30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli

29 dicembre 2010

Scuola pubblica: chi l'ha uccisa ?







Coloro che, come il sottoscritto, si trovano a lavorare nel mondo della scuola, provano spesso la sensazione di essere capitati all’interno di una istituzione sopravvissuta alla propria funzione e al proprio ruolo. Si viene a scuola tutte le mattine, da insegnanti o da allievi, come ci si recherebbe al tempio di una divinità antica, di cui sacerdoti e fedeli ricordano le prescrizioni rituali, ma non le promesse di crescita spirituale, né il significato che la partecipazione al rito garantiva un tempo di donare alla vita individuale e collettiva. Si tengono ore di lezione, si programmano obiettivi didattici e prove in itinere, si celebrano solenni messe pomeridiane di classe e d’istituto in cui si valutano virtù e peccati dei fedeli (i quali saranno comunque tutti assolti nel Giorno del Giudizio, poiché la scuola è una divinità infinitamente misericordiosa), si tiene viva la sacra fiamma delle attività integrative e dei recuperi pomeridiani, si verbalizzano scrupolosamente le proposte e le valutazioni del sinedrio e si lotta quotidianamente contro la perdita di fede che la seduzione del maligno tenta di indurre nei docenti timorati di Dio. L’opera del Nemico dell’Uomo si manifesta, nel sacerdote che vede indebolirsi le proprie certezze, attraverso la sgradevole sensazione di stare officiando una cerimonia funebre piuttosto che un rito della fertilità; come avviene nel meraviglioso libro di Gianni Celati, Fata Morgana, in cui il misterioso popolo dei Gamuna utilizza le aule scolastiche per i riti funebri collettivi.

“Arrivati alla scuola, in un’aula hanno visto il morto sulla cattedra e i maschi adulti del suo gruppo familiare seduti nei banchi. Erano seduti nei banchi come scolari che ripassino una lezione, e tutti recitavano litanie di nomi degli antenati. Ma quelli nelle prime file, con l’aria di scolari più bravi e più studiosi, correggevano spesso le litanie degli altri. Allora gli altri reagivano, e scoppiavano litigi, volavano insulti e minacce”.

Lo spirito ingannatore viene comunemente raffigurato dall’iconografia ecclesiale con fattezze di lugubre materialità economica, contrapposta alla spiritualità della cultura, che rappresenta la cifra distintiva della mistica scolastica. Il maligno compie la sua opera devastatrice preferenzialmente attraverso i tagli all’istruzione pubblica, fonte di falcidia d’insegnanti e bidelli e di razionamento delle fotocopie e della carta igienica. Non è chiaro cosa abbia a che fare la carta igienica con la spiritualità dell’istruzione. I frequenti richiami a questo emblema della trivialità corporea nelle invettive dei padri della Chiesa denotano probabilmente eventi di possessione demoniaca, simili a quelli che costringevano gli antichi anacoreti dei deserti della Palestina a prodursi in orribili bestemmie e imprecazioni da taverna mentre lottavano per liberare la propria carne dall’abbraccio tentatore di satanasso. Altri deprecano lo slittamento progressivo dell’istruzione verso le mani dei privati, adducendo diverse e contrastanti giustificazioni circa i motivi per cui tale passaggio di mano risulterebbe indesiderabile. Si invoca, a seconda dei casi, il pericolo di una scuola classista, di alto livello per i ricchi (quella privata) e di infimo livello per i poveri (quella pubblica); oppure, al contrario, si fanno rilevare (forse con un briciolo di realismo in più) le pessime performance delle scuole private – autentiche tipografie di certificati scolastici per analfabeti – a fronte dei risultati leggermente migliori di cui può vantarsi l’istruzione statale. E’ raro trovare qualcuno che osi andare un po’ più a fondo, cioè alla radice della rarefazione di significato che sembra oggi investire la scuola pubblica. Una perdita di significato che ha molto più a che fare con l’obsolescenza dei suoi scopi originari o con l’impossibilità politica di soddisfarli nel perdurare delle attuali contingenze internazionali, che con la decurtazione delle risorse economiche.

Com’è noto, l’edificio dell’istruzione pubblica illuminista era nato con due scopi essenziali. Il primo era quello di indottrinare e ridurre all’obbedienza le masse non acculturate. Attraverso la scuola, il nuovo potere borghese in ascesa intendeva sostituire, per ragioni di controllo delle coscienze, la propria visione del mondo a quella propagandata per secoli dalle istituzioni della Chiesa. Da qui l'introduzione nella prima scuola di stato di una serie di contenuti (esaltazione della scienza e del razionalismo, ridefinizione e ricategorizzazione degli eventi storici, lettura dei fenomeni naturali e finanche di quelli sociali in chiave puramente meccanicistica, ecc.) finalizzata ad inculcare nelle masse una nuova percezione dell'esistente che fosse funzionale agli scopi perseguiti dal nuovo potere costituito. Allo stesso tempo, si mirava attraverso l'istituzione scolastica ad imporre rigidi modelli di comportamento che riducessero al minimo l'eventualità di sollevazioni ed atteggiamenti sediziosi di fronte agli sconvolgimenti politici, sociali ed ambientali con cui la politica di dominio delle nuove élite stava per spazzare via modelli e paradigmi di vita comune consolidati da secoli. Questa prima finalità con cui il modello scolastico dei primordi era stato progettato è divenuta obsoleta da ormai quasi un secolo.

La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e le teorie sul controllo del comportamento e della percezione degli individui attraverso un entertainment e un'informazione manipolati all'uopo (si legga in proposito il fondamentale Propaganda di Edward Bernays), ha permesso alle élite di garantirsi potenzialità di manipolazione percettiva e di gestione del malcontento sociale infinitamente più ampie, stringenti ed efficaci di quelle che l'istruzione pubblica avrebbe mai potuto assicurare. Per trapiantare nella percezione delle moltitudini gli schemi interpretativi voluti dal potere e per rendere gli individui del tutto impotenti e inconsapevoli dei meccanismi politici che stanno alla base delle loro vite, è molto più efficace mezz'ora di rimbecillimento videomusicale su MTV che un decennio di apprendistato condotto sotto la supervisione del più autoritario e manesco degli insegnanti. Il secondo scopo per cui l'istruzione pubblica era stata originariamente ideata era quello di rappresentare un percorso di formazione per una nuova classe dirigente, la quale avrebbe dovuto gestire le istituzioni del nuovo sistema sociale, nonché le nascenti realtà produttive del modello industriale. La scuola doveva essere dunque un vivaio di professionalità da cui attingere i tecnici, i ricercatori, gli specialisti, i quadri dirigenti, in grado di far funzionare, secondo le direttive determinate dall'élite borghese, il nuovo impianto sociale in formazione. Questa seconda finalità dell'istruzione pubblica non è mai venuta meno ed è oggi più attuale ed urgente che mai; soprattutto in paesi come l'Italia, il cui problema di fondo è sempre stato quello dell'assenza di una classe dirigente, tecnicamente e culturalmente preparata, in grado di guidare le istituzioni politiche, economiche ed industriali del paese. La mancata nascita di una classe dirigente in Italia non è del tutto imputabile a carenze della scuola pubblica nazionale, la quale è stata per lunghi periodi (almeno fino alla fine degli anni '60 del '900) dotata di strutture e metodologie formative di discreto/ottimo livello. E' invece imputabile alla condizione di sudditanza politica internazionale del nostro paese, seguita alla sconfitta nella II Guerra Mondiale.

