo trova dei capi espiatori, il che è veramente negativo. La migliore soluzione è quando il governo va incontro alle richieste del popolo, o quando si toglie di mezzo e lascia che sia il popolo stesso a decidere.

2. Il tasso di criminalità aumenta; servizi come la protezione cittadina sono meno raggiungibili o vengono privatizzati, e, fattore comune alle società in crisi, sono più violenti. Ma ciò non significa che i signori della guerra uccidano tutti quelli che si trovano sul loro cammino. Significa invece più violenza, furti, stupri e delitti nelle strade, e qualche volta lucrosi rapimenti. Significa anche che la gente è vulnerabile e terrorizzata, e che spesso non ha fiducia nelle autorità; è un po' come essere afroamericani e vivere in una periferia degradata, o magari a Bagdad. In generale non vi fa piacere che i vostri figli escano spesso, anzi tendete a non uscire troppo nemmeno voi, e la sicurezza diventa un problema importante.

3. La popolazione s'impoverisce rapidamente; questa è forse la caratteristica più comune. Quando le società collassano, la percentuale di poveri aumenta; in Argentina, ad esempio, la crisi del 2001 distrusse in pratica la classe media e fece aumentare il tasso di povertà dal 20% a quasi il 57%. A mio parere è un tratto comune a tutti i collassi, ed è proprio quello che sta succedendo.

4. Costo e disponibilità degli alimenti diventano un serio problema. Il caso dell'Argentina, un paese prima stabile e agiato, mostra che molti alimenti ricercati, in particolare quelli importati, sono spesso introvabili e, cosa più importante, il forte impatto economico rende meno facile comprarli. Crisi sanitaria (in particolare la mancanza di cure), depressione, ricorso all'alcol e alle droghe, aumentano sensibilmente.

5. Servizi e strutture si degradano perché, e il caso è frequente tra gli americani poveri, la gente non è in grado di far fronte ai pagamenti (ad esempio, decine di migliaia di capofamiglia si vedranno tagliare i servizi dal 1° aprile, data prima della quale non è legalmente permesso togliere ai privati i servizi essenziali) o perché le infrastrutture sono fatiscenti e la coesione sociale viene meno. Sempre più spesso l'energia non verrà erogata, i rifiuti non verranno prelevati, il gas mancherà e i camion di riapprovvigionamento non si faranno vedere...

6. La gente si riavvicinerà: che vivano ammassati nei ghetti o che abbiano perso la casa, le famiglie cominceranno ad aiutarsi a vicenda. E lo stesso faranno intere comunità e quartieri: chi ha cibo lo divide con voi, chi ha spazio lo cede ai bisognosi. Nasce una cultura di condivisione.

Si tratta di situazioni praticamente universali e quasi inevitabili nelle società collassate. In alcuni casi, invece, i vostri vicini cercheranno di uccidervi e bande organizzate cominceranno a terrorizzare il quartiere; ma non si tratta di situazioni inevitabili.

Il problema è: se il collasso incombe, su cosa concetrare gli sforzi? Cercate di prevenirlo, anche se è sempre più difficile, o vi preoccupate, come suggerisce Orlov, dei bisogni di base? Secondo me, la risposta è che bisogna operare su entrambi i fronti, concentrandosi su azioni a doppio effetto; le strategie vincenti sono quelle che, quando vi trovate di fronte a un crollo importante dei sistemi, riducono gl'impatti e aumentano la resistenza. Credo che la maggior parte dei miei suggerimenti, se non tutti, vadano in questa direzione.

In caso di collasso, quale che sia, cosa può meglio aiutare? Sappiamo ad esempio che il sostegno sociale fa una grossa differenza. "Reinventing Collapse" sottolinea che il sistema di assistenza sociale è stato fondamentale per la sopravvivenza dei russi. Aver messo a portata del popolo cure mediche, cibo e un luogo in cui vivere ha permesso di evitare che la crisi diventasse troppo dura. A Cuba, con tutti i suoi limiti, il governo ha fatto qualcosa di veramente notevole, l'esatto contrario del governo USA: ha salvaguardato il sostegno sociale, a spese della crescita potenziale. In altre parole, per affrontare la "contingenza particolare", ha diffuso i programmi educativi nelle università più piccole, aumentato il numero di ospedali nelle aree rurali, rafforzato i programmi alimentari. Come sostengo in "Depletion and Abundance", è proprio quello di cui abbiamo bisogno qui da noi: le nostre massime priorità dovrebbero essere l'assistenza medica, la sicurezza alimentare, l'insegnamento e i programmi per gli anziani, i disabili e i bambini. Il bello di questa strategia politica è che le cose che contano sono proprio quelle cui la gente dice di tenere di più.

Disgraziatamente non è questa la cultura in cui viviamo: gli Stati Uniti rispondono alla crisi economica e sociale aumentando regolarmente i programmi governativi e militari, e tagliando i fondi per l'assistenza sociale. Sta già avvenendo, ed è per questo che mi affido alle reti locali e private (per tutti quelli che vivono nelle comunità) e alle altre risorse minimali più che ai grandi programmi; servono infatti da ultimo ricorso per coloro che sono precipitati ma che riescono a sopravvivere, anche in assenza di aiuti federali o statali, perché possono operare a scala sufficientemente locale. Questo non significa che io sia favorevole alla frantumazione dei programmi sociali, sicuramente no; e negli ultimi anni ho scritto spesso sull'importanza di finanziare il servizio sanitario universale, il LiHeap (Low Income Home Energy Assistance Program, NdT), i buoni pasto, il WIC (Special Supplemental Nutrition Program for Women, Infants and Children. NdT) e i programmi per disabili e anziani. Ho speso molte energie per difendere tutte queste azioni, ma al tempo stesso ritengo che sia urgente creare reti di emergenza più localizzate.

