17 settembre 2010

Il ritorno del terribile giocattolaio


Chi possiede un po’ di familiarità con i retroscena degli attacchi dell’11 settembre 2001, saprà sicuramente chi è Dominik Suter. Si trattava del titolare dell’azienda di trasporti newyorchese nota come Urban Moving System, in realtà un’attività di copertura del Mossad israeliano, di cui Suter era un agente. I famosi “cinque israeliani danzanti”, che ballavano di gioia e si davano il cinque mentre filmavano gli edifici del WTC che crollavano al suolo, erano altrettante spie israeliane e furono arrestati dalla polizia newyorchese proprio accanto ad uno dei furgoncini della Urban Moving System di cui erano alle dipendenze. Uno dei cinque aveva con sé 4.700 dollari in contanti. Un altro aveva due passaporti esteri. All’interno del furgone venne trovato uno dei “taglierini” che i fantomatici 19 terroristi avrebbero utilizzato per dirottare gli aerei.

Si sospetta fortemente che i furgoncini della UMS siano stati utilizzati, fra le altre cose, per trasportare l’esplosivo destinato a minare i tre grattacieli demoliti l’11/9. Com’è noto, le cinque spie del Mossad arrestate (Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari, tutti tra i 22 e i 27 anni di età), vennero rispedite in Israele dopo appena dieci settimane, grazie all’interessamento dell’allora capo della Homeland Security americana Michael Chertoff, anche lui cittadino israeliano (sua madre era stata tra i membri fondatori del Mossad). Tre dei “cinque israeliani danzanti” (Shmuel, Ellner e Marmari) comparvero in seguito anche alla tv israeliana, dichiarando che la loro missione era “semplicemente” quella di documentare l’evento. Non spiegarono però perché tale documentazione producesse in loro tanto sollazzo.

Non si trattò, peraltro, delle uniche spie israeliane arrestate su suolo americano a ridosso dell’11/9. Stando a quanto sostiene Fox News, nei mesi precedenti la data degli attacchi furono arrestati almeno 140 israeliani sospettati di essere coinvolti in operazioni di spionaggio; altri 60 vennero arrestati dopo l’11/9. Tutto questo fa pensare, ovviamente, che negli Stati Uniti fosse in preparazione un’operazione di intelligence del Mossad di assai ampie proporzioni, strettamente connessa agli eventi dell’11/9.

Due giorni dopo l’arresto delle cinque spie, Dominik Suter fuggì precipitosamente in Israele, sotto il naso degli agenti dell’FBI, intenti a sequestrare computer e scatole di documenti nella sede centrale della UMS a Weehawken, in New Jersey. Quando tre mesi dopo i cameramen del programma 20/20 della ABC arrivarono per filmare gli uffici dell’azienda, il personale sembrava essere fuggito via in fretta e furia. “Sembrava che l’azienda fosse stata chiusa in gran fretta”, si legge sul sito della ABC, “c’erano telefoni cellulari sparsi dappertutto; le linee telefoniche dell’azienda erano ancora operative e gli oggetti di proprietà di dozzine di clienti erano ammassati in magazzino”.

Fin qui i fatti che sono noti più o meno a tutti. Pochi sanno però che la Urban Moving System non era l’unica attività di copertura del Mossad in cui Suter fosse coinvolto. Suter è registrato anche come agente di un’altra compagnia, la Gould Street Corporation. Per gestire questa seconda attività, Suter risultava titolare di un ufficio situato al n. 73-75 di Gould Street a Bajonne, in New Jersey.

Dando un’occhiata con Google Earth, si può notare che al 73-75 di Gould Street hanno sede alcuni grossi capannoni:

All’interno di questi capannoni, si trovava il deposito merce di un’altra azienda, la E & W River Corporation, con sede al n. 73 di Gould Street. Questa azienda risulta concessionaria della vendita dello Zoom Copter (foto in alto), che dovrebbe essere un’altra vecchia conoscenza degli studiosi dell’11/9. Lo Zoom Copter era un giocattolo che veniva venduto, nei giorni precedenti all’11/9, in piccoli chioschi sparsi nei centri commerciali degli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Fox News, vi erano “migliaia” di questi punti vendita, tutti gestiti da sedicenti “studenti d’arte” israeliani (la maggior parte dei quali era priva di permesso di soggiorno). Come riferito dalla Fox, gli “studenti d’arte” non erano altro che agenti del Mossad israeliano operanti su suolo americano, probabilmente per preparare la grande e sanguinosa messinscena dell’11/9, e utilizzavano la vendita di giocattoli e dipinti come ennesima copertura per le loro attività di spionaggio. Questa massiccia presenza di cittadini israeliani in territorio americano fra il 2000 e il 2001 aveva insospettito la DEA, l’agenzia antidroga statunitense, che aveva iniziato ad indagare sulle piccole rivendite di giocattoli, sospettando un’operazione dell’intelligence israeliano; ma gli agenti della DEA erano stati fermati pochi mesi prima dell’11/9 dal Procuratore Generale John Ashcroft (altro fanatico cristiano-sionista legato a gruppi radicali come Stand for Israel; il suo Ashcroft Group lavora oggi per la IAI, l’industria aerospaziale israeliana) e dal direttore dell’FBI, Louis Freeh.

Dominic Suter era dunque il “trait d’union”, l’elemento unificante di due di queste attività di copertura: la Urban Moving System e la vendita degli elicotteri giocattolo.

