21 novembre 2010

Destra e sinistra in pubblico, ma poi…



Qualche giorno fa ho pubblicato sul Giornale, una notizia con un retroscena insolito. Ricordate il Sexgate? E Newt Gingrich, l’implacabile accusatore repubblicano di Clinton? Ebbene ora apprendiamo che i due implacabili nemici di giorno, la sera, in gran segreto, erano complici. Si ritrovavano per… parlare di donne. Già, perché anche il moralista Gingrich aveva un’amante. E Clinton divenne il suo confidente, come potete leggere qui

L’episodio è divertente e anche un po’ boccaccesco, ma emblematico di un modo di fare politica che non è limitato alle questioni di letto. Negli Stati Uniti più ci si avvicina al vertice e più le distinzioni,. nella gestione del potere, tendono a scomparire, pur salvaguardando l’apparenza.

Ad esempio: sui grandi giornali, nessuno scrive che quasi tutti i ministri della Difesa e del Tesoro sono membri del Council on Foreign Relations, il quale è un rispettabile istituto di politica internazionale, ma anche la fucina delle élites politiche – e spesso anche economiche – degli Stati Uniti. Democratiche e repubblicane. Escono quasi tutti da lì, in posti di primissimo piano (si contano anche diversi presidenti), o come sherpa dietro le quinte. Politici, che, come Bill e Newt, di giorno litigano, ma la sera si ritrovano. A parlare. Non certo solo di donne.

E lo stesso schema si sta diffondendo in molti Paesi. Che cosa distingue i laburisti post Blair dai conservatori alla Cameron? Solo l’etichetta. In Spagna i popolari di Aznar dai socialisti alla Zapatero? Solo questioni etiche e religiose, ma su tutto il resto la continuità è evidente. E guardando ieri sera la trasmissione, noiosissima, di Fazio Fazio e del guru (senza spessore) Roberto Saviano, mi ha colpito la similitudine tra Bersani e Fini, nell’elencare i valori della destra e della sinistra. Un cumulo di banalità, che lascia intravedere una convergenza di fondo, sul modello di società, sull’immigrazione, e, naturalmente, sulle modalità di gestione (reali) del potere,

Tra i due vedo poche differenze sostanziali. Come avviene negli Usa. E’ un caso?

di Marcello Foa

20 novembre 2010

Sovranità, bombe atomiche e patacche


nuclear-bomb-testing

Tra due giorni il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo, sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.

Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e Italia. Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato assai scomodo. E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.

Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi, con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto dell'abbronzato presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.

Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11 settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes, l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale di Roma.

Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo per noi europei. Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali, precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad accorgersene) - trascinano giù anche noi.

Ma una cosa gli Stati Uniti continuano a fare ad alti livelli professionali: lo spettacolo. Ieri un sito abbastanza misterioso, avaaz.org (ma molto bene organizzato. Indirizzo New York, 857 Broadway, 3-rd floor) ha lanciato un appello drammatico, dicendo cose in parte vere (come quella dell'Italia prona), in parte stravaganti (come quella della Turchia, appunto, destinataria di quelle armi). E invitando a firmare un appello contro le bombe con la promessa che «se raggiungeremo le 25.000 firme ci daranno voce in Parlamento prima del vertice».

Qui la stranezza diventa meglio visibile. A chi daranno voce? Chi porterà quelle firme in Parlamento, visto che il link delle firme conduce in un altro posto virtuale e non alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica? E da quando in qua 25.000 firme garantiscono che verrà data voce a voci diverse da quelle del Potere? A noi risulta che il Potere non ha dato voce a ben più di 25.000 firme, in questo paese preso per i fondelli dal maggioritario e dalla legge porcata.

Insomma: una sollecitudine che puzza lontano un miglio di prestazioni da multi-level marketing, o di rivoluzioni colorate.

