30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia

25 novembre 2010

Il futuro delle banche





Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?

Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.

Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.

Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.

Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.

È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.

Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.

C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.

Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?

L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.

Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.

Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.

Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.

Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.

Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.

di Ilvio Pannullo

30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia

25 novembre 2010

Il futuro delle banche





Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?

Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.

Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.

Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.

Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.

È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.

Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.

C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.

Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?

L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.

Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.

Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.

Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.

Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.

Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.

di Ilvio Pannullo