La cosa preoccupante è che, stando a quanto riferisce Wayne Madsen in questo articolo, negli USA si starebbe verificando in questi giorni una reviviscenza dell’invasione degli “studenti d’arte” israeliani, proprio come avvenuto fra il 2000 e il 2001. La Transportation Security Administration (TSA) riferisce che alcuni di questi “studenti” avrebbero iniziato a battere la zona di Brea, in California, per vendere porta a porta dipinti e articoli di vario genere. Anche nella zona di Atlanta alcuni stranieri, la cui descrizione corrisponde a quella di cittadini israeliani, avrebbero iniziato a contattare telefonicamente e di persona le famiglie del luogo chiedendo la possibilità di ospitare studenti israeliani presso le loro abitazioni per uno “scambio alla pari”. In vari centri commerciali degli Stati Uniti sono poi comparsi piccoli chioschi, gestiti da israeliani, che vendono cosmetici ricavati da “sali del Mar Morto con tecniche piuttosto “aggressive” e che sono improvvisamente spariti dopo le segnalazioni arrivate alle autorità da parte di alcuni cittadini. Uno dei centri commerciali in cui tali attività sono state segnalate è il Coronado Mall di Albuquerque, in New Mexico, non lontano dalle base aerea di Kirtland, che ospita uno dei più importanti centri di stoccaggio delle armi nucleari degli Stati uniti. I sospetti che l’intelligence israeliana sia al lavoro per realizzare una seconda (e più grave) operazione false-flag come quella dell’11/9 sono dunque giustificati, soprattutto alla luce della recente accelerazione delle ostilità israeliane verso l’Iran, cui gli Stati Uniti – senza una nuova catastrofe da addossare questa volta alla Repubblica Islamica – difficilmente sarebbero disposti a prestare supporto militare.
di Gianluca Freda

16 settembre 2010

Ecco la strategia dei grandi player di Long Island



Prima che leggiate questo articolo, è meglio premettere qualcosa: sono liberale, liberista e mercatista convinto. Ritengo la speculazione, nella maggior parte dei casi, utile al buon funzionamento dei mercati, una sorta di «pesce spazzino» degli acquari: evita la creazione sistematica di bolle (o ne facilita l'esplosione prima che le dimensioni divengano ingestibili), attacca azioni sopravvalutate riportandole a valori accettabili (o affossandole, Enron è il caso più eclatante), smaschera i bilanci allegri di aziende che capitalizzano come multinazionali pur basandosi su debiti e scatole cinesi. Detto questo, c'è speculazione e speculazione. Quando questa diventa non sistematica ma addirittura strategica per finalità non solo di lucro ma addirittura di re-indirizzamento dei sistemi, politici ed economici, allora si passa alla categoria delle consorterie, dei grand commis.

E' quello che sta accadendo negli Usa. Non amo Barack Obama e ritengo le sue ultime scelte sbagliate o comunque tiepide rispetto alla difficoltà del momento ma qualcuno, molto potente, non si sta limitando ai giudizi e alle critiche: sta agendo per sabotare, attraverso i mercati, lo status quo. Al mondo, si sa, ci sono circoli molto influenti: l'Aspen Institute, il Council for Foreign Affairs, la Trilaterale, il gruppo Bilderberg. Ma ci sono altri simposi, altrettanto potenti, che non si danno né nomi né denominazioni: peccato che, a conti fatti, decidano per tutti noi. O quasi. Da venticinque anni a questa parte il leggendario stratega di Wall Street, Byron Wien, ora con il Blackstone Group, organizza un summit estivo con i principali player statunitensi per parlare di economia globale e investimenti.

Quest'anno non è stato diverso dagli altri, poche settimane fa una cinquantina di persone, tra cui dieci miliardari, si sono seduti attorno al tavolo imbandito da Wien e hanno fornito una indicazione netta sul futuro: Obama non va, la situazione economica è «gloomy» (fosca, ndr), occorre un cambio di marcia. «La visione generale è di un quadro di crescita molto lenta nel lungo termine, con un rischio reale di recessione», ha riassunto Wien in un report per gli investitori di Blackstone, secondo cui «l'amministrazione Obama è vista come ostile al business e in grado di scoraggiare sia gli investimenti che la creazione di nuovi posti di lavoro. La compagnie e gli imprenditori sono riluttanti nell'assumere nuovi lavoratori perché non riescono a calcolare con precisioni i costi dell'assicurazione sanitaria voluta dalla rivoluzione obamiana e temono un aumento della pressione fiscale».

I nomi dei partecipanti al summit sono segretissimi ma negli scorsi anni al pranzo organizzato a Long Island hanno sempre partecipato George Soros, Julian Roberson e James Chanos: ovvero, veri e propri pezzi da novanta. Esattamente come il padrone di casa, le cui «Dieci sorprese» erano diventate una lettura obbligata a Wall Street quando lavorava per Morgan Stanley. «Il pessimismo economico da parte dei più abbienti è perfettamente giustificabile, visto che fin dall'inizio della campagna elettorale del 2008 sono stati dipinti come dei villani dal Partito Democratico: anche se sembra che il vento politico stia cambiando, un vero cambiamento è lontano mesi, se non anni», ha dichiarato al riguardo Jim Iuorio della TJM Institutional Services.