Restano, oltre le ingenuità e le truffe che navigano in rete, le bombe atomiche che si muoveranno sulle strade e sulle ferrovie europee alla ricerca di un nuovo parcheggio. Fino a che l'Europa tornerà ad essere un paese sovrano e non com'è stata ed è un conglomerato a sovranità limitata.


di Giulietto Chiesa

19 novembre 2010

In arrivo il governo dei banchieri


di Andrew Spannaus



Dietro allo scontro politico italiano lo spettro della "cura greca" chiesta dalla finanza internazionale

Un'analisi attenta della politica e della storia ci deve sempre portare a guardare i processi sottostanti, e non solo gli eventi particolari. Seguendo questo metodo socratico diventa facile capire come il subbuglio creatosi tra i partiti italiani nel periodo recente ha poco a che fare con gli scandali di Berlusconi e Fini, o anche con le posizioni (molto mutevoli) adottate dai leader di partito da un giorno ad un altro. La realtà è che da molti mesi è in atto un processo inteso a sostituire il governo italiano con un esecutivo tecnico, con il compito di attuare "riforme" urgenti che sono ben più difficili da attuare quando i partiti devono rispondere direttamente ai propri elettori.

Basta uno sguardo veloce oltre ai propri confini per capire la direzione generale. Mentre il governatore della BCE Trichet chiede tagli alle pensioni, e i "mercati" esigono credibilità nel ridurre i deficit di bilancio, sono stati annunciati piani di austerità in numerose nazioni.

I casi menzionati sulla stampa sono solo quelli dove le resistenze della popolazione sono più forti, per esempio il Regno Unito, la Francia, e la Grecia. Negli Stati Uniti la Commissione Fiscale istituita dal presidente Barack Obama ha cominciato ad annunciare le sue proposte di forti tagli alla spesa statale, a partire dalla Social Security (beninteso, difendendo la riduzione delle tasse per i più ricchi, ma senza considerare misure contro la speculazione finanziaria). Così, la situazione italiana va vista nel contesto di una spinta internazionale verso misure di austerità pesanti, guidata proprio da quegli interessi finanziari che da decenni vedono nello Stato l'ostacolo principale alla loro "libertà" di mercato.

Da questo punto di vista il Governo Berlusconi rappresenta un impedimento alle misure richieste. Certo, sotto la minaccia di un attacco al debito pubblico italiano l'esecutivo ha già seguito una linea di rigore, bloccando gli investimenti che sarebbero necessari per l'economia reale. Per non parlare del fatto che i margini di manovra dei governi nazionali sono stati ridotti di parecchio dalla normativa comunitaria, in cui si sono codificate le politiche in stile FMI che mirano a gestire i parametri monetari a prescindere dalla progressiva distruzione di ricchezza nell'economia reale. Ma la finanza internazionale non si fida di questo governo, e in modo particolare del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Si ricordi che l'Italia è stata tra i pochi paesi a non rifinanziare le banche durante la crisi degli ultimi tre anni; i cosiddetti Tremonti Bonds, che impongono dei vincoli a favore dell'investimento produttivo, non sono stati accettati dalle più grosse banche italiane, e hanno provocato uno dei tanti scontri pubblici tra il Ministro e Mario Draghi, che si è lamentato dell'interferenza politica nell'economia. E la cooperazione internazionale portata avanti dall'Italia in zone difficili - per esempio con Vladimir Putin e la Russia - dà non poco fastidio ai manipolatori della geopolitica a Washington, Londra e Bruxelles.

Gli alleati della City puntano alla formazione di un governo tecnico, per gestire l'emergenza. I partiti di opposizione ci pensino bene prima di accettare una tale soluzione nella speranza di cambiare la legge elettorale; basta ascoltare attentamente le dichiarazioni di alcuni politici di peso (anche tra le proprie file) per capire che i compiti di un esecutivo tecnico andrebbero ben oltre. Si parla di emergenza economica, dei governi tecnici degli anni Novanta come punto di riferimento, e di riforme strutturali per garantire la stabilità del paese.