Per mantenere e rafforzare questa sudditanza, i dominanti statunitensi non hanno esitato a porre in atto strategie atte a distruggere e vanificare i criteri selettivi delle élite dirigenti pensati per la nostra scuola pubblica, fino a ridurre quest'ultima al miserabile caravanserraglio che è oggi. Un informe baraccone dei fenomeni, in cui analfabeti, facinorosi, handicappati e disadattati di varia asocialità sono oggetto delle stesse attenzioni formative spettanti agli allievi eccellenti e destinatari delle stesse certificazioni culturali e professionali, che risultano svuotate pertanto di ogni valore. Nel 1923, avendo ben presente la necessità di formare e selezionare una classe dirigente nazionale, il filosofo Giovanni Gentile aveva introdotto nell'ordinamento normativo quella che resta a tutt'oggi la miglior riforma della scuola mai presentata in Italia. Non era una riforma esente da difetti, né di certo la migliore immaginabile. Semplicemente, per lo spirito nazionalistico che la guidava e per la costruzione teoretica che la sorreggeva, era molte spanne al di sopra di ogni altra normativa della scuola mai varata nel nostro paese negli anni che la precedettero e la seguirono. Anche se Mussolini la definì “la più fascista delle riforme”, difendendola strenuamente contro i suoi numerosi detrattori, la riforma Gentile era tutt'altro che fascista. Gentile era un intellettuale liberale di destra prestato al fascismo, del quale condivideva un certo autoritarismo di fondo, ma non necessariamente l'impostazione sociale e politica. Non è un caso che i principali nemici della riforma furono gli stessi ministri dell'istruzione del fascismo che si alternarono alla Minerva nel corso del Ventennio. Nella concezione gentiliana, l'educazione doveva indirizzarsi, nella sua forma più completa, agli uomini migliori, ai futuri capi e non alle masse. Per questo motivo, il livello secondario era stato nettamente suddiviso in due tronconi: una formazione classico-umanistica per i futuri dirigenti e una formazione professionale per tutti coloro che non avessero raggiunto certi livelli minimi di eccellenza nelle discipline. “La società nostra”, scriveva Gentile nel 19081 , “è zeppa di legisti e medici a spasso, con tanto di laurea incorniciata e appesa nel più onorevole luogo di casa. Essi hanno compiuto pessimamente gli studi universitari, come male hanno fatto i secondari […]. Costoro non sono nati agli studi; anzi, fruges consumere! Sono numero; e non hanno diritto di fare i medici e gli avvocati. […] Alla folla che guasta la scuola classica lo Stato deve assegnare non mezzi di dare comunque la scalata alle università, ma scuole tecniche e commerciali svariate, le quali […] non devono dare adito alle università mai”. Parole che si potrebbero sottoscrivere anche oggi.

Gentile aveva voluto una costruzione fortemente meritocratica, che metteva da parte il vecchio favoritismo clientelare e sanciva che ai migliori fossero riservati i posti di maggiore responsabilità. Per questo motivo era stato istituito un limitato numero di scuole elitarie, particolarmente quelle a indirizzo classico, che dovevano servire alla formazione della nuova classe dirigente. Alle altre scuole, in particolare a quelle tecniche e commerciali, era affidato il compito di fungere da canali di scolmatura che evitassero l’intasamento dei corsi privilegiati. Sempre con questo obiettivo elitario, la riforma aveva previsto l’esame di Stato, aveva limitato il numero di ore di ripetizione impartite dai professori (non più di una al giorno, come previsto dal R. D. 27-11-1924, n. 2367, art. 47) e “moralizzato” i concorsi pubblici. Ma ad essere scontenta dell’elitarismo della riforma, che la escludeva dall'accesso alle cariche di maggior rilievo, era la stessa piccola borghesia che aveva appoggiato l’ascesa del fascismo e che ne costituiva il nerbo sociale. Inoltre, la selettività di Gentile lasciava fuori dalla scuola ampi settori della realtà giovanile, sottraendoli al controllo politico del fascismo. La scuola così concepita risultava comunque insufficiente ai fini totalitari del regime: Augusto Turati, segretario del Pnf, dichiarava nell’aprile 1927 che la fascistizzazione della scuola era impossibile senza la fascistizzazione degli insegnanti. E poiché il fascismo non possedeva le necessarie leve culturali per la sostituzione degli insegnanti, l’unica via era quella d’imporre d’autorità l’adesione agli ideali fascisti utilizzando presidi e direttori didattici come organi di controllo poliziesco. Gentile aveva assegnato un posto di netto rilievo all’autonomia didattica del docente, progettando una scuola che fosse posta al di sopra delle fazioni politiche. Ma già con la legge del 24 dicembre 1925, il fascismo introdusse il licenziamento per insegnanti e funzionari che avessero professato idee vicine all’opposizione, anche al di fuori dal servizio. La sorveglianza dirigenziale era integrata dall’ampio credito offerto alle denunce di scandali pervenute tramite lettere anonime. Con il regio decreto del 28 agosto 1931, il ministro dell’istruzione Balbino Giuliano introdusse poi per i docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime, che solo una dozzina di docenti rifiutarono di sottoscrivere. A queste problematiche vanno aggiunte le critiche portate avanti da alcune riviste scolastiche d’impostazione bottaiana (in particolare “La Pedagogia italiana”, diretta da Salvatore Talia e “I Diritti della Scuola”, diretta da Luigi Volpicelli), le quali polemizzavano con l’impostazione idealistica gentiliana, ritenendola controproducente per lo sviluppo economico del paese, vista la marginalizzazione in cui essa relegava il settore della professionalità, della tecnica e del lavoro per privilegiare l’attività intellettuale. Nonostante l'avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l'unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell'arco di tutto il Ventennio.