Per fermare la discesa verso il basso sono utili anche le strategie di autosoccorso. A Cuba, per esempio, l'agricoltura a piccola scala nei centri urbani ha fatto molto (non tutto, anche i beni importati hanno svolto un ruolo importante) per alleviare la fame e le carenze nutrizionali. In Russia, tutte le analisi economiche affermavano che ci sarebbe stata una carestia generalizzata; non c'è stata, in buona parte grazie allo sviluppo di un'economia locale che ha surrogato le carenze di quella a grande scala. In Argentina, raccogliere cartoni ha aiutato 40.000 persone. Durante la Grande depressione americana, un buon esempio secondo me di un quasi collasso, il numero di lavori informali si moltiplicò: il New York Times osservò che nel 1932 in città c'erano 7.000 persone, in gran parte adulte, che lucidavano scarpe, mentre nel 1928 ce ne erano meno di 200, quasi tutti bambini.

Le strategie individuali di sopravvivenza e le reti di sostegno sociale non entrano in conflitto: sono entrambe necessarie, in particolare quando i programmi di accompagnamento sociale sono criticati o accantonati, come oggi negli USA. Da soli non possono dar sollievo alla popolazione o ridurre la portata del disastro, ma insieme possono permettere alla gente di sopravvive, alimentarsi e sentirsi ragionevolmente al sicuro.

In un certo qual senso può sembrare stupido accontentarsi di questo. Ognuno vuole il meglio per se, gli amici, il mondo, i figli: anche io. Disgraziatamente è assai poco probabile che ci sia offerta la possibilità di ottenere molto di più; mi rendo conto che è deprimente dirlo, ed è il genere di affermazione che sconvolge la gente. In un certo senso sarebbe meglio se potessi convincermi che il collasso sarà un fatto positivo; ma non posso. Ci sono esempi di persone capaci di cavarsela meglio se la società è crollata e poi è risorta, ma è lecito dire che a nessuno piace una tale situazione. Il progetto, dunque, mira a evitare che sia troppo dura o mortale.

PalMD pensa che il mio tentativo di condurre una vita sostenibile sia illusorio, e in un certo qual modo ha ragione. Posso documentare con precisione le risorse che uso, perché le ho registrate negli ultimi quattro anni: rispetto alla quantità media statunitense, i sei componenti della mia famiglia producono il 15% delle emissioni casalinghe e il 20% dei rifiuti, usano il 40% di acqua e spendono il 10% in nuovi beni di consumo. La famiglia media americana è composta da 2,6 persone e il nostro uso reale è inferiore al loro, perché siamo sei membri; siccome siamo comunque una grande famiglia il meno che possiamo fare è tagliare al massimo.

Ma tutto poggia su una base di risorse importate, senza le quali le nostre vite sarebbero veramente difficili. La mia speranza è che anche altri si decidano a eliminare gli sprechi energetici (noi ci siamo riusciti, senza grandi investimenti, coi pannelli solari, e altri membri di Riot for Austerity hanno dimostrato che il risultato può essere raggiunto in città e in campagna, da parte di singoli o di famiglie numerose: dunque sappiamo che è fattibile). Ma non m'illudo che la tendenza diventi una moda in grado di salvare il mondo, perché in ogni caso sarà troppo tardi; dovremmo allora ancora dimezzare, più o meno, i nostri consumi energetici.

Oltre alle giustificazioni morali – è la cosa giusta da fare, sappiamo che le nostre emissioni sono una minaccia e dobbiamo quindi ridurle al minimo – a mio parere c'è un'altra ragione per adottare una posizione simile: vi permette di agire sul piano individuale e collettivo allo stesso tempo, di stipare riserve di cibo indipendentemente e di organizzare la vostra comunità in modo da essere sicuri che i vicini possano sfamarsi e che i vostri figli non muoiano di fame. Vi permette di eliminare in parte la pressione quando perdete il lavoro, ma anche di riempire la dispensa quando potete farlo. Migliora la situazione sia durante che dopo il collasso.

Non funziona invece molto bene nelle situazioni estreme, se cominciamo a trattarci come hanno fatto Tutsi e Hutu dagli anni '70 in poi. Se diamo il potere a un governo fascista che condanna ebrei, intellettuali, atei, immigranti... siamo fregati. Le migliori strategie richiedono di frenare ogni volta che è possibile, e mi piacerebbe se fosse possibile farlo prima di collassare, ma mi pare poco probabile. Ritengo invece che la strategia vincente consista nell'agire in modo da avvicinarci il più possibile all'Islanda e il meno possibile al Ruanda.

di Sharon Astyk

Fonte: www.energybulletin.net

24 marzo 2010

Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio

http://www.criminologia.it/images/montecitorio.jpg

La Camera degli sprechi

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

di Alessandro Ferrucci

23 marzo 2010

La pressione fiscale sui ricchi


Si dice che la pressione fiscale sulle grandi fortune non si puó incrementare per non disincentivare gli investimenti e l’iniziativa privata e perché i capitali fuggirebbero in altri paesi con fiscalitá meno forti (fuga che é effettivamente avvenuta dalla Grecia ultimamente). Si ripete con la stessa insistenza che la accumulazione di capitale é una condizione necessaria per l’attivitá economica e il benessere generale. Questi stereotipi fanno parte delle convinzioni piú solide di chi prende le grandi decisioni economiche e politiche e finiscono per essere assunte dall’opinione pubblica. Ma sono un inganno.

Vediamo cosa é successo con le imposte ai ricchi nel paese piú liberale e individualista dell’occidente: gli USA.

Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la pressione fiscale sui guadagni piú alti passó dal 25% al 63% nel 1932, come mezzo per combattere la Gran Depressione. Da allora al 1981, cioé per 50 anni, si é mantenuta sempre oltre il 63%, arrivando al picco del 94% nel 1944, come contributo allo sforzo della guerra, e oscillando dal 82% al 91% nei venti anni dalla fine della guerra al 1963. Da Reagan in poi, non fece che diminuire, fino ad arrivare al 35% nel 2009.