Quali sarebbero queste riforme strutturali? Di nuovo, la lista è già stata resa pubblica: tagli pesanti alla previdenza sociale, la privatizzazione delle municipalizzate (bloccata dalla Lega Nord), e l'ulteriore liberalizzazione di ogni servizio pubblico. I nomi più accreditati sono quelli di Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo. Il modello economico del primo è ben noto: la correttezza delle regole per garantire che la speculazione mantenga il dominio sull'economia produttiva; per quanto riguarda il secondo, considerando come intende mettere le mani sui profitti dell'alta velocità ferroviaria - lasciando allo Stato gli investimenti e le perdite - si capisce dove ci porterebbe.

Una recente mozione presentata da Francesco Rutelli al Senato parla chiaro:

"... e) le liberalizzazioni sono urgenti, e va tradotta in disposizioni legislative la segnalazione al Governo del febbraio 2010 da parte dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, riguardante i mercati dei servizi pubblici (postali, ferroviari, autostradali e aeroportuali), energetici (carburanti e filiera del gas), bancario-assicurativi, degli affidamenti pubblici e di tutela dei consumatori. Vanno recepite nella Costituzione le norme dei Trattati UE sulla concorrenza. Vanno rafforzate le norme in materia di servizi pubblici locali: troppi monopoli stanno spingendo verso l'alto le tariffe... " (1-00314 del 6 ottobre 2010).

L'incessante richiesta di liberalizzazioni e tagli alla spesa pubblica è il marchio di fabbrica di coloro che hanno creato la crisi economica attuale, ben lontani dalle misure rooseveltiane che potrebbero innescare una ripresa vera. Niente investimenti pubblici, niente misure punitive contro la speculazione finanziaria, e niente protezioni per i settori produttivi. È la "mano invisibile" che porta via l'industria e i risparmi...

I politici di tutti gli schieramenti farebbero bene a guardare oltre quello che al momento sembra il loro interesse particolare, e chiedersi se non sarebbe ora di incentrare il dibattito pubblico sui contenuti veri dietro ai disegni portati avanti in questo momento: in primo luogo, per onestà, perché la popolazione ha il diritto di sapere le conseguenze vere degli scontri in atto; perché, inoltre, in questo modo, le forze che si ispirano ancora al bene comune potranno trovare il sostegno necessario per bloccare un progetto che sarebbe disastroso per il paese.

21 novembre 2010

Destra e sinistra in pubblico, ma poi…



Qualche giorno fa ho pubblicato sul Giornale, una notizia con un retroscena insolito. Ricordate il Sexgate? E Newt Gingrich, l’implacabile accusatore repubblicano di Clinton? Ebbene ora apprendiamo che i due implacabili nemici di giorno, la sera, in gran segreto, erano complici. Si ritrovavano per… parlare di donne. Già, perché anche il moralista Gingrich aveva un’amante. E Clinton divenne il suo confidente, come potete leggere qui

L’episodio è divertente e anche un po’ boccaccesco, ma emblematico di un modo di fare politica che non è limitato alle questioni di letto. Negli Stati Uniti più ci si avvicina al vertice e più le distinzioni,. nella gestione del potere, tendono a scomparire, pur salvaguardando l’apparenza.

Ad esempio: sui grandi giornali, nessuno scrive che quasi tutti i ministri della Difesa e del Tesoro sono membri del Council on Foreign Relations, il quale è un rispettabile istituto di politica internazionale, ma anche la fucina delle élites politiche – e spesso anche economiche – degli Stati Uniti. Democratiche e repubblicane. Escono quasi tutti da lì, in posti di primissimo piano (si contano anche diversi presidenti), o come sherpa dietro le quinte. Politici, che, come Bill e Newt, di giorno litigano, ma la sera si ritrovano. A parlare. Non certo solo di donne.

E lo stesso schema si sta diffondendo in molti Paesi. Che cosa distingue i laburisti post Blair dai conservatori alla Cameron? Solo l’etichetta. In Spagna i popolari di Aznar dai socialisti alla Zapatero? Solo questioni etiche e religiose, ma su tutto il resto la continuità è evidente. E guardando ieri sera la trasmissione, noiosissima, di Fazio Fazio e del guru (senza spessore) Roberto Saviano, mi ha colpito la similitudine tra Bersani e Fini, nell’elencare i valori della destra e della sinistra. Un cumulo di banalità, che lascia intravedere una convergenza di fondo, sul modello di società, sull’immigrazione, e, naturalmente, sulle modalità di gestione (reali) del potere,

Tra i due vedo poche differenze sostanziali. Come avviene negli Usa. E’ un caso?

di Marcello Foa

20 novembre 2010

Sovranità, bombe atomiche e patacche


nuclear-bomb-testing

Tra due giorni il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo, sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.

Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e Italia. Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato assai scomodo. E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.

Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi, con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto dell'abbronzato presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.

Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11 settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes, l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale di Roma.

Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo per noi europei. Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali, precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad accorgersene) - trascinano giù anche noi.

Ma una cosa gli Stati Uniti continuano a fare ad alti livelli professionali: lo spettacolo. Ieri un sito abbastanza misterioso, avaaz.org (ma molto bene organizzato. Indirizzo New York, 857 Broadway, 3-rd floor) ha lanciato un appello drammatico, dicendo cose in parte vere (come quella dell'Italia prona), in parte stravaganti (come quella della Turchia, appunto, destinataria di quelle armi). E invitando a firmare un appello contro le bombe con la promessa che «se raggiungeremo le 25.000 firme ci daranno voce in Parlamento prima del vertice».

Qui la stranezza diventa meglio visibile. A chi daranno voce? Chi porterà quelle firme in Parlamento, visto che il link delle firme conduce in un altro posto virtuale e non alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica? E da quando in qua 25.000 firme garantiscono che verrà data voce a voci diverse da quelle del Potere? A noi risulta che il Potere non ha dato voce a ben più di 25.000 firme, in questo paese preso per i fondelli dal maggioritario e dalla legge porcata.

Insomma: una sollecitudine che puzza lontano un miglio di prestazioni da multi-level marketing, o di rivoluzioni colorate.

Restano, oltre le ingenuità e le truffe che navigano in rete, le bombe atomiche che si muoveranno sulle strade e sulle ferrovie europee alla ricerca di un nuovo parcheggio. Fino a che l'Europa tornerà ad essere un paese sovrano e non com'è stata ed è un conglomerato a sovranità limitata.


di Giulietto Chiesa

19 novembre 2010

In arrivo il governo dei banchieri


di Andrew Spannaus



Dietro allo scontro politico italiano lo spettro della "cura greca" chiesta dalla finanza internazionale

Un'analisi attenta della politica e della storia ci deve sempre portare a guardare i processi sottostanti, e non solo gli eventi particolari. Seguendo questo metodo socratico diventa facile capire come il subbuglio creatosi tra i partiti italiani nel periodo recente ha poco a che fare con gli scandali di Berlusconi e Fini, o anche con le posizioni (molto mutevoli) adottate dai leader di partito da un giorno ad un altro. La realtà è che da molti mesi è in atto un processo inteso a sostituire il governo italiano con un esecutivo tecnico, con il compito di attuare "riforme" urgenti che sono ben più difficili da attuare quando i partiti devono rispondere direttamente ai propri elettori.

Basta uno sguardo veloce oltre ai propri confini per capire la direzione generale. Mentre il governatore della BCE Trichet chiede tagli alle pensioni, e i "mercati" esigono credibilità nel ridurre i deficit di bilancio, sono stati annunciati piani di austerità in numerose nazioni.

I casi menzionati sulla stampa sono solo quelli dove le resistenze della popolazione sono più forti, per esempio il Regno Unito, la Francia, e la Grecia. Negli Stati Uniti la Commissione Fiscale istituita dal presidente Barack Obama ha cominciato ad annunciare le sue proposte di forti tagli alla spesa statale, a partire dalla Social Security (beninteso, difendendo la riduzione delle tasse per i più ricchi, ma senza considerare misure contro la speculazione finanziaria). Così, la situazione italiana va vista nel contesto di una spinta internazionale verso misure di austerità pesanti, guidata proprio da quegli interessi finanziari che da decenni vedono nello Stato l'ostacolo principale alla loro "libertà" di mercato.