Per Wien, «solo pochissimi dei presenti hanno dato possibilità all'indice Standard&Poor's di raggiungere i 1200 punti l'anno prossimo». E quindi, dove investono i grandi player? Shortano in patria e in Europa e si lanciano sui seguenti segmenti: «Immobili con destinazione d'uso business, terre a destinazione agricola e Africa», queste le tre parole che Wien ha reso noto ai suoi investitori: insomma, scelte non proprio da «regular investors» ma da strateghi. Esattamente come George Soros, l'unico che al pranzo rituale del 2007 parlava a chiare lettere di recessione e mercato dell'orso: aveva ragione lui. Quest'anno, invece, la visione che abbiamo descritto prima è stata condivisa praticamente all'unanimità: «Nessuno, finito il pranzo, è corso a piazzare un ordine», ha chiosato sornione Wien.

Il problema è che quanto deciso da Long Island non è il futuro, è già il presente. La scorsa settimana, infatti, la Banca Mondiale ha avuto il buon cuore di pubblicare il report che si aspettava da mesi e dal quale si desume che gli acquisti di terreni nelle nazioni in via di sviluppo sono aumentati fino a quota 45 milioni di ettari nel 2009, un salto di dieci punti dai livelli dello scorso decennio. Due terzi, nemmeno a dirlo, si sono registrati in Africa, dove le difese delle istituzioni a scalate e acquisizioni sono più deboli o inesistenti a causa anche della corruzione dilagante. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di fondi sovrani del Medio Oriente o della Cina ma anche di fondi occidentali - molti dei quali quotati all'AIM di Londra -, decisi come non mai a battere la concorrenza asiatica verso la nuova frontiera: ovvero, il controllo del suolo su cui scommettere «long» dopo aver shortato i subprime statunitensi.

«Le terre agricole produttive sono la scommessa di profitto del futuro, ci ho piazzato sopra un grosso stock di liquidità», ha dichiarato Michael Burry, star di «The Big Short». Ovviamente, non tutti i paesi hanno accettato di buon grado questa colonizzazione finanziaria: il Brasile, ad esempio, ha posto un limite per acro alle acquisizione estere di terreni, soprattutto nel Mato Grosso e in Amazzonia. «Le terre brasiliane devono restare ai brasiliani», ha dichiarato Guillherme Cassel, ministro dell'Agricoltura brasiliano in una sorta di deja vù emergenziale delle politica adottata negli anni Settanta dal regime militare per congelare gli acquisti esteri. Poco, però, per far desistere gente come SinoLatin Capital, Goldman Sachs, Harvest Capital o Berkshire Hathaway, la quale vede infatti il suo boss, Warren Buffett, in fase di esplorazione di una venture da 400 milioni di dollari nel business di soia e zucchero con un partner brasiliano (una sorta di prestanome di lusso per aggirare le nuove norme).

L'Argentina sta pensando a una mossa simile a quella dei vicini brasiliani visto che già il 7 per cento del suo territorio è in mano straniere, a partire dai 900mila ettari di proprietà dei Benetton in Patagonia fino alle holdings di George Soros, il filantropo, di Ted Turner e di Joe Lewis, capace di vietare l'ingresso al pubblico allo straordinario «Lago nascosto». Il perché è presto detto: al di là dell'investimento nei futuri granai mondiali, il business attuale per i paesi a grande attività industriale come la Cina è quello di scaricare altrove i costi ambientali della loro crescita a dismisura: le società industriali o «di transizione», come le definisce la Banca Mondiale, stanno perdendo ogni anno 2,9 milioni di ettari di terreni coltivabili.

Per Cheng Siwei, boss del gigante cinese dell'energia alternativa, i danni ambientali in Cina ammontano al 13,5 per cento del Pil ogni anno, un dato che può far terminare in secondo piano il dato record della crescita. Stessa cosa vale per l'India. Da qui al 2050, d'altronde, la Banca Mondiale stima che la produzione dovrà crescere del 70 per cento per venire in contro a tre priorità: l'aumento delle bocche da sfamare, l'aumento dell'utilizzo di granaglie per l'alimentazione animale da allevamento e la produzione di biocarburante. Non sarà facile, anchè perché le riserve teoriche di terreno sono a quota 445 milioni di ettari a fronte di 1,5 miliardi di ettari di produzione. La scorsa settimana, dieci persone sono morte in Mozambico per i tumulti scoppiati a seguito del bando russo dell'export di grano, il cui prezzo è raddoppiato dal giugno scorso.

Stando alla Banca Mondiale il numero di persone che ogni notte va a dormire con lo stomaco vuoto è salito da 830 milioni a oltre 1 miliardo negli ultimi tre anni. Ovviamente, questi progetti portano con sé anche investimenti, know how e infrastrutture di trasporto e collegamento prima inesistenti, come ad esempio è accaduto sulla costa pacifica del Perù. Il problema è che la terra non è una commodity, nonostante molti politici e grandi players pensino il contrario. Come vedete, io come voi, siamo sempre un passo - se non due - indietro rispetto a chi decide come andranno le cose: forse sarebbe il caso, prima di mettersi a discettare su regolamentazioni bancarie e sesso degli angeli, guardare a quella nuova categoria del business che sia chiama «geo-finanza».