Quella lunga esperienza di cinque decenni mostra che la classe capitalista, anche quella piú potente degli USA, puó accettare una pressione fiscale molto alta e che imposte cosí alte sono compatibili con la crescita economica. Nei 50 anni in cui la pressione fiscale negli USA si mantenne oltre, o molto oltre il 50% a carico della parte piú ricca, furono anni di massima prosperitá per quel paese. Quelle tasse potevano servire per migliorare lo stato sociale e i servizi pubblici a beneficio dei piú poveri, se i bilanci delle guerre non avessero fatto la parte del leone nel mangiarsele. Peró quello che ci interessa qui é provare che in 50 lunghi anni la classe capitalista della prima potenza del mondo accettó una pressione fiscale che ora molti dicono del tutto proibitiva e insensata.
La percentuale massima per la IRPEF in Spagna fu posta al 43% nel 2008, quella per le societá (IRPEG) al 30%, cinque punti in meno rispetto alle percentuali del 2000 e non c’è nessun segnale di volerli aumentare.

Un altro stereotipo é che le differenze sulle varie fiscalitá aumentano la fuga di capitali in paesi con minore pressione. Peró questo succede da quando si eliminó il controllo sui cambi e si installó una libertá totale di circolazione dei capitali. Limitiamo o eliminiamo questa libertá e scomparirá la minaccia di fuga di capitali. Non é una fantasia e non é impossibile: é qualcosa che é giá successo e neanche tanto tempo fa. Basta guardare agli anni anteriori alla controrivoluzione neoliberale degli anni settanta. Un giorno si dovrá avere il coraggio di tornare a certe regolamentazioni.

Il terzo mito é che basta con lasciare che si accumulino benefici senza limiti perché l’economia funzioni e tutti ci guadagniamo (la teoria del Trickle Down Economic della scuola di Chicago). Cosí si giustifica la libertá che si concede ai capitali di uscire dall’economia di un paese e delocalizzare, al prezzo della deindustrializzazione di regioni intere e la condanna di migliaia di persone alla disoccupazione (sulla base della sacra libertá del capitale di accumularsi) mentre la realtá e che nel mondo c’è un’enorme incremento di liquiditá. La sovraccumulazione é proprio la causa della speculazione: sulle monete, sul debito dei paesi, sugli immobili, sul petrolio, gli alimenti… Si cercano rendimenti altissimi che non si trovano nell’economia produttiva. Viviamo in un sistema malato che sacrifica tutto all’accumulazione di denaro che non solo é inutile ma dannosa.

Questi tre miti fanno parte dello stesso insieme, che si dovrebbe abbordare con misure combinate come: forti gravami fiscali sulle grandi fortune; armonizzazione delle imposte nell’intera UE; limiti ristretti sulla circolazione di capitali; eliminazione dei paradisi fiscali; armonizzazione verso l’alto dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali nella UE. Il denaro che va alle classi popolari genera una domanda di beni e servizi che é la base di una economía sana, mentre quello che finisce nei portafogli dei ricchi alimenta solo il potenziale speculativo. Alcuni settori popolari si lasciano abbindolare dai fondi di investimento e dalle pensioni integrative solo quando li si minaccia con il fallimento dello Stato Sociale, cosí hanno ingannato gli spagnoli e molti europei negli ultimi 15 anni. Il sistema fa gesti demagogici, come la richiesta al FMI da parte del Consiglio D’Europa (11/12/2009) di una tassa Tobin per le transazioni finanziare speculative per raccogliere un po’ di soldi. Ma sono solo gesti che danno ragione a chi pensa che sono misure che gli convengono, perché si potrebbe fare molto piú di quello. L’aumento delle tasse ha iniziato ad essere nell’agenda europea giá dall’ultima estate, favorita da paesi come Svezia e Finlandia, con una lunga tradizione di alta pressione fiscale coniugata a prosperitá e buoni servizi pubblici.

Nel nostro paese, il dibattito sulle pensioni e sulla sostenibiltá dello Stato Sociale non puó e non deve lasciare questi temi al margine. Centrare le riforme sul mercato del lavoro o sull’aumento dell’etá pensionabile é una nuova aggressione contro i i diritti da parte della oligarchia internazionale del denaro e dei suoi seguaci.

Joaquim Sempere (Professore di Teoria Sociologica e Sociologia dell’Ambiente dell’Universitá di Barcelona)

25 marzo 2010

Cos'é il collasso, in fin dei conti?

In ogni blog trovate discussioni in corso, spesso aperte da molto tempo, con numerosi commenti e con gente che invece vi si affaccia per la prima volta. Talvolta i lettori hanno un punto di vista contrario al vostro, oppure sono incuriositi o preoccupati per quel che trovano, o magari sono poco interessati; a volte partecipano attivamente, altre volte gettano uno sguardo distratto e se ne vanno. Riuscire a mantenere un giusto equilibrio tra quello che scrivete per i lettori regolari e quello che scrivete per i lettori saltuari è un esercizio sempre molto interessante, che ho dovuto recentemente affrontare: da alcuni mesi mi occupo infatti di blog scientifici e sono entrato in contatto con un mucchio di gente nuova. È un fatto positivo, che richiede però un'attenta calibrazione: che livello di conoscenza devo presupporre? Quanti concetti di base devo spiegare a quelli che non sono esperti, tornando a ripetere cose già note a molti di coloro che invece mi seguono regolarmente?

PalMD ha di recente indicato, e gliene sono sinceramente grato, uno dei siti in cui evidentemente non sto facendo abbastanza per illustrare le mie idee ai lettori. Ha scritto infatti:

E per finire adoro Sharon Astyk su Casaubon's Book...anche se non condivido alcuni punti fondamentali. Mi piace il suo esperimento IRL (In Real Life. NdT) per una vita (illusoriamente) sostenibile, ma la sua concezione di vita sostenibile mi sembra veramente antisociale. È un progetto per sopravvivere da soli a un disastro che distrugga il tessuto sociale. Il post di oggi parla di come far sopravvivere la famiglia creando una riserva di alimenti indispensabili, e quello di ieri parlava di come far in modo che possa profittare di tutto il cibo accantonato. Molto interessante, ma apparentemente poco utile quando si arriva a fine corsa nel mondo reale: prima di cominciare a sbranarsi a vicenda, i componenti di una qualche milizia per la supremazia bianca vi avrà sterminato per il vostro cibo.

