22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

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Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi

19 febbraio 2011

Italia atlantica

Dalla cooperazione militare con “Israele” alla missione anti-pirateria nell’Oceano Indiano: fenomenologia aggiornata di una sudditanza rigorosamente bipartisan

Venerdì 10 Dicembre si è conclusa l’esercitazione Vega 2010 che ha visto la partecipazione di assetti italiani, israeliani e della NATO. La seconda fase, caratterizzata da missioni di tipo “air to round” ha visto impegnati
i cacciabombardieri Tornado ECR di Piacenza e IDS (“interdiction strike”) del 6° stormo di Ghedi. In Israele le missioni dei velivoli italiani consistevano nell’eliminare od eludere con i Tornado ECR lo sbarramento difensivo costituito dalle difese contraeree e dai caccia in volo e permettere ai Tornado IDS di arrivare sull’obbiettivo con lo sgancio di armamento di precisione.
Ovda è una località a nord di Eilat, a 40 miglia dal confine con l’Egitto. Alla periferia della città, in pieno deserto, c’è un aerostazione per uso passeggeri e, decentrate, infrastrutture, rifugi corazzati, radar e piste di volo da dove decollano e atterrano cacciabombardieri con la stella di Davide F-15 e F-16.
Cosa ci facevano i (nostri) Tornado Panavia con le insegne della NATO in “Israele” a meno di due mesi dalla defenestrazione di Mubarak?
Si esercitavano alla guerra “preventiva” contro il Paese delle Piramidi.
C’è in vigore un memorandum di intesa tra la Repubblica Italiana e lo Stato sionista in materia di cooperazione militare firmato a Parigi dal Ministro della Difesa Martino e dal Generale Shaoul Mofaz il 16 Giugno 2003, rinnovato nel 2008. In forza di questo trattato non sono previste missioni dell’Aereonautica Militare Italiana in “Israele”. Il documento parla chiaro.
L’intesa tra i contraenti in uno dei dieci articoli contempla altresì l’inserimento di clausole segrete. Facile capire che ce ne devono essere state.
Perchè fu scelta la capitale transalpina per firmare quel patto?
Per marcare la differenza con la politica “araba” del Presidente Chirac, eletto per due mandati consecutivi alla guida della Francia, dal Maggio 1995 al Maggio 2007. Chirac farà curare il leader dell’ANP Arafat all’Ospedale Militare di Percy e gli farà tributare, alla morte, nel Novembre del 2004, solenni funerali militari.
I governi del Bel Paese, all’opposto, hanno sempre avuto un debole per la “sicurezza” di “Israele”, strafregandosene della Palestina. Che non sia quella di Abu Mazen e di Erekat tirata fuori da Al-Jazeera.
Non dimentichiamoci di un particolare di per sè ampiamente significativo. Sia gli esecutivi Berlusconi che Prodi hanno sempre avuto Ministri degli Esteri e della Difesa o molto, ma molto vicini, a “Gerusalemme” o adeguatamente solidali.
La collocazione geografica dell’”air base” di Ovda e la data scelta congiuntamente da La Russa e Barak sono state intenzionali in previsione di un “cambio della guardia” in Egitto?
La risposta è sì.
Non è affatto vero, come si è sostenuto, che la rivolta partita da piazza Tahir abbia colto di sorpresa l’intera l’Amministrazione USA, la NATO e l’Europa.
Chi crede che le manifestazioni popolari siano state la spinta decisiva del “change” nella Terra del Nilo è semplicemente fuori strada. E’ da tempo che il seme di un “golpe” cova nel ventre dell’Egitto.
La frattura generazionale nelle strutture centrali e perferiche delle forze armate egiziane mandava da tempo segnali preoccupanti per l’Occidente.
Il Maresciallo Tantawi, liquidando Mubarak ed il suo intero apparato di potere, prendendo le redini del “nuovo Egitto” ha semplicemente evitato, almeno per ora, la totale emarginazione delle gerarchie militari di alto grado che hanno assecondato per oltre 30 anni la politica della “vacca che ride”.