I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all'impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l'Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali. Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi. Non si poteva permettere all'Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall'alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell'identità culturale – tutte cose che l'impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato. Com'è noto, l'ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l'Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d'azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'uomo che rischiava di dare all'Italia l'autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con paesi petroliferi come l'Egitto di Nasser, l'Iran, il Sudan, restituendo all'Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d'iniziativa della politica nazionale. I proventi dell'ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti.

A piazzare la bomba sull'aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi. Successivamente la battaglia per privare l'Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell'assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all'Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l'estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d'intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell'operazione. Ma tra l'assassinio di Mattei e l'avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del '68, che spazzò via per sempre dall'impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l'idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un'élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità.

Quest'idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l'equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa. Il 68 seppellì l'ovvio concetto che una scuola viene finanziata dallo Stato anche – e soprattutto – affinché serva a garantire allo Stato il necessario ricambio di leve dirigenziali, sotto un fiume in piena di chiacchiere “egualitariste”, sotto una valanga di piagnucoloso pietismo per gli “svantaggiati”, sotto un'eruzione poderosa di “nuove teorie” sullo sviluppo della relazionalità del fanciullo (“comportamentismo”, “cognitivismo”, “costruttivismo” e via delirando) che risultano astruse e difficilmente comprensibili a chi è costretto a studiarle sul piano teorico nei corsi di abilitazione e di aggiornamento e del tutto risibili a chi ne osserva, sul piano pratico, i risultati applicativi concreti nella quotidianità scolastica. Con il Sessantotto, le scuole secondarie e le università divennero “di massa”, il che, già sul piano etimologico rappresenta una contraddizione in termini. L'università è il “luogo di studio pubblico in cui s'insegna l'universalità delle scienze”, cioè un'istituzione preordinata all'ampliamento e al perfezionamento delle competenze, cui solo i più dotati – coloro che hanno già acquisito competenze di alto livello che vanno ampliate e perfezionate – dovrebbero poter accedere.

Aprire l'università alla “massa” (cioè a mandrie di semianalfabeti e perdigiorno privi finanche delle competenze minime per la composizione di un testo) non equivale ad accrescere il livello della cultura nazionale, ma ad omologarlo verso il basso, consentendo ai “legisti e medici a spasso” di cui parlava Gentile di fregiarsi di un titolo equivalente a quello acquisito con impegno e fatica dai più preparati. Ciò svuota il titolo stesso di qualunque valore certificativo, costringendo enti ed aziende a creare proprie procedure di selezione dei quadri dirigenti per supplire all'assenza di valutazione oggettiva preliminare, un tempo assicurata dall'istituzione pubblica. Le procedure di valutazione gestite dalle aziende private, pur essendo giustamente e rigorosamente selettive, sono purtroppo anche settoriali: garantiscono cioè l'adeguatezza del candidato al ruolo specifico in cui verrà inserito, ma ignorano e scoraggiano ogni percezione di più ampio respiro, che potrebbe servire a coordinare l'operatività e gli obiettivi della singola struttura pubblica o privata con gli obiettivi di altre strutture, dando vita ad un più esteso progetto finalizzato a costruire e rafforzare un programma di valenza strategica nazionale. La selezione privata costruisce organici che assicurano, al massimo, il profitto e l'efficienza gestionale del singolo ente; per restituire sovranità ed autonomia ad una nazione, occorrerebbero organici dotati di competenze ben più vaste ed ecumeniche (culturali, linguistiche, politiche, intergestionali, ecc.) che l'istruzione di Stato non è più in grado di fornire. Non a caso, la riforma gentiliana aveva assegnato un ruolo preminente alle discipline umanistiche, le quali non forniscono solo nozioni attinenti a a un settore dello scibile, ma anche gli strumenti essenziali (logici, linguistici, critici, ermeneutici, dialettici, relazionali, ecc.) per impadronirsi di qualunque competenza ed integrarla con le altre in una prospettiva universale.

Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l'élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l'aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all'ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l'espansione dello scimunimento televisivo e dell'immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l'élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall'establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d'oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell'istruzione nazionale ricevettero, com'è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell'informazione, della politica, dell'amministrazione e dell'industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l'illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l'ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai.

Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell'agone politico di un certo Silvio Berlusconi... ma questa è un'altra storia. Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un'abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal '68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall'inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull'asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all'indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale.

Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull'”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d'accatto, fonte d'indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l'apprendimento... e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull'abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell'istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia. E' la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell'insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro.

Una commedia dell'arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d'insieme della rappresentazione. S'intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell'ossatura culturale del paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.
di Gianluca Freda

28 dicembre 2010

Capitalismo e (dis)ordine mondiale?


L’idea di un declino dell’Impero Usa fu formulata dai sociologi (storici) Eric Hobsbawm (inglese) e Immanuel Wallerstein (statunitense) : un pensiero tranciante che richiama molto il crollismo capitalistico di tutto il Novecento, sviluppato però in questo caso da un paese dominante che agisce sui doppi binari (livelli) di una politica di potenza ed in grado perciò di rilasciare continue sorprese prima del riconoscimento di un suo iniziale declino.


Secondo tali autori, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si delineò la fase conclusiva di una “secolo breve” (1914-1991); il cui collasso finale dei regimi comunisti accelerò la fine di una stabilità internazionale, e con essa gli Stati nazionali, compresa la differenza, tra “Liberalismo” e “Illuminismo”, che aveva campeggiato, con identificazioni statali il vecchio continente europeo, per circa tre secoli a partire dallo storico armistizio europeo di Westfalia del 1648:

Un’ipotesi ripresa da Giovanni Arrighi come si evince nella raccolta dei suoi saggi raccolti in un libro postumo (a cura di Cesarale-Pianta), dal titolo“CAPITALISMO e (DIS)ORDINE MONDIALE”, ed., Il Manifesto Libri,2010; un insieme di scritti (tra i tanti) frutto di una lunga permanenza in Usa dell’autore, dopo aver peregrinato tra università africane e l’università di sociologia di Trento dei primi anni settanta, prima di arrivare al periodo americano, alla “State University” di New York e al “Fernand Braudel Center” (1979)

Le sue indagini sui “Cicli sistemici di Accumulazione” e “Transizioni Egemoniche”, con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo secolo, si fecero improvvisamente cupe e gravide di incertezze circa le prospettive storiche del futuro del Terzo Millennio, sempre avvolto secondo l’autore, da una “nebbia totale”; un chiaro richiamo alla centralità del “Capitale Finanziario”, che sovrasta e copre ogni crisi del capitalismo, che ha saputo rappresentare e tenere un insieme ideologico dell’intero Novecento, da cui si sono liberati tutti gli (ister)ismi liberali ed in particolare quelli marxisti che si sono avvalsi, per circa un secolo, della nota formula del “Imperialismo come supremo stadio del capitalismo”.