Evidentemente sto commettendo qualche errore; tra l'altro quello di dare per scontato che la gente sappia perché dovrebbe fare scorta di alimenti, o mangiare tutto l'anno prodotti locali. PalMD ritiene che mettere da parte alimenti sia roba da apocalisse, e che in ogni caso una decisione di questo tipo sia un fatto personale e non sociale. Entro certi limiti è un principio corretto; ho scritto parecchio sull'apocalisse, un termine che è accompagnato immancabilmente da idee quali "zombie, supremazia bianca, e sciacallaggio per mangiare".

È irritante scrivere un articolo accattivante e ben presentato e ritrovarsi con qualcuno che risponde formulando una lunga e serissima analisi, e mi dispiace doverlo fare. Nel mio caso è proprio quello che mi ha "fatto staccare" il cervello, e gli sono profondamente grato per avermi offerto l'occasione di smetterla con la critica di cui mi stavo occupando e passare a qualcosa di più interessante!

In effetti, il termine "collasso" non presuppone alcuna forma di cannibalismo nella maggior parte delle società civili, che sono ovviamente contrarie al modello "bambino allo spiedo". I taboo contro una simile pratica sono talmente radicati che la maggior parte degli esseri umani preferirebbe morire di fame piuttosto che violarli, come vediamo nelle società con alti tassi di denutrizione (cfr il libro di Margaret Visser: The Rituals of Dinner) in cui il cannibalismo non viene mai considerato una soluzione alla penuria di cibo ma piuttosto una pratica estremamente ritualizzata e attentamente strutturata, spesso associata a una guerra formale. E non deve necessariamente far pensare a Mad Max. Ne ho già parlato nella mia risposta a Zuska , ma ho pensato di usare adesso un approccio più pragmatico: nel nostro secolo, che cosa è veramente successo quando le società sono arrivate al collasso? Ci sono mezzi per ridurre questa follia? Gli eventi storici non possono fornirci una risposta sufficientemente accurata, ma possono almeno offrirci un punto di partenza.

Da questo punto di vista, il "collasso" è in effetti un fenomeno molto comune: le società arrivano a uno specifico livello funzionale, si scontrano con limiti invalicabili (spesso ecologici, come hanno documentato tra gli altri Jared Diamond in "Collapse: How Societies Choose to Succeed or Fail" e Joseph Tainter in "The Collapse of Complex Systems"), e ricadono a un livello funzionale più basso. Quanto più basso, dipende dal modo in cui la società reagisce. Pensiamo per esempio all'Isola di Pasqua. E più di recente Ruanda e Burundi sono ripetutamente piombati in una violenza insostenibile e in guerre civili senza sbocchi, con conseguenze umane terribili e non molto dissimili da quelle di Mad Max.

D'altro canto pensiamo all'ultima società in ordine di tempo ad aver collassato: l'Islanda. Nel 2008 e l'isola, che era diventata estremamente ricca e prospera, ha conosciuto un crollo economico i cui effetti si fanno ancora sentire. Quello bancario è stato il più grave, se si rapporta alle dimensioni del paese, mai registrato nella storia economica.

Gli avvenimenti islandesi rassicureranno certamente la gente che si preoccupa all'idea di un collasso: la situazione era diventata molto sgradevole, ma in confronto al Ruanda si è trattato di poca cosa. Ci sono state manifestazioni violente, suicidi, emigrazione, e il governo è stato esautorato. Per affrontare la crisi è stato pagato un costo enorme: disoccupazione generalizzata, forte aumento dei tassi d'interesse, crollo delle importazioni, esplosione del numero di pignoramenti, necessità per molti professionisti ben pagati di riciclarsi nell'industria della pesca (e le riserve ittiche sono rapidamente calate), costi proibitivi dei beni importati, rapido impoverimento della popolazione. Ma d'altro canto i beni essenziali sono stati in buona misura preservati.

In conclusione, la prima cosa che possiamo dire del collasso è che si tratta di un evento estremamente variabile (economico, energetico, politico, o tale da sfociare in una guerra civile) e che alcuni casi sono meno gravi di altri. In effetti, Dmitry Orlov, autore di "Reinventing Collapse", in cui paragona quello che succederà, secondo lui, negli USA con quello che è successo nell'Unione Sovietica (evento parzialmente vissuto in prima persona), ha scritto un ponderato e interessante saggio, in cui si sofferma in particolare su un punto:

Anche se molti vedono il collasso come una specie di ascensore che scende al livello delle cantine (il nostro Stato 5), indipendentemente dal pulsante che abbiamo premuto, in realtà non si vede nessun meccanismo automatico di questo tipo. Passare allo Stadio 5 richiede invece uno sforzo concertato a ogni livello. Il fatto che tutti sembrino pronti a farlo può dare al collasso l'apparenza di una tragedia classica, una marcia consapevole ma inesorabile verso la perdizione, piuttosto che di una farsa (Perbacco! Eccoci allo Stadio 5. Chi ci mangiamo per primo? Cominciate con me. Sono prelibato!).

Lo ammetto, trovo estremamente difficile immaginare uno scenario in cui gli USA non collassino almeno in parte; in qualunque modo lo si veda, il paese sta correndo proprio questo pericolo. Continuiamo a proclamare che il crollo economico è stato evitato, ma in realtà lo abbiamo solo rimandato di qualche anno; cosicché l'enorme carico economico ricadrà quasi sicuramente sulle spalle di quelli che oggi hanno meno di 50 anni e delle future generazioni. Si può dire lo stesso della crisi energetica, e a maggior ragione di quella climatica. Nessuno oserà negare, penso, che le nostre politiche in queste tre aree sono a corto termine e pensate per evitare di farci subito carico del peso, non certo per sfuggire alla crisi.