Una politica, è bene ricordarlo, che ha trasformato Esercito, Marina, Aviazione e Difesa Aerea in strumenti da parata militare.
Abbiamo sfogliato l’Almanacco dell’Egitto pagina per pagina. Ne siamo rimasti sinceramente sorpresi, amareggiati. Il Paese del Nilo come forza combattente non esiste più al di là dei numeri e delle dotazioni.
Niente che possa davvero impensierire al momento e per i prossimi 10 anni “Israele”, ammesso che si trovi un solido ancoraggio con attori internazionali nel settore degli armamenti come Russia e Cina ed i finanziamenti necessari per attuare una completa ristrutturzione militare e, ancor prima, le risorse necessarie per dare avvio nel Paese ad un nuovo indirizzo economico e sociale. Uscire da decine di anni di “dipendenza” dall’Occidente è un affare da far tremare i polsi. I meccanismi del dialogo euromediterraneo, i prestiti del FMI, di USA ed Europa, la dipendenza dal turismo occidentale, le monoculture, le massiccie importazioni di granaglie hanno fatto il resto.
A livello di “comunità internazionale” si farà di tutto per mantenere l’Egitto in stato di costante precarietà economica senza farlo precipitare nel caos.
Torniano a Eilat.
Per la “missione” ad Ovda, La Russa ha lavorato da sguattero di USA e NATO per mandare oltre il canale di Suez precisi segnali finalizzati al rispetto ed alla continuità degli accordi di pace firmati nel ’76 da Begin e Sadat ed al mantenimento della “sicurezza” per Gerusalemme.
Non era mai successo che l’A.M.I., come rappresentante della NATO, partecipasse ad un azione simulata di guerra nello spazio aereo di “Israele” intenzionalmente diretta ad intimidire, a minacciare, un Paese del Medio
Oriente.
L’uso di vettori per la guerra elettronica (ECR) e da attacco al suolo (IDS), decollati da una base dell’aviazione ad un tiro di sputo dalla linea C del Sinai egiziano, non può non assumere un preciso significato politico e militare nei rapporti che, prevedibilmente, intercorreranno tra Roma ed il Cairo dopo l’uscita di cena di Mubarak e più estesamente tra l’Italia ed i Paesi dell’intera area.
Il decollo dei Tornado da una striscia di terra che va dal Golfo di ‘Aqaba al Mediterraneo, e segna per 260 km il confine tra i due Stati, non potrà non essere interpretato da ampi settori di opinione pubblica e dalle organizzazioni politiche egiziane che escono da protagoniste dalla rivolta del 25 Gennaio come un gesto ostile.
A tempi medio-lunghi ne potrebbero risentire pesantemente anche i rapporti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L’intera costa mediterranea del Paese del Nilo potrebbe trasformarsi, come effetto indesiderato, in punti di raccolta e di imbarco per l’esodo sempre più massiccio che dal Maghreb all’Africa Subsahariana si riversa ormai da anni sulle coste della Repubblica delle Banane.
“Israele” non ha mai restituito all’Egitto dal ’67, nonostante gli accordi di pace perfezionati nel ’78, prima del ritiro di “Gerusalemme” dal resto della penisola araba nell”82, la fascia D del Sinai.
In questo corridoio l’I.D.F. mantiene pattuglie di perlustrazione, blindate, per un totale di 400 militari.
Osserviamo nel fratempo come tv e giornali nel Bel Paese si stiano dando un gran daffare in questi giorni per addolcire la liquidazione coatta di Mubarak, di Suleyman e dell’intero governo del “rais”, cavalcando la barzelletta della caduta di un nuovo muro di Berlino. Il nesso appare più che forzato, incredibilmente ridicolo.
Ma così è se… vi pare.
Sono arrivati al punto di mandare sui telegiornali delle vecchie riprese del maresciallo Tantawi a colloquio con Barak quando comandava il sarcofago ambulante del Cairo per mettere al sicuro, in cassaforte, la continuità, anche in un prossimo futuro, degli “accordi” di Camp David.