I grandi player stanno giocando su due tavoli: scommettono sul ribasso dei mercati, shortando equity e si lanciano nel grande business del futuro, l'acquisizione di terra, settore precluso al 99 per cento degli investitori. Chi shorta Deutsche Bank fa una scommessa e prende un rischio, chi impone per legge il pessimismo (oltre a creare le condizioni, attraverso l'indottrinamento mediatico dell'opinione pubblica e il finanziamento a chi è pronto a sostenere i loro interessi, per un cambio della decisione politica imposta dalla sovranità popolare, seppur molto limitato nella lobbystica America dei Caucus) per guadagnarci e conquistare - letteralmente - il mondo a costo di saldo, sta decidendo anche il nostro futuro. Non so a voi ma a me non va. Altro che perdere tempo su quella pantomima di Basilea 3...

di Mauro Bottarelli

14 settembre 2010

I forzieri di Basilea3

Intervista al professor Emilio Barucci, docente al Politecnico di Milano

"Eliminare l'incertezza". Il governatore della Banca centrale europea Jean Claude Trichet ha battuto su 'incertezza', parola chiave in tempo di crisi, per sostenere l'accordo Basilea3. Il nuovo regolmento è strumento necessario per evitare il ripetersi degli eccessi emersi nella crisi finanziaria, quando le banche si trovarono a dover ricorrere ai capitali pubblici per evitare il fallimento.
Il testo licenziato dai governatori delle banche centrali verrà adottato ufficialmente al prossimo G20 di novembre. I punti principali riguardano le riserve, e i cosidetti 'buffer', dei cuscinetti di capitale che dovranno essere accantonati in funzione di possibili 'rschi' del sistema. E sui punti chiave dell'accordo restano le posizioni conflittuali di chi vede una opportunità - invocata nel bel mezzo della crisi - di costruire degli argini alti e forti per evitare che il rischio provochi il default e chi, invece, legge i provvedimenti contenuti nelle regole di slavguardia di Basilea3 come un impedimento alla ripresa, fragile, con la possibilità di indebolire il settore bancario, bloccando così il flusso del denaro verso l'economia, le imprese. Per questo le dichiarazioni ufficiali che vengono dal Financial stability board,che ha impresso uno potente spinta per l'accordo, sono incentrate su questo argomento: "Le banche italiane saranno in grado di muoversi verso livelli patrimoniali più elevati con gradualità - ha detto il governatore Mario Draghi - assicurando al tempo stesso il sostegno alle imprese e all'economia".
Le associazioni confindustriali sono pessimiste, mentre le nuove regole - che troveranno graduale applicazione in un lasso di tempo assai lungo, dal 2013 e fino al 2020 - hanno trovato una calda accoglienza nei listini di borsa italiani.

Emilio Barucci è docente di finanza matematica al Politecnico di Milano e redattore del sito nelMerito.com.
PeaceReporter lo ha intervistato.

Basilea3 è il tentativo di riscrivere le regole riguardo a un punto cruciale della crisi finanziaria, il comportamento degli intermediari. Si cerca di intervenire su quanto capitale le banche debbano detenere a fronte delle attività che svolgono. La crisi finanziaria ha mostrato che il capitale che avevano era insufficiente per affrontare la cirsi. Detto altrimenti, le banche erano poco solide. La direzione in cui si va è quella di chiedere più capitale e questo vorrà dire che gli istituti di credito saranno meno liberi di fare 'quello che volevano' e dovranno cercare capitale sul mercato. Faranno meno utili, dovranno emettere azioni o altri strumenti, quindi la torta degli utili sarà più piccola, perchè avranno più azionisti da soddisfare.

Nonostante la gradualità dell'applicazione delle nuove regole, le associazioni industriali e la banche hanno paventato la possibilità di intaccare una già fragile ripresa. E' un argomento 'corporativo'?

Le banche si sono difese in tutta Europa dicendo che con questi requisiti o aumentano il capitale proprio o diminuiscono le attività che svolgono. E hanno detto che potrebbero diminuire il finanziamento all'economia reale, quindi alle imprese e ai risparmiatori. Questo approccio, questa difesa del sistema bancario, era prevedibile. Perché si sta scontrando la volontà di rendere le banche più robuste e più stabili, mentre le banche vogliono essere completamente libere. La crisi finanziaria ha mostrato che c'è un contrasto fra la stabilità del sistema e la capacità delle banche a svolgere attività ad ampio spettro. I governatori delle banche centrali hanno detto che quello che è successo nel 2007 dimostra che ci dobbiamo dotare di strumenti più forti per impedire una prossima crisi.
La difesa delle banche, secondo me, è ingiustificata. Molti studi dicono che queste regole avranno una modesta ricaduta sul fatto che non vi sia la capacità di finanziare l'economia.

Esiste un problema di competitività fra banche europee e il sistema statunitense?

Le banche europee sostengono che le banche Usa avevano meno attività dirette all'economia reale e che in Basilea3 ci sono regole penalizzanti che dovrebbero interessare soprattutto le banche statunitensi, perché quelle italiane ed europee hanno sempre avuto un occhio di riguardo all'economia. Non credo che ci sia un problema di concorrenza, ma è chiaro che un ridisegno delle regole così profondo ci porterà a banche che torneranno a fare il loro mestiere, invece di fare finanza.

Ha letto le regole. Giudizio positivo o negativo?

Se le cifre sono quelle riportate sui giornali, io dico positivo. All'inizio le cifre che giravano erano troppo penalizzanti. Ora siamo di fronte a misure forti, ma non eccessivamente penalizzanti.

Le regole di Basilea3 come incideranno sui prodotti 'derivati'?