Che cosa mi fa credere che le crisi saranno talmente dure da portare al collasso? Le previsioni di analisti degni di fiducia e imparziali. Ad esempio, nel 2005 l'US DOE (Department of Energy, il ministero statunitense per l'energia. NdT) aveva commissionato uno studio, l' Hirsch Report , per capire se il picco petrolifero rappresentasse un vero pericolo. Robert Hirsch, il ricercatore responsabile del rapporto, ne è oggi un convinto assertore, ma all'inizio la pensava diversamente. Il rapporto per il DOE era arrivato alla conclusione che avremmo potuto evitare il collasso investendo a un livello paragonabile a quello della II guerra per almeno 20 anni (un periodo più breve avrebbe indotto una grave crisi). È la conclusione del DOE, non la mia: dato che non stiamo destinando alle energie rinnovabili somme paragonabili a quelle della II guerra mondiale, e dato che anche l'USGS (United States Geological Survey. NdT) prevede il picco petrolifero entro il 2023, un semplice calcolo suggerisce che ci dobbiamo aspettare seri problemi. L ' Army ha preparato un rapporto simile.

E a proposito del cambio climatico? Beh, guardate The Stern Review di Sir Nicholas Stern sulle conseguenze economiche del fenomeno. Tra le altre conclusioni (i presupposti sugli obiettivi climatici sono oramai superati; riteneva infatti che 550 ppm avrebbero potuto evitare più guai di quanto potranno in realtà fare), c'era quella secondo cui cambiamenti climatici non controllati potrebbero indurre costi superiori al 20% del PIB mondiale, un peso che nessuna economia potrebbe sopportare senza, appunto, collassare. Poiché niente lascia pensare a una nostra capacità di stabilizzare l'ecologia a livelli inferiori, sembra ragionevole presupporre che ci troveremo ad affrontare elevati costi, con gravi conseguenze economiche.

E ciò vale anche per le mie idee sulle conseguenze pratiche e materiali del cambiamento climatico: le previsioni dell'IPCC e di altri studi suggeriscono, tra gli altri effetti inevitabili del fenomeno, l'afflusso di un alto numero di rifugiati, conflitti per le scarse risorse, siccità, ridotti tassi di produzione alimentare, maggiori malattie infettive, tempeste più violente e disastri naturali più numerosi... Questo eventi implicano elevati costi, non solo economici ma anche materiali, che porteranno inevitabilmente al collasso delle società. Si può ragionevolmente affermare, ad esempio, che New Orleans è destinata a restare a un livello funzionale molto più basso per un lungo periodo; anzi, non è chiaro se riuscirà mai a venirne fuori.

A questo punto, non penso di dover spiegare perché secondo me avremo un crollo economico; può sopravvenire in qualsiasi momento, e anzi sappiamo che ci siamo andati vicino nell'autunno 2008.

Sappiamo che possiamo aspettarci un collasso energetico, magari assieme a uno economico: l'ex primo ministro sovietico Yegor Gaider ha scritto un libro in cui afferma che, secondo lui, l'Unione sovietica collassò per la sua dipendenza dalle esportazioni energetiche e per lo spostamento della popolazione dalla campagna alle città. Il paese aveva fatto a lungo affidamento sulle esportazioni energetiche per comprare prodotti alimentari sui mercati esteri, ma dopo il crollo dei prezzi nel settore il numero di contadini risultò insufficiente per aumentare la produzione agricola, e il governo non fu capace di gestire la situazione.

Sappiamo anche che l'evento provocò ulteriori cedimenti: Cuba crollò perché l'Unione sovietica era collassata e aveva sospeso le spedizioni di petrolio. L'isola perse 1/5 delle sue importazioni energetiche e le strutture sociali si disgregarono in parte: la gente cominciò a soffrire la fame e a nutrirsi di scorze di agrumi dato che non c'era più energia per mandare avanti il suo sistema agricolo altamente tecnologico.

L'esempio di Cuba è interessante perché è una ulteriore dimostrazione del fatto che anche piccole alterazioni delle risorse energetiche possono dar luogo a conseguenze disastrose: 1/5 di petrolio in meno non avrebbe dovuto ridurre la gente alla fame. Molti potrebbero ragionevolmente pensare che il contraccolpo avrebbe potuto essere assorbito eliminando gli sprechi del sistema e distribuendo meglio le risorse, o magari che la responsabilità ricada sul governo cubano. Quest'ultimo punto è probabilmente in parte vero, ma non dimentichiamo che anche negli USA abbiamo casi che dimostrano come piccoli cambi nelle forniture energetiche portano a conseguenze estremamente distruttive: lo shock petrolifero degli anni '70 e la susseguente recessione furono dovute a una contrazione delle importazioni petrolifere di poco più del 5%.

In conclusione, ritengo che ci stiamo avviando a una qualche forma di collasso (senza necessariamente collegarla a cannibalismo o bande criminali in difesa della razza bianca) che mi piacerebbe allontanare al più presto: ho anche altre cose da fare! Quando cominciai a scrivere sul tema, nel 2003, mi sembrava probabile che il cambiamento climatico si sarebbe manifestato molto più lentamente e che saremmo stati in grado di affrontare una crisi alla volta.

Mi pare oramai evidente che ci avviamo verso una crisi al tempo stesso economica, energetica e climatica, e non vedo come superarla con successo. Impossibile? Forse no, ma di sicuro improbabile; la ristrutturazione sociale sarebbe enorme e coinvolgerebbe tutti i fattori cui ho prima accennato. Quasi tutti quelli che si occupano del tema fanno paragoni con la II Guerra mondiale e con il clima di guerra (Niels Bohr affermò che sarebbe stato impossibile sviluppare la bomba atomica senza trasformare l'intera nazione in una fabbrica, e nel 1944 osservò che ci eravamo riusciti). Dover rifare la stessa cosa affrontando al tempo stesso una crisi poliedrica sembra ancora più difficile.