E ora un altro “mistero” che riguarda il solito on. Ignazio La Russa, tornato a corteggiare a Torino l’avvicinato dalla CIA Giuliano Ferrrara detto Cicciopotamo ed altre compagnie, passate e recenti, di egual prestigio al ritorno da un viaggio in Afghanistan. Dalla Terra delle Montagne… all’Oceano Indiano.
Mercoledì 19 Gennaio Daniele Mastrogiacomo, corrispondente de La Repubblicadal 1992, con abbondanti trascorsi al percolato, firma a pag. 16 del quotidiano di Ezio Mauro un articolo sul sequestro della petroliera italiana Savina Kaylyn nell’Oceano Indiano, a 880 miglia nautiche dalle coste somale.
La Savina Kaylyn, che ha una stazza di 105.000 tonnellate ed una lunghezza di 226 mt, proveniva dal porto di Bashayer in Sudan, dove aveva caricato greggio ed era diretta a Pasir Gudang in Malaysia. Il Sudan è nella lista nera di USA ed Unione Europea, la Malaysia né è fuori ma tenuta egualmente sotto tiro come Paese “amico” del presidente Bashir.
E’ una delle 40 navi della flotta napoletana dei Fratelli d’Amato. A bordo ci sono 22 uomini di equipaggio, 5 tra cui il comandante sono italiani, e 17 indiani.
Secondo un comunicato del Comando Eunavfor (missione Atalanta), la supertank Kaylyn, a quanto scrive Mastrogiacomo, sarebbe stata assaltata da una barca a vela di due metri che arrancava, durante la notte, in mezzo all’Oceano.
Una barchetta – scriverà – elude i radar ed è difficile vederla ad occhio nudo. Cinque pirati si sono avvicinati (continuiamo la riportare la sua narrazione) nascondendosi sotto la fiancata della nave e l’hanno abbordata.
Solo in quel momento è scattato l’allarme. La Savina ha iniziato ad accelerare ed a rallentare, a cambiare rotta con improvvise virate. L’equipaggio ha azionato gli idranti di bordo, ha cercato di investire con i getti d’acqua i tre uomini che si arrampicavano lungo la fiancata (resa viscida dalla salsedine sugli strati di vernice, alta in perpendicolare dagli 8 ai 10 mt anche a pieno carico…), gli altri due sparavano colpi di pistola all’indirizzo della nave.
Risparmiamo il resto del “pezzo”, è il caso di dirlo, ai Lettori per non offenderne l’intelligenza sulle modalità dell’abbordaggio e della “conquista” della plancia comando della Kaylyn.
Questa è ormai la qualità dell’”informazione” che circola sul quotidiano più letto nella Repubblica delle Banane. Azionista di riferimento un certo Carlo De Benedetti.
Mastrogiacomo senza vergognarsene nemmeno un po’ ridicolizza nei fatti il “sequestro”, riporta intenzionalmente la pagliaccesca versione – a suo dire – raccolta al Comando Eunavfor nel quadro dell’operazione Atalanta.
Una “missione” che costa alle tasche degli Italiani 25 milioni di euro all’anno dal Dicembre 2008 ed altri 10-12 agli armatori nazionali per allungare le rotte ed evitare “attacchi pirati”, più altre maxi elargizioni che vanno perennemente a buon fine e non lasciano tracce (sono in contanti) per il rilascio di ogni nave da trasporto, o rimorchiatore con pontoni, sequestrato.
Per conto di chi “scrive” Mastrogiacomo che sta più in alto del direttore e del padre-padrone de La Repubblica?
Cosa c’è dietro? Solo sfacciata, ributtante “disinformazione” per cloroformizzare, per annullare, la curiosità di chi legge?
Le navi madri dei “pirati” del Somaliland e del Puntland seguono una rotta di avvicinamento al “target” con comunicazione satellitare.
Un segnale che non può essere captato dai centri di ascolto appartenenti a “Stati canaglia” od a Paesi come Cina, Russia, Pakistan, India, basati su piattaforme navali.
Un rilevamento che fornisce in successione una rotta di avvicinamento, per poi lasciare alla nave madre la scoperta radar del target nelle ultime 20-50 miglia.
Per capire chi sia dietro a questa nuova pirateria basta e avanza conoscere il numero dei mercantili di proprietà USA sequestrati dai “nuovi corsari” con Rpg-7 ed AK-47, dotati, si fa per dire, di imbarcazioni il più delle volte di approntamento fluviale, senza carena, di 5-7 metri spinte da motori dai 25 ai 50 cv, mancanti di scalette di abbordaggio, ramponi lanciati da cariche esplosive e scorte di benzina, che intercettano, senza apparente difficoltà, il naviglio in transito lungo le coste che vanno dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano a centinaia di km dalle coste dell’Africa e dell’Asia.