Si è scelta una strada per cui molti titoli derivati scambiati in mercati regolamentati vengono penalizzati, perché le banche saranno meno incentivate a tenerli nel loro portafoglio. Al posto di un divieto, si è scelta la strada di dare incentivi alle banche perché non li usino in maniera sconsiderata. Bisognerà vedere se questi incentivi raggiungeranno il loro scopo o meno. Ma questa era l'unica strada che si poteva battere.

di Angelo Miotto

17 settembre 2010

Il ritorno del terribile giocattolaio


Chi possiede un po’ di familiarità con i retroscena degli attacchi dell’11 settembre 2001, saprà sicuramente chi è Dominik Suter. Si trattava del titolare dell’azienda di trasporti newyorchese nota come Urban Moving System, in realtà un’attività di copertura del Mossad israeliano, di cui Suter era un agente. I famosi “cinque israeliani danzanti”, che ballavano di gioia e si davano il cinque mentre filmavano gli edifici del WTC che crollavano al suolo, erano altrettante spie israeliane e furono arrestati dalla polizia newyorchese proprio accanto ad uno dei furgoncini della Urban Moving System di cui erano alle dipendenze. Uno dei cinque aveva con sé 4.700 dollari in contanti. Un altro aveva due passaporti esteri. All’interno del furgone venne trovato uno dei “taglierini” che i fantomatici 19 terroristi avrebbero utilizzato per dirottare gli aerei.

Si sospetta fortemente che i furgoncini della UMS siano stati utilizzati, fra le altre cose, per trasportare l’esplosivo destinato a minare i tre grattacieli demoliti l’11/9. Com’è noto, le cinque spie del Mossad arrestate (Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari, tutti tra i 22 e i 27 anni di età), vennero rispedite in Israele dopo appena dieci settimane, grazie all’interessamento dell’allora capo della Homeland Security americana Michael Chertoff, anche lui cittadino israeliano (sua madre era stata tra i membri fondatori del Mossad). Tre dei “cinque israeliani danzanti” (Shmuel, Ellner e Marmari) comparvero in seguito anche alla tv israeliana, dichiarando che la loro missione era “semplicemente” quella di documentare l’evento. Non spiegarono però perché tale documentazione producesse in loro tanto sollazzo.

Non si trattò, peraltro, delle uniche spie israeliane arrestate su suolo americano a ridosso dell’11/9. Stando a quanto sostiene Fox News, nei mesi precedenti la data degli attacchi furono arrestati almeno 140 israeliani sospettati di essere coinvolti in operazioni di spionaggio; altri 60 vennero arrestati dopo l’11/9. Tutto questo fa pensare, ovviamente, che negli Stati Uniti fosse in preparazione un’operazione di intelligence del Mossad di assai ampie proporzioni, strettamente connessa agli eventi dell’11/9.

Due giorni dopo l’arresto delle cinque spie, Dominik Suter fuggì precipitosamente in Israele, sotto il naso degli agenti dell’FBI, intenti a sequestrare computer e scatole di documenti nella sede centrale della UMS a Weehawken, in New Jersey. Quando tre mesi dopo i cameramen del programma 20/20 della ABC arrivarono per filmare gli uffici dell’azienda, il personale sembrava essere fuggito via in fretta e furia. “Sembrava che l’azienda fosse stata chiusa in gran fretta”, si legge sul sito della ABC, “c’erano telefoni cellulari sparsi dappertutto; le linee telefoniche dell’azienda erano ancora operative e gli oggetti di proprietà di dozzine di clienti erano ammassati in magazzino”.

Fin qui i fatti che sono noti più o meno a tutti. Pochi sanno però che la Urban Moving System non era l’unica attività di copertura del Mossad in cui Suter fosse coinvolto. Suter è registrato anche come agente di un’altra compagnia, la Gould Street Corporation. Per gestire questa seconda attività, Suter risultava titolare di un ufficio situato al n. 73-75 di Gould Street a Bajonne, in New Jersey.

Dando un’occhiata con Google Earth, si può notare che al 73-75 di Gould Street hanno sede alcuni grossi capannoni:

All’interno di questi capannoni, si trovava il deposito merce di un’altra azienda, la E & W River Corporation, con sede al n. 73 di Gould Street. Questa azienda risulta concessionaria della vendita dello Zoom Copter (foto in alto), che dovrebbe essere un’altra vecchia conoscenza degli studiosi dell’11/9. Lo Zoom Copter era un giocattolo che veniva venduto, nei giorni precedenti all’11/9, in piccoli chioschi sparsi nei centri commerciali degli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Fox News, vi erano “migliaia” di questi punti vendita, tutti gestiti da sedicenti “studenti d’arte” israeliani (la maggior parte dei quali era priva di permesso di soggiorno). Come riferito dalla Fox, gli “studenti d’arte” non erano altro che agenti del Mossad israeliano operanti su suolo americano, probabilmente per preparare la grande e sanguinosa messinscena dell’11/9, e utilizzavano la vendita di giocattoli e dipinti come ennesima copertura per le loro attività di spionaggio. Questa massiccia presenza di cittadini israeliani in territorio americano fra il 2000 e il 2001 aveva insospettito la DEA, l’agenzia antidroga statunitense, che aveva iniziato ad indagare sulle piccole rivendite di giocattoli, sospettando un’operazione dell’intelligence israeliano; ma gli agenti della DEA erano stati fermati pochi mesi prima dell’11/9 dal Procuratore Generale John Ashcroft (altro fanatico cristiano-sionista legato a gruppi radicali come Stand for Israel; il suo Ashcroft Group lavora oggi per la IAI, l’industria aerospaziale israeliana) e dal direttore dell’FBI, Louis Freeh.

Dominic Suter era dunque il “trait d’union”, l’elemento unificante di due di queste attività di copertura: la Urban Moving System e la vendita degli elicotteri giocattolo.