In ogni caso, dovremmo comunque prospettarci la possibilità di un fallimento. E questo è un problema in una società che sembra credere a un'alternativa dicotomica: non potete preparavi all'insuccesso e mettere a punto un piano di riserva in caso di fallimento. Psicologicamente ci convinciamo che se pensiamo seriamente alla possibilità di fallire, allora falliremo; e quindi non lo facciamo perché ci sembra morboso. Non ci prepariamo per il disastro, anche quando ci sembra imminente: non creiamo una riserva alimentare, anche se la FEMA (Federal Emergency Management Agency, l'agenzia federale per la gestione delle emergenze. NdT) e la Croce rossa ci mettono in guardia, e anche se recentemente il responsabile della FEMA ha ricordato che la prima linea di difesa è la preparazione individuale. Tendiamo a un approccio dicotomico, mentre in realtà abbiamo bisogno delle due alternative: volontà "e" attenzione nell'attraversare la strada, preparare gli strumenti "e" avere un piano di evacuazione, stipare cibo nella dispensa "e" perseguire una maggiore coesione sociale.

Inoltre, buona parte di quel che raccomando va bene per gente che non è coinvolta in un crollo dichiarato, ma la cui vita sta per collassare: senza lavoro, in procinto di perdere la casa, con possibilità alimentari insufficienti, gravati da problemi medici e privi di assicurazione sanitaria... in gran parte quello che incoraggio la gente a fare, compresa la creazione di una scorta di alimenti e un maggior sostegno sociale funziona con la "gente" che sta per cedere, anche se la società non li ha ancora etichettati come falliti.

Quali sono i punti comuni delle varie società in collasso? Potrei risalire a Roma, ovviamente, ma non mi sembra necessario. Eccone alcuni:

1.La gente, estremamente irritata col governo, arriva di solito a qualche forma di resistenza civile e spesso il governo cambia; talvolta è una buona cosa, talvolta invece no. In certi casi, come ben sappiamo, il governo trova dei capi espiatori, il che è veramente negativo. La migliore soluzione è quando il governo va incontro alle richieste del popolo, o quando si toglie di mezzo e lascia che sia il popolo stesso a decidere.

2. Il tasso di criminalità aumenta; servizi come la protezione cittadina sono meno raggiungibili o vengono privatizzati, e, fattore comune alle società in crisi, sono più violenti. Ma ciò non significa che i signori della guerra uccidano tutti quelli che si trovano sul loro cammino. Significa invece più violenza, furti, stupri e delitti nelle strade, e qualche volta lucrosi rapimenti. Significa anche che la gente è vulnerabile e terrorizzata, e che spesso non ha fiducia nelle autorità; è un po' come essere afroamericani e vivere in una periferia degradata, o magari a Bagdad. In generale non vi fa piacere che i vostri figli escano spesso, anzi tendete a non uscire troppo nemmeno voi, e la sicurezza diventa un problema importante.

3. La popolazione s'impoverisce rapidamente; questa è forse la caratteristica più comune. Quando le società collassano, la percentuale di poveri aumenta; in Argentina, ad esempio, la crisi del 2001 distrusse in pratica la classe media e fece aumentare il tasso di povertà dal 20% a quasi il 57%. A mio parere è un tratto comune a tutti i collassi, ed è proprio quello che sta succedendo.

4. Costo e disponibilità degli alimenti diventano un serio problema. Il caso dell'Argentina, un paese prima stabile e agiato, mostra che molti alimenti ricercati, in particolare quelli importati, sono spesso introvabili e, cosa più importante, il forte impatto economico rende meno facile comprarli. Crisi sanitaria (in particolare la mancanza di cure), depressione, ricorso all'alcol e alle droghe, aumentano sensibilmente.

5. Servizi e strutture si degradano perché, e il caso è frequente tra gli americani poveri, la gente non è in grado di far fronte ai pagamenti (ad esempio, decine di migliaia di capofamiglia si vedranno tagliare i servizi dal 1° aprile, data prima della quale non è legalmente permesso togliere ai privati i servizi essenziali) o perché le infrastrutture sono fatiscenti e la coesione sociale viene meno. Sempre più spesso l'energia non verrà erogata, i rifiuti non verranno prelevati, il gas mancherà e i camion di riapprovvigionamento non si faranno vedere...

6. La gente si riavvicinerà: che vivano ammassati nei ghetti o che abbiano perso la casa, le famiglie cominceranno ad aiutarsi a vicenda. E lo stesso faranno intere comunità e quartieri: chi ha cibo lo divide con voi, chi ha spazio lo cede ai bisognosi. Nasce una cultura di condivisione.

Si tratta di situazioni praticamente universali e quasi inevitabili nelle società collassate. In alcuni casi, invece, i vostri vicini cercheranno di uccidervi e bande organizzate cominceranno a terrorizzare il quartiere; ma non si tratta di situazioni inevitabili.

Il problema è: se il collasso incombe, su cosa concetrare gli sforzi? Cercate di prevenirlo, anche se è sempre più difficile, o vi preoccupate, come suggerisce Orlov, dei bisogni di base? Secondo me, la risposta è che bisogna operare su entrambi i fronti, concentrandosi su azioni a doppio effetto; le strategie vincenti sono quelle che, quando vi trovate di fronte a un crollo importante dei sistemi, riducono gl'impatti e aumentano la resistenza. Credo che la maggior parte dei miei suggerimenti, se non tutti, vadano in questa direzione.

In caso di collasso, quale che sia, cosa può meglio aiutare? Sappiamo ad esempio che il sostegno sociale fa una grossa differenza. "Reinventing Collapse" sottolinea che il sistema di assistenza sociale è stato fondamentale per la sopravvivenza dei russi. Aver messo a portata del popolo cure mediche, cibo e un luogo in cui vivere ha permesso di evitare che la crisi diventasse troppo dura. A Cuba, con tutti i suoi limiti, il governo ha fatto qualcosa di veramente notevole, l'esatto contrario del governo USA: ha salvaguardato il sostegno sociale, a spese della crescita potenziale. In altre parole, per affrontare la "contingenza particolare", ha diffuso i programmi educativi nelle università più piccole, aumentato il numero di ospedali nelle aree rurali, rafforzato i programmi alimentari. Come sostengo in "Depletion and Abundance", è proprio quello di cui abbiamo bisogno qui da noi: le nostre massime priorità dovrebbero essere l'assistenza medica, la sicurezza alimentare, l'insegnamento e i programmi per gli anziani, i disabili e i bambini. Il bello di questa strategia politica è che le cose che contano sono proprio quelle cui la gente dice di tenere di più.