La risposta, a quanto ne sappiamo, è zero ad eccezione di un assalto ad una porta-contenitori liberata dall’intervento di un’unità da guerra della US Navy, finito con l’uccisione di tre sequestratori colpiti da tiratori scelti a bordo di un gommone da salvataggio.
Una storia che faceva acqua da tutte le parti.
Dal Dicembre 2008 nessuna altra unità a stelle e strisce risulta abbordata e sequestrata dai nuovi abbronzantissimi Capitan Uncino.
Operazioni che consentono tra l’altro accurate ispezioni ai carichi trasportati che possano risultare sospetti come materiali “dual-use” partenti da “Stati canaglia” e destinati ad altri Paesi inclusi nella lista di Paesi giudicati avversari o potenziali nemici dell’Occidente.
Ritorniamo alla Savina Kaylyn, dopo che l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri ha lanciato l’allarme, arrivato alla Farnesina dal telefono satellitare in dotazione ai “pirati” (sic).
L’allerta arriva al Ministero della Difesa. Parte la comunicazione alla fregata Zeffiro di intercettare la Kaylyn, la nave della Marina Militare è a due giorni d navigazione.
Dal quel momento in poi nessun altra notizia, nemmeno di agenzia, arriverà a conoscenza dell’opinione pubblica del Bel Paese. Il silenzio dal giorno 20 Gennaio ad oggi è inspiegabilmente totale.
Vuoi vedere che la Zeffiro si è arresa a 5 pirati dopo aver alzato sul pennone di dritta una bella bandiera bianca e ci faranno trovare a tempo scaduto la Savrina Kaylyn ancorata a 500-700 km da un villaggio di pescatori filibustieri del Puntland o del Somaliland? Ma davvero l’ex colonia italiana è divisa in tre pezzettoni?
E’ l’Onu e Ban Ki Moon che fanno stampare le nuove carte geografiche del Corno d’Africa? O chi altro?
Frattini e La Russa riescono davvero a calarsi le mutande anche davanti a qualche delinquente morto di fame o si vuole finanziare al “nero” i pirati?
Non apriamo bocca per fare fiato e non mettiamo punti interrogativi a casaccio.
Gli armatori italiani hanno richiesto da almeno due anni al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, che i mercantili battenti la nostra bandiera abbiano a bordo un nucleo di Fucilieri del Battaglione S. Marco.
Ad avanzare la proposta alla Marina Militare è stato Stefano Messina, uno degli armatori più danneggiati dai sequestri in pieno Oceano. Sarebbero sufficienti, a suo giudizio, 5 marò per nave mercantile.
Il costo della scorta armata sarebbe stato a carico di Confitarma, l’associazione di categoria.
E’ a rischio – ha sostenuto più volte – anche incolumità del nostro personale navigante. L’Ammiraglio Fabio Caffio dello S.M della Marina Militare ha dato la sua approvazione.
La Russa ha risposto picche per un problema – sentite, sentite – di competenze e di “prestigio”. Quale?
“I militari non possono essere posti sotto il comando di un pur bravo capitano di lungo corso della marina mercantile”.
Vi viene voglia di ridere preso atto che il Ministro della Difesa manda il Genio Militare a togliere centinaia di tonnellate di spazzatura dalle strade di Napoli, svende immobili, fari, arsenali, privatizza le Forze Armate, licenzia, precarizza e blocca gli stipendi del personale dipendente? Non lo fate.
Il titolare di Palazzo Baracchini non vuole che si sappia in giro, da fonte attendibile, cosa succede davvero da Bab el-Mandeb al Golfo Persico e più in là in pieno Oceano Indiano, fino allo Stretto di Malacca.
In alternativa avrebbe proposto, senza andare poi a fondo della faccenduola, per liberarsi dal pressing di Messina, di affidare la sicurezza delle navi degli armatori italiani ad un agenzia di “contractors” a stelle e strisce. Non stiamo scherzando.
Mesi fa, un cacciatorpediniere dell’India ha fatto fuoco e colato a picco una “nave madre” lungo le coste del Kenia.
Appena 72 ore più tardi Mumbai è stata scossa da quel colossale attentato terroristico che ricorderete.
La Russia di “navi madri” ne ha affondate, per quanto ne sappiamo, una dozzina, con mitragliatrici singole da 14.7 mm e cannoni a canne ruotanti da 30 mm, pagando il prezzo della libertà di navigazione commerciale con l’intensificazione di attentati a Mosca e nel Caucaso.
Se si vuole, si può liquidare il tutto come coincidenze fortuite o fantasie che corrono a ruota libera.