La cosa preoccupante è che, stando a quanto riferisce Wayne Madsen in questo articolo, negli USA si starebbe verificando in questi giorni una reviviscenza dell’invasione degli “studenti d’arte” israeliani, proprio come avvenuto fra il 2000 e il 2001. La Transportation Security Administration (TSA) riferisce che alcuni di questi “studenti” avrebbero iniziato a battere la zona di Brea, in California, per vendere porta a porta dipinti e articoli di vario genere. Anche nella zona di Atlanta alcuni stranieri, la cui descrizione corrisponde a quella di cittadini israeliani, avrebbero iniziato a contattare telefonicamente e di persona le famiglie del luogo chiedendo la possibilità di ospitare studenti israeliani presso le loro abitazioni per uno “scambio alla pari”. In vari centri commerciali degli Stati Uniti sono poi comparsi piccoli chioschi, gestiti da israeliani, che vendono cosmetici ricavati da “sali del Mar Morto con tecniche piuttosto “aggressive” e che sono improvvisamente spariti dopo le segnalazioni arrivate alle autorità da parte di alcuni cittadini. Uno dei centri commerciali in cui tali attività sono state segnalate è il Coronado Mall di Albuquerque, in New Mexico, non lontano dalle base aerea di Kirtland, che ospita uno dei più importanti centri di stoccaggio delle armi nucleari degli Stati uniti. I sospetti che l’intelligence israeliana sia al lavoro per realizzare una seconda (e più grave) operazione false-flag come quella dell’11/9 sono dunque giustificati, soprattutto alla luce della recente accelerazione delle ostilità israeliane verso l’Iran, cui gli Stati Uniti – senza una nuova catastrofe da addossare questa volta alla Repubblica Islamica – difficilmente sarebbero disposti a prestare supporto militare.
di Gianluca Freda

16 settembre 2010

Ecco la strategia dei grandi player di Long Island



Prima che leggiate questo articolo, è meglio premettere qualcosa: sono liberale, liberista e mercatista convinto. Ritengo la speculazione, nella maggior parte dei casi, utile al buon funzionamento dei mercati, una sorta di «pesce spazzino» degli acquari: evita la creazione sistematica di bolle (o ne facilita l'esplosione prima che le dimensioni divengano ingestibili), attacca azioni sopravvalutate riportandole a valori accettabili (o affossandole, Enron è il caso più eclatante), smaschera i bilanci allegri di aziende che capitalizzano come multinazionali pur basandosi su debiti e scatole cinesi. Detto questo, c'è speculazione e speculazione. Quando questa diventa non sistematica ma addirittura strategica per finalità non solo di lucro ma addirittura di re-indirizzamento dei sistemi, politici ed economici, allora si passa alla categoria delle consorterie, dei grand commis.

E' quello che sta accadendo negli Usa. Non amo Barack Obama e ritengo le sue ultime scelte sbagliate o comunque tiepide rispetto alla difficoltà del momento ma qualcuno, molto potente, non si sta limitando ai giudizi e alle critiche: sta agendo per sabotare, attraverso i mercati, lo status quo. Al mondo, si sa, ci sono circoli molto influenti: l'Aspen Institute, il Council for Foreign Affairs, la Trilaterale, il gruppo Bilderberg. Ma ci sono altri simposi, altrettanto potenti, che non si danno né nomi né denominazioni: peccato che, a conti fatti, decidano per tutti noi. O quasi. Da venticinque anni a questa parte il leggendario stratega di Wall Street, Byron Wien, ora con il Blackstone Group, organizza un summit estivo con i principali player statunitensi per parlare di economia globale e investimenti.

Quest'anno non è stato diverso dagli altri, poche settimane fa una cinquantina di persone, tra cui dieci miliardari, si sono seduti attorno al tavolo imbandito da Wien e hanno fornito una indicazione netta sul futuro: Obama non va, la situazione economica è «gloomy» (fosca, ndr), occorre un cambio di marcia. «La visione generale è di un quadro di crescita molto lenta nel lungo termine, con un rischio reale di recessione», ha riassunto Wien in un report per gli investitori di Blackstone, secondo cui «l'amministrazione Obama è vista come ostile al business e in grado di scoraggiare sia gli investimenti che la creazione di nuovi posti di lavoro. La compagnie e gli imprenditori sono riluttanti nell'assumere nuovi lavoratori perché non riescono a calcolare con precisioni i costi dell'assicurazione sanitaria voluta dalla rivoluzione obamiana e temono un aumento della pressione fiscale».

I nomi dei partecipanti al summit sono segretissimi ma negli scorsi anni al pranzo organizzato a Long Island hanno sempre partecipato George Soros, Julian Roberson e James Chanos: ovvero, veri e propri pezzi da novanta. Esattamente come il padrone di casa, le cui «Dieci sorprese» erano diventate una lettura obbligata a Wall Street quando lavorava per Morgan Stanley. «Il pessimismo economico da parte dei più abbienti è perfettamente giustificabile, visto che fin dall'inizio della campagna elettorale del 2008 sono stati dipinti come dei villani dal Partito Democratico: anche se sembra che il vento politico stia cambiando, un vero cambiamento è lontano mesi, se non anni», ha dichiarato al riguardo Jim Iuorio della TJM Institutional Services.