Disgraziatamente non è questa la cultura in cui viviamo: gli Stati Uniti rispondono alla crisi economica e sociale aumentando regolarmente i programmi governativi e militari, e tagliando i fondi per l'assistenza sociale. Sta già avvenendo, ed è per questo che mi affido alle reti locali e private (per tutti quelli che vivono nelle comunità) e alle altre risorse minimali più che ai grandi programmi; servono infatti da ultimo ricorso per coloro che sono precipitati ma che riescono a sopravvivere, anche in assenza di aiuti federali o statali, perché possono operare a scala sufficientemente locale. Questo non significa che io sia favorevole alla frantumazione dei programmi sociali, sicuramente no; e negli ultimi anni ho scritto spesso sull'importanza di finanziare il servizio sanitario universale, il LiHeap (Low Income Home Energy Assistance Program, NdT), i buoni pasto, il WIC (Special Supplemental Nutrition Program for Women, Infants and Children. NdT) e i programmi per disabili e anziani. Ho speso molte energie per difendere tutte queste azioni, ma al tempo stesso ritengo che sia urgente creare reti di emergenza più localizzate.

Per fermare la discesa verso il basso sono utili anche le strategie di autosoccorso. A Cuba, per esempio, l'agricoltura a piccola scala nei centri urbani ha fatto molto (non tutto, anche i beni importati hanno svolto un ruolo importante) per alleviare la fame e le carenze nutrizionali. In Russia, tutte le analisi economiche affermavano che ci sarebbe stata una carestia generalizzata; non c'è stata, in buona parte grazie allo sviluppo di un'economia locale che ha surrogato le carenze di quella a grande scala. In Argentina, raccogliere cartoni ha aiutato 40.000 persone. Durante la Grande depressione americana, un buon esempio secondo me di un quasi collasso, il numero di lavori informali si moltiplicò: il New York Times osservò che nel 1932 in città c'erano 7.000 persone, in gran parte adulte, che lucidavano scarpe, mentre nel 1928 ce ne erano meno di 200, quasi tutti bambini.

Le strategie individuali di sopravvivenza e le reti di sostegno sociale non entrano in conflitto: sono entrambe necessarie, in particolare quando i programmi di accompagnamento sociale sono criticati o accantonati, come oggi negli USA. Da soli non possono dar sollievo alla popolazione o ridurre la portata del disastro, ma insieme possono permettere alla gente di sopravvive, alimentarsi e sentirsi ragionevolmente al sicuro.

In un certo qual senso può sembrare stupido accontentarsi di questo. Ognuno vuole il meglio per se, gli amici, il mondo, i figli: anche io. Disgraziatamente è assai poco probabile che ci sia offerta la possibilità di ottenere molto di più; mi rendo conto che è deprimente dirlo, ed è il genere di affermazione che sconvolge la gente. In un certo senso sarebbe meglio se potessi convincermi che il collasso sarà un fatto positivo; ma non posso. Ci sono esempi di persone capaci di cavarsela meglio se la società è crollata e poi è risorta, ma è lecito dire che a nessuno piace una tale situazione. Il progetto, dunque, mira a evitare che sia troppo dura o mortale.

PalMD pensa che il mio tentativo di condurre una vita sostenibile sia illusorio, e in un certo qual modo ha ragione. Posso documentare con precisione le risorse che uso, perché le ho registrate negli ultimi quattro anni: rispetto alla quantità media statunitense, i sei componenti della mia famiglia producono il 15% delle emissioni casalinghe e il 20% dei rifiuti, usano il 40% di acqua e spendono il 10% in nuovi beni di consumo. La famiglia media americana è composta da 2,6 persone e il nostro uso reale è inferiore al loro, perché siamo sei membri; siccome siamo comunque una grande famiglia il meno che possiamo fare è tagliare al massimo.

Ma tutto poggia su una base di risorse importate, senza le quali le nostre vite sarebbero veramente difficili. La mia speranza è che anche altri si decidano a eliminare gli sprechi energetici (noi ci siamo riusciti, senza grandi investimenti, coi pannelli solari, e altri membri di Riot for Austerity hanno dimostrato che il risultato può essere raggiunto in città e in campagna, da parte di singoli o di famiglie numerose: dunque sappiamo che è fattibile). Ma non m'illudo che la tendenza diventi una moda in grado di salvare il mondo, perché in ogni caso sarà troppo tardi; dovremmo allora ancora dimezzare, più o meno, i nostri consumi energetici.

Oltre alle giustificazioni morali – è la cosa giusta da fare, sappiamo che le nostre emissioni sono una minaccia e dobbiamo quindi ridurle al minimo – a mio parere c'è un'altra ragione per adottare una posizione simile: vi permette di agire sul piano individuale e collettivo allo stesso tempo, di stipare riserve di cibo indipendentemente e di organizzare la vostra comunità in modo da essere sicuri che i vicini possano sfamarsi e che i vostri figli non muoiano di fame. Vi permette di eliminare in parte la pressione quando perdete il lavoro, ma anche di riempire la dispensa quando potete farlo. Migliora la situazione sia durante che dopo il collasso.