Da questo punto di vista il Governo Berlusconi rappresenta un impedimento alle misure richieste. Certo, sotto la minaccia di un attacco al debito pubblico italiano l'esecutivo ha già seguito una linea di rigore, bloccando gli investimenti che sarebbero necessari per l'economia reale. Per non parlare del fatto che i margini di manovra dei governi nazionali sono stati ridotti di parecchio dalla normativa comunitaria, in cui si sono codificate le politiche in stile FMI che mirano a gestire i parametri monetari a prescindere dalla progressiva distruzione di ricchezza nell'economia reale. Ma la finanza internazionale non si fida di questo governo, e in modo particolare del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Si ricordi che l'Italia è stata tra i pochi paesi a non rifinanziare le banche durante la crisi degli ultimi tre anni; i cosiddetti Tremonti Bonds, che impongono dei vincoli a favore dell'investimento produttivo, non sono stati accettati dalle più grosse banche italiane, e hanno provocato uno dei tanti scontri pubblici tra il Ministro e Mario Draghi, che si è lamentato dell'interferenza politica nell'economia. E la cooperazione internazionale portata avanti dall'Italia in zone difficili - per esempio con Vladimir Putin e la Russia - dà non poco fastidio ai manipolatori della geopolitica a Washington, Londra e Bruxelles.

Gli alleati della City puntano alla formazione di un governo tecnico, per gestire l'emergenza. I partiti di opposizione ci pensino bene prima di accettare una tale soluzione nella speranza di cambiare la legge elettorale; basta ascoltare attentamente le dichiarazioni di alcuni politici di peso (anche tra le proprie file) per capire che i compiti di un esecutivo tecnico andrebbero ben oltre. Si parla di emergenza economica, dei governi tecnici degli anni Novanta come punto di riferimento, e di riforme strutturali per garantire la stabilità del paese.

Quali sarebbero queste riforme strutturali? Di nuovo, la lista è già stata resa pubblica: tagli pesanti alla previdenza sociale, la privatizzazione delle municipalizzate (bloccata dalla Lega Nord), e l'ulteriore liberalizzazione di ogni servizio pubblico. I nomi più accreditati sono quelli di Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo. Il modello economico del primo è ben noto: la correttezza delle regole per garantire che la speculazione mantenga il dominio sull'economia produttiva; per quanto riguarda il secondo, considerando come intende mettere le mani sui profitti dell'alta velocità ferroviaria - lasciando allo Stato gli investimenti e le perdite - si capisce dove ci porterebbe.

Una recente mozione presentata da Francesco Rutelli al Senato parla chiaro:

"... e) le liberalizzazioni sono urgenti, e va tradotta in disposizioni legislative la segnalazione al Governo del febbraio 2010 da parte dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, riguardante i mercati dei servizi pubblici (postali, ferroviari, autostradali e aeroportuali), energetici (carburanti e filiera del gas), bancario-assicurativi, degli affidamenti pubblici e di tutela dei consumatori. Vanno recepite nella Costituzione le norme dei Trattati UE sulla concorrenza. Vanno rafforzate le norme in materia di servizi pubblici locali: troppi monopoli stanno spingendo verso l'alto le tariffe... " (1-00314 del 6 ottobre 2010).

L'incessante richiesta di liberalizzazioni e tagli alla spesa pubblica è il marchio di fabbrica di coloro che hanno creato la crisi economica attuale, ben lontani dalle misure rooseveltiane che potrebbero innescare una ripresa vera. Niente investimenti pubblici, niente misure punitive contro la speculazione finanziaria, e niente protezioni per i settori produttivi. È la "mano invisibile" che porta via l'industria e i risparmi...

I politici di tutti gli schieramenti farebbero bene a guardare oltre quello che al momento sembra il loro interesse particolare, e chiedersi se non sarebbe ora di incentrare il dibattito pubblico sui contenuti veri dietro ai disegni portati avanti in questo momento: in primo luogo, per onestà, perché la popolazione ha il diritto di sapere le conseguenze vere degli scontri in atto; perché, inoltre, in questo modo, le forze che si ispirano ancora al bene comune potranno trovare il sostegno necessario per bloccare un progetto che sarebbe disastroso per il paese.