Per Wien, «solo pochissimi dei presenti hanno dato possibilità all'indice Standard&Poor's di raggiungere i 1200 punti l'anno prossimo». E quindi, dove investono i grandi player? Shortano in patria e in Europa e si lanciano sui seguenti segmenti: «Immobili con destinazione d'uso business, terre a destinazione agricola e Africa», queste le tre parole che Wien ha reso noto ai suoi investitori: insomma, scelte non proprio da «regular investors» ma da strateghi. Esattamente come George Soros, l'unico che al pranzo rituale del 2007 parlava a chiare lettere di recessione e mercato dell'orso: aveva ragione lui. Quest'anno, invece, la visione che abbiamo descritto prima è stata condivisa praticamente all'unanimità: «Nessuno, finito il pranzo, è corso a piazzare un ordine», ha chiosato sornione Wien.

Il problema è che quanto deciso da Long Island non è il futuro, è già il presente. La scorsa settimana, infatti, la Banca Mondiale ha avuto il buon cuore di pubblicare il report che si aspettava da mesi e dal quale si desume che gli acquisti di terreni nelle nazioni in via di sviluppo sono aumentati fino a quota 45 milioni di ettari nel 2009, un salto di dieci punti dai livelli dello scorso decennio. Due terzi, nemmeno a dirlo, si sono registrati in Africa, dove le difese delle istituzioni a scalate e acquisizioni sono più deboli o inesistenti a causa anche della corruzione dilagante. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di fondi sovrani del Medio Oriente o della Cina ma anche di fondi occidentali - molti dei quali quotati all'AIM di Londra -, decisi come non mai a battere la concorrenza asiatica verso la nuova frontiera: ovvero, il controllo del suolo su cui scommettere «long» dopo aver shortato i subprime statunitensi.

«Le terre agricole produttive sono la scommessa di profitto del futuro, ci ho piazzato sopra un grosso stock di liquidità», ha dichiarato Michael Burry, star di «The Big Short». Ovviamente, non tutti i paesi hanno accettato di buon grado questa colonizzazione finanziaria: il Brasile, ad esempio, ha posto un limite per acro alle acquisizione estere di terreni, soprattutto nel Mato Grosso e in Amazzonia. «Le terre brasiliane devono restare ai brasiliani», ha dichiarato Guillherme Cassel, ministro dell'Agricoltura brasiliano in una sorta di deja vù emergenziale delle politica adottata negli anni Settanta dal regime militare per congelare gli acquisti esteri. Poco, però, per far desistere gente come SinoLatin Capital, Goldman Sachs, Harvest Capital o Berkshire Hathaway, la quale vede infatti il suo boss, Warren Buffett, in fase di esplorazione di una venture da 400 milioni di dollari nel business di soia e zucchero con un partner brasiliano (una sorta di prestanome di lusso per aggirare le nuove norme).

L'Argentina sta pensando a una mossa simile a quella dei vicini brasiliani visto che già il 7 per cento del suo territorio è in mano straniere, a partire dai 900mila ettari di proprietà dei Benetton in Patagonia fino alle holdings di George Soros, il filantropo, di Ted Turner e di Joe Lewis, capace di vietare l'ingresso al pubblico allo straordinario «Lago nascosto». Il perché è presto detto: al di là dell'investimento nei futuri granai mondiali, il business attuale per i paesi a grande attività industriale come la Cina è quello di scaricare altrove i costi ambientali della loro crescita a dismisura: le società industriali o «di transizione», come le definisce la Banca Mondiale, stanno perdendo ogni anno 2,9 milioni di ettari di terreni coltivabili.

Per Cheng Siwei, boss del gigante cinese dell'energia alternativa, i danni ambientali in Cina ammontano al 13,5 per cento del Pil ogni anno, un dato che può far terminare in secondo piano il dato record della crescita. Stessa cosa vale per l'India. Da qui al 2050, d'altronde, la Banca Mondiale stima che la produzione dovrà crescere del 70 per cento per venire in contro a tre priorità: l'aumento delle bocche da sfamare, l'aumento dell'utilizzo di granaglie per l'alimentazione animale da allevamento e la produzione di biocarburante. Non sarà facile, anchè perché le riserve teoriche di terreno sono a quota 445 milioni di ettari a fronte di 1,5 miliardi di ettari di produzione. La scorsa settimana, dieci persone sono morte in Mozambico per i tumulti scoppiati a seguito del bando russo dell'export di grano, il cui prezzo è raddoppiato dal giugno scorso.

Stando alla Banca Mondiale il numero di persone che ogni notte va a dormire con lo stomaco vuoto è salito da 830 milioni a oltre 1 miliardo negli ultimi tre anni. Ovviamente, questi progetti portano con sé anche investimenti, know how e infrastrutture di trasporto e collegamento prima inesistenti, come ad esempio è accaduto sulla costa pacifica del Perù. Il problema è che la terra non è una commodity, nonostante molti politici e grandi players pensino il contrario. Come vedete, io come voi, siamo sempre un passo - se non due - indietro rispetto a chi decide come andranno le cose: forse sarebbe il caso, prima di mettersi a discettare su regolamentazioni bancarie e sesso degli angeli, guardare a quella nuova categoria del business che sia chiama «geo-finanza».