Una conferma ulteriore, della finanziarizzazione capitalistica arrivò con la cosiddetta “Globalizzazione”, tanto pubblicizzata, nei suoi epigoni democratici del “villaggio globale”, quanto vituperata da tutti i no-global, entrambi concordi sulle cause fondamentali della crisi dell’eccesso di finanza dei rapporti capitalisti; sfuggiva la motivazione principale, di quel surplus finanziario, tesa a nascondere un reale rapporto di dominio globale, come avvenne con l’emersione del monocentrismo Usa, facendo seguito all’implosione dell’Urss (1989): un quindicennio di dominio globale Usa, prima dell’ ingresso del multipolarismo (2002-03).

Non senza dimenticare come l’idea forza della globalizzazione si sia potuta incarnare nelle imprese definite “transnazionali” perché prive (si diceva) di una matrice di interesse nazionale; un viatico fondamentale ad una pervasività finanziaria che si sviluppò con il nascondimento (apparente) di una corposa concretezza di interessi nazionali delle americanissime imprese (Usa) che agirono con caratterizzazioni egemoniche (mondiali), sotto le coperture finanziarie, delle imprese sub–dominanti (agenti mandatari) collocate nei paesi dominati.

Oltre ad un dejà vu ossessivo che identificò, sempre, il Capitalismo finanziario, come la causa di ogni crisi capitalistica: un semplice rapporto di dominio nascosto e trasferito sull’economico e che costrinse il dominato a fare i conti (della serva), entro i vincoli economici assegnatigli; conseguenza fondamentale di una limitazione di autonomia per ciascun paese e finanche di un pensiero depauperato dell’agire politico, in una politica senza vita che, come uno spettro, è capace ancora di irretire i popoli beoti irretiti dai luoghi comuni di un crollo del capitalismo.

L’interesse dell’autore è rivolto principalmente alla crisi del “Washington consensus“ causa fondamentale dell’emergenza della Cina che ha saputo imporre un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il “Nord e il Sud del mondo”; un cambiamento di direzione imposto all’establishment americano, che intende reagire come paese dominante, in grado di nascondere le più profonde ragioni di una politica di potenza in crisi di egemonia, nei cui confronti l’economi(c)a rappresenta l’unico carburante valido per una politica in grado di mettere in movimento “l’insieme di un complesso strategico”.

E’ su questa crisi di una declinante egemonia che si è innestata una corsa strategica Usa mettendo benzina sul fuoco della Centralità Finanziaria ormai alle corde dal multipolarismo che avanza, e da un armamentario ideologico del liberalismo-marxismo in disuso, alle spalle del trascorso Novecento; e con il sostegno ideologico di una ricorsività della finanziarizzazione del capitale, formulata dallo storico Fernand Braudel come “caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dal sedicesimo storico”, che ha dato la stura ad una summa di pensiero “dell’Economia Mondo”(1) ; e ripresa e fatta proprio da Arrighi: “ l’accumulazione di capitale [si realizza] attraverso la compravendita delle merci ….In alcuni periodi anche lunghi il capitalismo sembrò specializzarsi come nel diciannovesimo secolo, quando esso si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria. Questa specializzazione indusse molti a presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe conferito al capitalismo il suo vero volto. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: dopo il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo ad una specie di indivisibilità, come se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”.

Le espansioni finanziarie sono state (secondo l’autore) “ un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino… Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’, le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio. Per un altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante”.

E’ proprio da qui che si può evincere il doppio binario, sopra indicato, dello strumento finanziario dello Stato Usa, divide et impera; una (di)visione realizzata da una politica strategica realmente conflittuale, il cui flusso finanziario è soltanto l’aspetto di un più ampio conflitto strategico; come altrettanto ampio è lo spettro di dominio della potenza egemonica di un paese che intende collocarsi entro uno spazio geopolitico, compreso quello militare.

Il gioco delle apparenze, svolto dal paese dominante Usa, si realizza con una indubbia efficacia persuasiva: una duplicazione infinita del finanziario che si svolge senza alcun riferimento delle economie reali, che continuano a sussistere in immagini riflesse dei valori finanziari, come in una camera di specchi; un gioco delle apparenze che ha portato a uno stato confusionale i dominati europei, così come del resto si è lasciato avvolgere il sistema politico italiano, che, tra destra-sinistra, spazia dal risibile pensiero mercatista tremontiano, al mercato sociale e/o socialismo del mercato della sinistra, ai no global, alla finanza etica…, e “chi più ne ha più ne metta”.

La ricerca sociale prospettata da Arrighi, contiene, come gran parte del mondo accademico, l’idea statica ‘del moto apparente del sole (intorno alla terra); una sorta di ‘pensiero alto’ che tiene costantemente sotto osservazione una ordinaria realtà empirica a copertura di un sottostante movimento tellurico, che trasforma, continuamente, la superficie dell’ oggetto dell’analisi posta in essere.

Le stesse fissità di pensiero sui macrosistemi economici-finanziari hanno prodotto una spessa coltre ideologica al riparo degli ‘squarci di verità’ che hanno saputo imporre i grandi pensatori da Marx, a Husserl…., nel disvelamento delle ideologie, che imbragavano la realtà entro le apparenze dei dominanti.

Una ricerca sociale che possa essere considerata con una sufficiente scientificità, non può fare riferimento ad una realtà statica ( e/o in equilibrio), quanto considerare che ogni mutamento ( sviluppo) è rottura di ogni precedente (apparente) equilibrio, con una posizione da occupare in progressione di un movimento (conflitto) in costante squilibrio (simile alle analisi schumpteriane dei processi innovativi dei prodotti derivati dalla rottura del flusso circolare ).

Oltre alla comprensione che lo svelamento dello squilibrio è il riconoscimento di una realtà in movimento come presupposto fondante di ogni conflitto strategico: i cambiamenti di posizione diventano parte integrante di una stabilizzazione di una nuova formazione economica-sociale ( pars costruens).




  1. Il termine “Economia Mondo” fu usato per la prima volta da F. Braudel (ricalcando le analisi di F. Rorig del 1933) e rappresenta un insieme di aree geografiche con diversa specializzazione produttiva e con diversi rapporti di produzione, collegati da relazioni commerciali; una divisione spaziale con un centro ed una periferia collegata secondo una dilatazione di scambi commerciali in una forma di progressiva subordinazione economica.

di Gianni Duchini

30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli

29 dicembre 2010

Scuola pubblica: chi l'ha uccisa ?