Non funziona invece molto bene nelle situazioni estreme, se cominciamo a trattarci come hanno fatto Tutsi e Hutu dagli anni '70 in poi. Se diamo il potere a un governo fascista che condanna ebrei, intellettuali, atei, immigranti... siamo fregati. Le migliori strategie richiedono di frenare ogni volta che è possibile, e mi piacerebbe se fosse possibile farlo prima di collassare, ma mi pare poco probabile. Ritengo invece che la strategia vincente consista nell'agire in modo da avvicinarci il più possibile all'Islanda e il meno possibile al Ruanda.

di Sharon Astyk

Fonte: www.energybulletin.net

24 marzo 2010

Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio

http://www.criminologia.it/images/montecitorio.jpg

La Camera degli sprechi

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

di Alessandro Ferrucci

23 marzo 2010

La pressione fiscale sui ricchi


Si dice che la pressione fiscale sulle grandi fortune non si puó incrementare per non disincentivare gli investimenti e l’iniziativa privata e perché i capitali fuggirebbero in altri paesi con fiscalitá meno forti (fuga che é effettivamente avvenuta dalla Grecia ultimamente). Si ripete con la stessa insistenza che la accumulazione di capitale é una condizione necessaria per l’attivitá economica e il benessere generale. Questi stereotipi fanno parte delle convinzioni piú solide di chi prende le grandi decisioni economiche e politiche e finiscono per essere assunte dall’opinione pubblica. Ma sono un inganno.

Vediamo cosa é successo con le imposte ai ricchi nel paese piú liberale e individualista dell’occidente: gli USA.

Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la pressione fiscale sui guadagni piú alti passó dal 25% al 63% nel 1932, come mezzo per combattere la Gran Depressione. Da allora al 1981, cioé per 50 anni, si é mantenuta sempre oltre il 63%, arrivando al picco del 94% nel 1944, come contributo allo sforzo della guerra, e oscillando dal 82% al 91% nei venti anni dalla fine della guerra al 1963. Da Reagan in poi, non fece che diminuire, fino ad arrivare al 35% nel 2009.

Quella lunga esperienza di cinque decenni mostra che la classe capitalista, anche quella piú potente degli USA, puó accettare una pressione fiscale molto alta e che imposte cosí alte sono compatibili con la crescita economica. Nei 50 anni in cui la pressione fiscale negli USA si mantenne oltre, o molto oltre il 50% a carico della parte piú ricca, furono anni di massima prosperitá per quel paese. Quelle tasse potevano servire per migliorare lo stato sociale e i servizi pubblici a beneficio dei piú poveri, se i bilanci delle guerre non avessero fatto la parte del leone nel mangiarsele. Peró quello che ci interessa qui é provare che in 50 lunghi anni la classe capitalista della prima potenza del mondo accettó una pressione fiscale che ora molti dicono del tutto proibitiva e insensata.
La percentuale massima per la IRPEF in Spagna fu posta al 43% nel 2008, quella per le societá (IRPEG) al 30%, cinque punti in meno rispetto alle percentuali del 2000 e non c’è nessun segnale di volerli aumentare.

Un altro stereotipo é che le differenze sulle varie fiscalitá aumentano la fuga di capitali in paesi con minore pressione. Peró questo succede da quando si eliminó il controllo sui cambi e si installó una libertá totale di circolazione dei capitali. Limitiamo o eliminiamo questa libertá e scomparirá la minaccia di fuga di capitali. Non é una fantasia e non é impossibile: é qualcosa che é giá successo e neanche tanto tempo fa. Basta guardare agli anni anteriori alla controrivoluzione neoliberale degli anni settanta. Un giorno si dovrá avere il coraggio di tornare a certe regolamentazioni.

Il terzo mito é che basta con lasciare che si accumulino benefici senza limiti perché l’economia funzioni e tutti ci guadagniamo (la teoria del Trickle Down Economic della scuola di Chicago). Cosí si giustifica la libertá che si concede ai capitali di uscire dall’economia di un paese e delocalizzare, al prezzo della deindustrializzazione di regioni intere e la condanna di migliaia di persone alla disoccupazione (sulla base della sacra libertá del capitale di accumularsi) mentre la realtá e che nel mondo c’è un’enorme incremento di liquiditá. La sovraccumulazione é proprio la causa della speculazione: sulle monete, sul debito dei paesi, sugli immobili, sul petrolio, gli alimenti… Si cercano rendimenti altissimi che non si trovano nell’economia produttiva. Viviamo in un sistema malato che sacrifica tutto all’accumulazione di denaro che non solo é inutile ma dannosa.

Questi tre miti fanno parte dello stesso insieme, che si dovrebbe abbordare con misure combinate come: forti gravami fiscali sulle grandi fortune; armonizzazione delle imposte nell’intera UE; limiti ristretti sulla circolazione di capitali; eliminazione dei paradisi fiscali; armonizzazione verso l’alto dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali nella UE. Il denaro che va alle classi popolari genera una domanda di beni e servizi che é la base di una economía sana, mentre quello che finisce nei portafogli dei ricchi alimenta solo il potenziale speculativo. Alcuni settori popolari si lasciano abbindolare dai fondi di investimento e dalle pensioni integrative solo quando li si minaccia con il fallimento dello Stato Sociale, cosí hanno ingannato gli spagnoli e molti europei negli ultimi 15 anni. Il sistema fa gesti demagogici, come la richiesta al FMI da parte del Consiglio D’Europa (11/12/2009) di una tassa Tobin per le transazioni finanziare speculative per raccogliere un po’ di soldi. Ma sono solo gesti che danno ragione a chi pensa che sono misure che gli convengono, perché si potrebbe fare molto piú di quello. L’aumento delle tasse ha iniziato ad essere nell’agenda europea giá dall’ultima estate, favorita da paesi come Svezia e Finlandia, con una lunga tradizione di alta pressione fiscale coniugata a prosperitá e buoni servizi pubblici.

Nel nostro paese, il dibattito sulle pensioni e sulla sostenibiltá dello Stato Sociale non puó e non deve lasciare questi temi al margine. Centrare le riforme sul mercato del lavoro o sull’aumento dell’etá pensionabile é una nuova aggressione contro i i diritti da parte della oligarchia internazionale del denaro e dei suoi seguaci.

Joaquim Sempere (Professore di Teoria Sociologica e Sociologia dell’Ambiente dell’Universitá di Barcelona)