I grandi player stanno giocando su due tavoli: scommettono sul ribasso dei mercati, shortando equity e si lanciano nel grande business del futuro, l'acquisizione di terra, settore precluso al 99 per cento degli investitori. Chi shorta Deutsche Bank fa una scommessa e prende un rischio, chi impone per legge il pessimismo (oltre a creare le condizioni, attraverso l'indottrinamento mediatico dell'opinione pubblica e il finanziamento a chi è pronto a sostenere i loro interessi, per un cambio della decisione politica imposta dalla sovranità popolare, seppur molto limitato nella lobbystica America dei Caucus) per guadagnarci e conquistare - letteralmente - il mondo a costo di saldo, sta decidendo anche il nostro futuro. Non so a voi ma a me non va. Altro che perdere tempo su quella pantomima di Basilea 3...

di Mauro Bottarelli

14 settembre 2010

I forzieri di Basilea3

Intervista al professor Emilio Barucci, docente al Politecnico di Milano

"Eliminare l'incertezza". Il governatore della Banca centrale europea Jean Claude Trichet ha battuto su 'incertezza', parola chiave in tempo di crisi, per sostenere l'accordo Basilea3. Il nuovo regolmento è strumento necessario per evitare il ripetersi degli eccessi emersi nella crisi finanziaria, quando le banche si trovarono a dover ricorrere ai capitali pubblici per evitare il fallimento.
Il testo licenziato dai governatori delle banche centrali verrà adottato ufficialmente al prossimo G20 di novembre. I punti principali riguardano le riserve, e i cosidetti 'buffer', dei cuscinetti di capitale che dovranno essere accantonati in funzione di possibili 'rschi' del sistema. E sui punti chiave dell'accordo restano le posizioni conflittuali di chi vede una opportunità - invocata nel bel mezzo della crisi - di costruire degli argini alti e forti per evitare che il rischio provochi il default e chi, invece, legge i provvedimenti contenuti nelle regole di slavguardia di Basilea3 come un impedimento alla ripresa, fragile, con la possibilità di indebolire il settore bancario, bloccando così il flusso del denaro verso l'economia, le imprese. Per questo le dichiarazioni ufficiali che vengono dal Financial stability board,che ha impresso uno potente spinta per l'accordo, sono incentrate su questo argomento: "Le banche italiane saranno in grado di muoversi verso livelli patrimoniali più elevati con gradualità - ha detto il governatore Mario Draghi - assicurando al tempo stesso il sostegno alle imprese e all'economia".
Le associazioni confindustriali sono pessimiste, mentre le nuove regole - che troveranno graduale applicazione in un lasso di tempo assai lungo, dal 2013 e fino al 2020 - hanno trovato una calda accoglienza nei listini di borsa italiani.

Emilio Barucci è docente di finanza matematica al Politecnico di Milano e redattore del sito nelMerito.com.
PeaceReporter lo ha intervistato.

Basilea3 è il tentativo di riscrivere le regole riguardo a un punto cruciale della crisi finanziaria, il comportamento degli intermediari. Si cerca di intervenire su quanto capitale le banche debbano detenere a fronte delle attività che svolgono. La crisi finanziaria ha mostrato che il capitale che avevano era insufficiente per affrontare la cirsi. Detto altrimenti, le banche erano poco solide. La direzione in cui si va è quella di chiedere più capitale e questo vorrà dire che gli istituti di credito saranno meno liberi di fare 'quello che volevano' e dovranno cercare capitale sul mercato. Faranno meno utili, dovranno emettere azioni o altri strumenti, quindi la torta degli utili sarà più piccola, perchè avranno più azionisti da soddisfare.

Nonostante la gradualità dell'applicazione delle nuove regole, le associazioni industriali e la banche hanno paventato la possibilità di intaccare una già fragile ripresa. E' un argomento 'corporativo'?

Le banche si sono difese in tutta Europa dicendo che con questi requisiti o aumentano il capitale proprio o diminuiscono le attività che svolgono. E hanno detto che potrebbero diminuire il finanziamento all'economia reale, quindi alle imprese e ai risparmiatori. Questo approccio, questa difesa del sistema bancario, era prevedibile. Perché si sta scontrando la volontà di rendere le banche più robuste e più stabili, mentre le banche vogliono essere completamente libere. La crisi finanziaria ha mostrato che c'è un contrasto fra la stabilità del sistema e la capacità delle banche a svolgere attività ad ampio spettro. I governatori delle banche centrali hanno detto che quello che è successo nel 2007 dimostra che ci dobbiamo dotare di strumenti più forti per impedire una prossima crisi.
La difesa delle banche, secondo me, è ingiustificata. Molti studi dicono che queste regole avranno una modesta ricaduta sul fatto che non vi sia la capacità di finanziare l'economia.

Esiste un problema di competitività fra banche europee e il sistema statunitense?

Le banche europee sostengono che le banche Usa avevano meno attività dirette all'economia reale e che in Basilea3 ci sono regole penalizzanti che dovrebbero interessare soprattutto le banche statunitensi, perché quelle italiane ed europee hanno sempre avuto un occhio di riguardo all'economia. Non credo che ci sia un problema di concorrenza, ma è chiaro che un ridisegno delle regole così profondo ci porterà a banche che torneranno a fare il loro mestiere, invece di fare finanza.

Ha letto le regole. Giudizio positivo o negativo?

Se le cifre sono quelle riportate sui giornali, io dico positivo. All'inizio le cifre che giravano erano troppo penalizzanti. Ora siamo di fronte a misure forti, ma non eccessivamente penalizzanti.

Le regole di Basilea3 come incideranno sui prodotti 'derivati'?

Si è scelta una strada per cui molti titoli derivati scambiati in mercati regolamentati vengono penalizzati, perché le banche saranno meno incentivate a tenerli nel loro portafoglio. Al posto di un divieto, si è scelta la strada di dare incentivi alle banche perché non li usino in maniera sconsiderata. Bisognerà vedere se questi incentivi raggiungeranno il loro scopo o meno. Ma questa era l'unica strada che si poteva battere.

di Angelo Miotto