Coloro che, come il sottoscritto, si trovano a lavorare nel mondo della scuola, provano spesso la sensazione di essere capitati all’interno di una istituzione sopravvissuta alla propria funzione e al proprio ruolo. Si viene a scuola tutte le mattine, da insegnanti o da allievi, come ci si recherebbe al tempio di una divinità antica, di cui sacerdoti e fedeli ricordano le prescrizioni rituali, ma non le promesse di crescita spirituale, né il significato che la partecipazione al rito garantiva un tempo di donare alla vita individuale e collettiva. Si tengono ore di lezione, si programmano obiettivi didattici e prove in itinere, si celebrano solenni messe pomeridiane di classe e d’istituto in cui si valutano virtù e peccati dei fedeli (i quali saranno comunque tutti assolti nel Giorno del Giudizio, poiché la scuola è una divinità infinitamente misericordiosa), si tiene viva la sacra fiamma delle attività integrative e dei recuperi pomeridiani, si verbalizzano scrupolosamente le proposte e le valutazioni del sinedrio e si lotta quotidianamente contro la perdita di fede che la seduzione del maligno tenta di indurre nei docenti timorati di Dio. L’opera del Nemico dell’Uomo si manifesta, nel sacerdote che vede indebolirsi le proprie certezze, attraverso la sgradevole sensazione di stare officiando una cerimonia funebre piuttosto che un rito della fertilità; come avviene nel meraviglioso libro di Gianni Celati, Fata Morgana, in cui il misterioso popolo dei Gamuna utilizza le aule scolastiche per i riti funebri collettivi.

“Arrivati alla scuola, in un’aula hanno visto il morto sulla cattedra e i maschi adulti del suo gruppo familiare seduti nei banchi. Erano seduti nei banchi come scolari che ripassino una lezione, e tutti recitavano litanie di nomi degli antenati. Ma quelli nelle prime file, con l’aria di scolari più bravi e più studiosi, correggevano spesso le litanie degli altri. Allora gli altri reagivano, e scoppiavano litigi, volavano insulti e minacce”.

Lo spirito ingannatore viene comunemente raffigurato dall’iconografia ecclesiale con fattezze di lugubre materialità economica, contrapposta alla spiritualità della cultura, che rappresenta la cifra distintiva della mistica scolastica. Il maligno compie la sua opera devastatrice preferenzialmente attraverso i tagli all’istruzione pubblica, fonte di falcidia d’insegnanti e bidelli e di razionamento delle fotocopie e della carta igienica. Non è chiaro cosa abbia a che fare la carta igienica con la spiritualità dell’istruzione. I frequenti richiami a questo emblema della trivialità corporea nelle invettive dei padri della Chiesa denotano probabilmente eventi di possessione demoniaca, simili a quelli che costringevano gli antichi anacoreti dei deserti della Palestina a prodursi in orribili bestemmie e imprecazioni da taverna mentre lottavano per liberare la propria carne dall’abbraccio tentatore di satanasso. Altri deprecano lo slittamento progressivo dell’istruzione verso le mani dei privati, adducendo diverse e contrastanti giustificazioni circa i motivi per cui tale passaggio di mano risulterebbe indesiderabile. Si invoca, a seconda dei casi, il pericolo di una scuola classista, di alto livello per i ricchi (quella privata) e di infimo livello per i poveri (quella pubblica); oppure, al contrario, si fanno rilevare (forse con un briciolo di realismo in più) le pessime performance delle scuole private – autentiche tipografie di certificati scolastici per analfabeti – a fronte dei risultati leggermente migliori di cui può vantarsi l’istruzione statale. E’ raro trovare qualcuno che osi andare un po’ più a fondo, cioè alla radice della rarefazione di significato che sembra oggi investire la scuola pubblica. Una perdita di significato che ha molto più a che fare con l’obsolescenza dei suoi scopi originari o con l’impossibilità politica di soddisfarli nel perdurare delle attuali contingenze internazionali, che con la decurtazione delle risorse economiche.

Com’è noto, l’edificio dell’istruzione pubblica illuminista era nato con due scopi essenziali. Il primo era quello di indottrinare e ridurre all’obbedienza le masse non acculturate. Attraverso la scuola, il nuovo potere borghese in ascesa intendeva sostituire, per ragioni di controllo delle coscienze, la propria visione del mondo a quella propagandata per secoli dalle istituzioni della Chiesa. Da qui l'introduzione nella prima scuola di stato di una serie di contenuti (esaltazione della scienza e del razionalismo, ridefinizione e ricategorizzazione degli eventi storici, lettura dei fenomeni naturali e finanche di quelli sociali in chiave puramente meccanicistica, ecc.) finalizzata ad inculcare nelle masse una nuova percezione dell'esistente che fosse funzionale agli scopi perseguiti dal nuovo potere costituito. Allo stesso tempo, si mirava attraverso l'istituzione scolastica ad imporre rigidi modelli di comportamento che riducessero al minimo l'eventualità di sollevazioni ed atteggiamenti sediziosi di fronte agli sconvolgimenti politici, sociali ed ambientali con cui la politica di dominio delle nuove élite stava per spazzare via modelli e paradigmi di vita comune consolidati da secoli. Questa prima finalità con cui il modello scolastico dei primordi era stato progettato è divenuta obsoleta da ormai quasi un secolo.

La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e le teorie sul controllo del comportamento e della percezione degli individui attraverso un entertainment e un'informazione manipolati all'uopo (si legga in proposito il fondamentale Propaganda di Edward Bernays), ha permesso alle élite di garantirsi potenzialità di manipolazione percettiva e di gestione del malcontento sociale infinitamente più ampie, stringenti ed efficaci di quelle che l'istruzione pubblica avrebbe mai potuto assicurare. Per trapiantare nella percezione delle moltitudini gli schemi interpretativi voluti dal potere e per rendere gli individui del tutto impotenti e inconsapevoli dei meccanismi politici che stanno alla base delle loro vite, è molto più efficace mezz'ora di rimbecillimento videomusicale su MTV che un decennio di apprendistato condotto sotto la supervisione del più autoritario e manesco degli insegnanti. Il secondo scopo per cui l'istruzione pubblica era stata originariamente ideata era quello di rappresentare un percorso di formazione per una nuova classe dirigente, la quale avrebbe dovuto gestire le istituzioni del nuovo sistema sociale, nonché le nascenti realtà produttive del modello industriale. La scuola doveva essere dunque un vivaio di professionalità da cui attingere i tecnici, i ricercatori, gli specialisti, i quadri dirigenti, in grado di far funzionare, secondo le direttive determinate dall'élite borghese, il nuovo impianto sociale in formazione. Questa seconda finalità dell'istruzione pubblica non è mai venuta meno ed è oggi più attuale ed urgente che mai; soprattutto in paesi come l'Italia, il cui problema di fondo è sempre stato quello dell'assenza di una classe dirigente, tecnicamente e culturalmente preparata, in grado di guidare le istituzioni politiche, economiche ed industriali del paese. La mancata nascita di una classe dirigente in Italia non è del tutto imputabile a carenze della scuola pubblica nazionale, la quale è stata per lunghi periodi (almeno fino alla fine degli anni '60 del '900) dotata di strutture e metodologie formative di discreto/ottimo livello. E' invece imputabile alla condizione di sudditanza politica internazionale del nostro paese, seguita alla sconfitta nella II Guerra Mondiale.

Per mantenere e rafforzare questa sudditanza, i dominanti statunitensi non hanno esitato a porre in atto strategie atte a distruggere e vanificare i criteri selettivi delle élite dirigenti pensati per la nostra scuola pubblica, fino a ridurre quest'ultima al miserabile caravanserraglio che è oggi. Un informe baraccone dei fenomeni, in cui analfabeti, facinorosi, handicappati e disadattati di varia asocialità sono oggetto delle stesse attenzioni formative spettanti agli allievi eccellenti e destinatari delle stesse certificazioni culturali e professionali, che risultano svuotate pertanto di ogni valore. Nel 1923, avendo ben presente la necessità di formare e selezionare una classe dirigente nazionale, il filosofo Giovanni Gentile aveva introdotto nell'ordinamento normativo quella che resta a tutt'oggi la miglior riforma della scuola mai presentata in Italia. Non era una riforma esente da difetti, né di certo la migliore immaginabile. Semplicemente, per lo spirito nazionalistico che la guidava e per la costruzione teoretica che la sorreggeva, era molte spanne al di sopra di ogni altra normativa della scuola mai varata nel nostro paese negli anni che la precedettero e la seguirono. Anche se Mussolini la definì “la più fascista delle riforme”, difendendola strenuamente contro i suoi numerosi detrattori, la riforma Gentile era tutt'altro che fascista. Gentile era un intellettuale liberale di destra prestato al fascismo, del quale condivideva un certo autoritarismo di fondo, ma non necessariamente l'impostazione sociale e politica. Non è un caso che i principali nemici della riforma furono gli stessi ministri dell'istruzione del fascismo che si alternarono alla Minerva nel corso del Ventennio. Nella concezione gentiliana, l'educazione doveva indirizzarsi, nella sua forma più completa, agli uomini migliori, ai futuri capi e non alle masse. Per questo motivo, il livello secondario era stato nettamente suddiviso in due tronconi: una formazione classico-umanistica per i futuri dirigenti e una formazione professionale per tutti coloro che non avessero raggiunto certi livelli minimi di eccellenza nelle discipline. “La società nostra”, scriveva Gentile nel 19081 , “è zeppa di legisti e medici a spasso, con tanto di laurea incorniciata e appesa nel più onorevole luogo di casa. Essi hanno compiuto pessimamente gli studi universitari, come male hanno fatto i secondari […]. Costoro non sono nati agli studi; anzi, fruges consumere! Sono numero; e non hanno diritto di fare i medici e gli avvocati. […] Alla folla che guasta la scuola classica lo Stato deve assegnare non mezzi di dare comunque la scalata alle università, ma scuole tecniche e commerciali svariate, le quali […] non devono dare adito alle università mai”. Parole che si potrebbero sottoscrivere anche oggi.

Gentile aveva voluto una costruzione fortemente meritocratica, che metteva da parte il vecchio favoritismo clientelare e sanciva che ai migliori fossero riservati i posti di maggiore responsabilità. Per questo motivo era stato istituito un limitato numero di scuole elitarie, particolarmente quelle a indirizzo classico, che dovevano servire alla formazione della nuova classe dirigente. Alle altre scuole, in particolare a quelle tecniche e commerciali, era affidato il compito di fungere da canali di scolmatura che evitassero l’intasamento dei corsi privilegiati. Sempre con questo obiettivo elitario, la riforma aveva previsto l’esame di Stato, aveva limitato il numero di ore di ripetizione impartite dai professori (non più di una al giorno, come previsto dal R. D. 27-11-1924, n. 2367, art. 47) e “moralizzato” i concorsi pubblici. Ma ad essere scontenta dell’elitarismo della riforma, che la escludeva dall'accesso alle cariche di maggior rilievo, era la stessa piccola borghesia che aveva appoggiato l’ascesa del fascismo e che ne costituiva il nerbo sociale. Inoltre, la selettività di Gentile lasciava fuori dalla scuola ampi settori della realtà giovanile, sottraendoli al controllo politico del fascismo. La scuola così concepita risultava comunque insufficiente ai fini totalitari del regime: Augusto Turati, segretario del Pnf, dichiarava nell’aprile 1927 che la fascistizzazione della scuola era impossibile senza la fascistizzazione degli insegnanti. E poiché il fascismo non possedeva le necessarie leve culturali per la sostituzione degli insegnanti, l’unica via era quella d’imporre d’autorità l’adesione agli ideali fascisti utilizzando presidi e direttori didattici come organi di controllo poliziesco. Gentile aveva assegnato un posto di netto rilievo all’autonomia didattica del docente, progettando una scuola che fosse posta al di sopra delle fazioni politiche. Ma già con la legge del 24 dicembre 1925, il fascismo introdusse il licenziamento per insegnanti e funzionari che avessero professato idee vicine all’opposizione, anche al di fuori dal servizio. La sorveglianza dirigenziale era integrata dall’ampio credito offerto alle denunce di scandali pervenute tramite lettere anonime. Con il regio decreto del 28 agosto 1931, il ministro dell’istruzione Balbino Giuliano introdusse poi per i docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime, che solo una dozzina di docenti rifiutarono di sottoscrivere. A queste problematiche vanno aggiunte le critiche portate avanti da alcune riviste scolastiche d’impostazione bottaiana (in particolare “La Pedagogia italiana”, diretta da Salvatore Talia e “I Diritti della Scuola”, diretta da Luigi Volpicelli), le quali polemizzavano con l’impostazione idealistica gentiliana, ritenendola controproducente per lo sviluppo economico del paese, vista la marginalizzazione in cui essa relegava il settore della professionalità, della tecnica e del lavoro per privilegiare l’attività intellettuale. Nonostante l'avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l'unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell'arco di tutto il Ventennio.

I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all'impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l'Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali. Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi. Non si poteva permettere all'Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall'alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell'identità culturale – tutte cose che l'impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato. Com'è noto, l'ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l'Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d'azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'uomo che rischiava di dare all'Italia l'autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con paesi petroliferi come l'Egitto di Nasser, l'Iran, il Sudan, restituendo all'Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d'iniziativa della politica nazionale. I proventi dell'ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti.

A piazzare la bomba sull'aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi. Successivamente la battaglia per privare l'Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell'assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all'Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l'estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d'intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell'operazione. Ma tra l'assassinio di Mattei e l'avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del '68, che spazzò via per sempre dall'impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l'idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un'élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità.

Quest'idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l'equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa. Il 68 seppellì l'ovvio concetto che una scuola viene finanziata dallo Stato anche – e soprattutto – affinché serva a garantire allo Stato il necessario ricambio di leve dirigenziali, sotto un fiume in piena di chiacchiere “egualitariste”, sotto una valanga di piagnucoloso pietismo per gli “svantaggiati”, sotto un'eruzione poderosa di “nuove teorie” sullo sviluppo della relazionalità del fanciullo (“comportamentismo”, “cognitivismo”, “costruttivismo” e via delirando) che risultano astruse e difficilmente comprensibili a chi è costretto a studiarle sul piano teorico nei corsi di abilitazione e di aggiornamento e del tutto risibili a chi ne osserva, sul piano pratico, i risultati applicativi concreti nella quotidianità scolastica. Con il Sessantotto, le scuole secondarie e le università divennero “di massa”, il che, già sul piano etimologico rappresenta una contraddizione in termini. L'università è il “luogo di studio pubblico in cui s'insegna l'universalità delle scienze”, cioè un'istituzione preordinata all'ampliamento e al perfezionamento delle competenze, cui solo i più dotati – coloro che hanno già acquisito competenze di alto livello che vanno ampliate e perfezionate – dovrebbero poter accedere.

Aprire l'università alla “massa” (cioè a mandrie di semianalfabeti e perdigiorno privi finanche delle competenze minime per la composizione di un testo) non equivale ad accrescere il livello della cultura nazionale, ma ad omologarlo verso il basso, consentendo ai “legisti e medici a spasso” di cui parlava Gentile di fregiarsi di un titolo equivalente a quello acquisito con impegno e fatica dai più preparati. Ciò svuota il titolo stesso di qualunque valore certificativo, costringendo enti ed aziende a creare proprie procedure di selezione dei quadri dirigenti per supplire all'assenza di valutazione oggettiva preliminare, un tempo assicurata dall'istituzione pubblica. Le procedure di valutazione gestite dalle aziende private, pur essendo giustamente e rigorosamente selettive, sono purtroppo anche settoriali: garantiscono cioè l'adeguatezza del candidato al ruolo specifico in cui verrà inserito, ma ignorano e scoraggiano ogni percezione di più ampio respiro, che potrebbe servire a coordinare l'operatività e gli obiettivi della singola struttura pubblica o privata con gli obiettivi di altre strutture, dando vita ad un più esteso progetto finalizzato a costruire e rafforzare un programma di valenza strategica nazionale. La selezione privata costruisce organici che assicurano, al massimo, il profitto e l'efficienza gestionale del singolo ente; per restituire sovranità ed autonomia ad una nazione, occorrerebbero organici dotati di competenze ben più vaste ed ecumeniche (culturali, linguistiche, politiche, intergestionali, ecc.) che l'istruzione di Stato non è più in grado di fornire. Non a caso, la riforma gentiliana aveva assegnato un ruolo preminente alle discipline umanistiche, le quali non forniscono solo nozioni attinenti a a un settore dello scibile, ma anche gli strumenti essenziali (logici, linguistici, critici, ermeneutici, dialettici, relazionali, ecc.) per impadronirsi di qualunque competenza ed integrarla con le altre in una prospettiva universale.

Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l'élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l'aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all'ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l'espansione dello scimunimento televisivo e dell'immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l'élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall'establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d'oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell'istruzione nazionale ricevettero, com'è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell'informazione, della politica, dell'amministrazione e dell'industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l'illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l'ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai.

Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell'agone politico di un certo Silvio Berlusconi... ma questa è un'altra storia. Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un'abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal '68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall'inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull'asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all'indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale.

Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull'”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d'accatto, fonte d'indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l'apprendimento... e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull'abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell'istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia. E' la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell'insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro.

Una commedia dell'arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d'insieme della rappresentazione. S'intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell'ossatura culturale del paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.
di Gianluca Freda

28 dicembre 2010

Capitalismo e (dis)ordine mondiale?


L’idea di un declino dell’Impero Usa fu formulata dai sociologi (storici) Eric Hobsbawm (inglese) e Immanuel Wallerstein (statunitense) : un pensiero tranciante che richiama molto il crollismo capitalistico di tutto il Novecento, sviluppato però in questo caso da un paese dominante che agisce sui doppi binari (livelli) di una politica di potenza ed in grado perciò di rilasciare continue sorprese prima del riconoscimento di un suo iniziale declino.


Secondo tali autori, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si delineò la fase conclusiva di una “secolo breve” (1914-1991); il cui collasso finale dei regimi comunisti accelerò la fine di una stabilità internazionale, e con essa gli Stati nazionali, compresa la differenza, tra “Liberalismo” e “Illuminismo”, che aveva campeggiato, con identificazioni statali il vecchio continente europeo, per circa tre secoli a partire dallo storico armistizio europeo di Westfalia del 1648:

Un’ipotesi ripresa da Giovanni Arrighi come si evince nella raccolta dei suoi saggi raccolti in un libro postumo (a cura di Cesarale-Pianta), dal titolo“CAPITALISMO e (DIS)ORDINE MONDIALE”, ed., Il Manifesto Libri,2010; un insieme di scritti (tra i tanti) frutto di una lunga permanenza in Usa dell’autore, dopo aver peregrinato tra università africane e l’università di sociologia di Trento dei primi anni settanta, prima di arrivare al periodo americano, alla “State University” di New York e al “Fernand Braudel Center” (1979)

Le sue indagini sui “Cicli sistemici di Accumulazione” e “Transizioni Egemoniche”, con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo secolo, si fecero improvvisamente cupe e gravide di incertezze circa le prospettive storiche del futuro del Terzo Millennio, sempre avvolto secondo l’autore, da una “nebbia totale”; un chiaro richiamo alla centralità del “Capitale Finanziario”, che sovrasta e copre ogni crisi del capitalismo, che ha saputo rappresentare e tenere un insieme ideologico dell’intero Novecento, da cui si sono liberati tutti gli (ister)ismi liberali ed in particolare quelli marxisti che si sono avvalsi, per circa un secolo, della nota formula del “Imperialismo come supremo stadio del capitalismo”.

Una conferma ulteriore, della finanziarizzazione capitalistica arrivò con la cosiddetta “Globalizzazione”, tanto pubblicizzata, nei suoi epigoni democratici del “villaggio globale”, quanto vituperata da tutti i no-global, entrambi concordi sulle cause fondamentali della crisi dell’eccesso di finanza dei rapporti capitalisti; sfuggiva la motivazione principale, di quel surplus finanziario, tesa a nascondere un reale rapporto di dominio globale, come avvenne con l’emersione del monocentrismo Usa, facendo seguito all’implosione dell’Urss (1989): un quindicennio di dominio globale Usa, prima dell’ ingresso del multipolarismo (2002-03).

Non senza dimenticare come l’idea forza della globalizzazione si sia potuta incarnare nelle imprese definite “transnazionali” perché prive (si diceva) di una matrice di interesse nazionale; un viatico fondamentale ad una pervasività finanziaria che si sviluppò con il nascondimento (apparente) di una corposa concretezza di interessi nazionali delle americanissime imprese (Usa) che agirono con caratterizzazioni egemoniche (mondiali), sotto le coperture finanziarie, delle imprese sub–dominanti (agenti mandatari) collocate nei paesi dominati.

Oltre ad un dejà vu ossessivo che identificò, sempre, il Capitalismo finanziario, come la causa di ogni crisi capitalistica: un semplice rapporto di dominio nascosto e trasferito sull’economico e che costrinse il dominato a fare i conti (della serva), entro i vincoli economici assegnatigli; conseguenza fondamentale di una limitazione di autonomia per ciascun paese e finanche di un pensiero depauperato dell’agire politico, in una politica senza vita che, come uno spettro, è capace ancora di irretire i popoli beoti irretiti dai luoghi comuni di un crollo del capitalismo.

L’interesse dell’autore è rivolto principalmente alla crisi del “Washington consensus“ causa fondamentale dell’emergenza della Cina che ha saputo imporre un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il “Nord e il Sud del mondo”; un cambiamento di direzione imposto all’establishment americano, che intende reagire come paese dominante, in grado di nascondere le più profonde ragioni di una politica di potenza in crisi di egemonia, nei cui confronti l’economi(c)a rappresenta l’unico carburante valido per una politica in grado di mettere in movimento “l’insieme di un complesso strategico”.

E’ su questa crisi di una declinante egemonia che si è innestata una corsa strategica Usa mettendo benzina sul fuoco della Centralità Finanziaria ormai alle corde dal multipolarismo che avanza, e da un armamentario ideologico del liberalismo-marxismo in disuso, alle spalle del trascorso Novecento; e con il sostegno ideologico di una ricorsività della finanziarizzazione del capitale, formulata dallo storico Fernand Braudel come “caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dal sedicesimo storico”, che ha dato la stura ad una summa di pensiero “dell’Economia Mondo”(1) ; e ripresa e fatta proprio da Arrighi: “ l’accumulazione di capitale [si realizza] attraverso la compravendita delle merci ….In alcuni periodi anche lunghi il capitalismo sembrò specializzarsi come nel diciannovesimo secolo, quando esso si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria. Questa specializzazione indusse molti a presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe conferito al capitalismo il suo vero volto. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: dopo il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo ad una specie di indivisibilità, come se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”.

Le espansioni finanziarie sono state (secondo l’autore) “ un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino… Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’, le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio. Per un altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante”.

E’ proprio da qui che si può evincere il doppio binario, sopra indicato, dello strumento finanziario dello Stato Usa, divide et impera; una (di)visione realizzata da una politica strategica realmente conflittuale, il cui flusso finanziario è soltanto l’aspetto di un più ampio conflitto strategico; come altrettanto ampio è lo spettro di dominio della potenza egemonica di un paese che intende collocarsi entro uno spazio geopolitico, compreso quello militare.

Il gioco delle apparenze, svolto dal paese dominante Usa, si realizza con una indubbia efficacia persuasiva: una duplicazione infinita del finanziario che si svolge senza alcun riferimento delle economie reali, che continuano a sussistere in immagini riflesse dei valori finanziari, come in una camera di specchi; un gioco delle apparenze che ha portato a uno stato confusionale i dominati europei, così come del resto si è lasciato avvolgere il sistema politico italiano, che, tra destra-sinistra, spazia dal risibile pensiero mercatista tremontiano, al mercato sociale e/o socialismo del mercato della sinistra, ai no global, alla finanza etica…, e “chi più ne ha più ne metta”.

La ricerca sociale prospettata da Arrighi, contiene, come gran parte del mondo accademico, l’idea statica ‘del moto apparente del sole (intorno alla terra); una sorta di ‘pensiero alto’ che tiene costantemente sotto osservazione una ordinaria realtà empirica a copertura di un sottostante movimento tellurico, che trasforma, continuamente, la superficie dell’ oggetto dell’analisi posta in essere.

Le stesse fissità di pensiero sui macrosistemi economici-finanziari hanno prodotto una spessa coltre ideologica al riparo degli ‘squarci di verità’ che hanno saputo imporre i grandi pensatori da Marx, a Husserl…., nel disvelamento delle ideologie, che imbragavano la realtà entro le apparenze dei dominanti.

Una ricerca sociale che possa essere considerata con una sufficiente scientificità, non può fare riferimento ad una realtà statica ( e/o in equilibrio), quanto considerare che ogni mutamento ( sviluppo) è rottura di ogni precedente (apparente) equilibrio, con una posizione da occupare in progressione di un movimento (conflitto) in costante squilibrio (simile alle analisi schumpteriane dei processi innovativi dei prodotti derivati dalla rottura del flusso circolare ).

Oltre alla comprensione che lo svelamento dello squilibrio è il riconoscimento di una realtà in movimento come presupposto fondante di ogni conflitto strategico: i cambiamenti di posizione diventano parte integrante di una stabilizzazione di una nuova formazione economica-sociale ( pars costruens).




  1. Il termine “Economia Mondo” fu usato per la prima volta da F. Braudel (ricalcando le analisi di F. Rorig del 1933) e rappresenta un insieme di aree geografiche con diversa specializzazione produttiva e con diversi rapporti di produzione, collegati da relazioni commerciali; una divisione spaziale con un centro ed una periferia collegata secondo una dilatazione di scambi commerciali in una forma di progressiva subordinazione economica.

di Gianni Duchini