di Giancarlo Chetoni

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

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Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi

19 febbraio 2011

Italia atlantica

Dalla cooperazione militare con “Israele” alla missione anti-pirateria nell’Oceano Indiano: fenomenologia aggiornata di una sudditanza rigorosamente bipartisan

Venerdì 10 Dicembre si è conclusa l’esercitazione Vega 2010 che ha visto la partecipazione di assetti italiani, israeliani e della NATO. La seconda fase, caratterizzata da missioni di tipo “air to round” ha visto impegnati
i cacciabombardieri Tornado ECR di Piacenza e IDS (“interdiction strike”) del 6° stormo di Ghedi. In Israele le missioni dei velivoli italiani consistevano nell’eliminare od eludere con i Tornado ECR lo sbarramento difensivo costituito dalle difese contraeree e dai caccia in volo e permettere ai Tornado IDS di arrivare sull’obbiettivo con lo sgancio di armamento di precisione.
Ovda è una località a nord di Eilat, a 40 miglia dal confine con l’Egitto. Alla periferia della città, in pieno deserto, c’è un aerostazione per uso passeggeri e, decentrate, infrastrutture, rifugi corazzati, radar e piste di volo da dove decollano e atterrano cacciabombardieri con la stella di Davide F-15 e F-16.
Cosa ci facevano i (nostri) Tornado Panavia con le insegne della NATO in “Israele” a meno di due mesi dalla defenestrazione di Mubarak?
Si esercitavano alla guerra “preventiva” contro il Paese delle Piramidi.
C’è in vigore un memorandum di intesa tra la Repubblica Italiana e lo Stato sionista in materia di cooperazione militare firmato a Parigi dal Ministro della Difesa Martino e dal Generale Shaoul Mofaz il 16 Giugno 2003, rinnovato nel 2008. In forza di questo trattato non sono previste missioni dell’Aereonautica Militare Italiana in “Israele”. Il documento parla chiaro.
L’intesa tra i contraenti in uno dei dieci articoli contempla altresì l’inserimento di clausole segrete. Facile capire che ce ne devono essere state.
Perchè fu scelta la capitale transalpina per firmare quel patto?
Per marcare la differenza con la politica “araba” del Presidente Chirac, eletto per due mandati consecutivi alla guida della Francia, dal Maggio 1995 al Maggio 2007. Chirac farà curare il leader dell’ANP Arafat all’Ospedale Militare di Percy e gli farà tributare, alla morte, nel Novembre del 2004, solenni funerali militari.
I governi del Bel Paese, all’opposto, hanno sempre avuto un debole per la “sicurezza” di “Israele”, strafregandosene della Palestina. Che non sia quella di Abu Mazen e di Erekat tirata fuori da Al-Jazeera.
Non dimentichiamoci di un particolare di per sè ampiamente significativo. Sia gli esecutivi Berlusconi che Prodi hanno sempre avuto Ministri degli Esteri e della Difesa o molto, ma molto vicini, a “Gerusalemme” o adeguatamente solidali.
La collocazione geografica dell’”air base” di Ovda e la data scelta congiuntamente da La Russa e Barak sono state intenzionali in previsione di un “cambio della guardia” in Egitto?
La risposta è sì.
Non è affatto vero, come si è sostenuto, che la rivolta partita da piazza Tahir abbia colto di sorpresa l’intera l’Amministrazione USA, la NATO e l’Europa.
Chi crede che le manifestazioni popolari siano state la spinta decisiva del “change” nella Terra del Nilo è semplicemente fuori strada. E’ da tempo che il seme di un “golpe” cova nel ventre dell’Egitto.
La frattura generazionale nelle strutture centrali e perferiche delle forze armate egiziane mandava da tempo segnali preoccupanti per l’Occidente.
Il Maresciallo Tantawi, liquidando Mubarak ed il suo intero apparato di potere, prendendo le redini del “nuovo Egitto” ha semplicemente evitato, almeno per ora, la totale emarginazione delle gerarchie militari di alto grado che hanno assecondato per oltre 30 anni la politica della “vacca che ride”.
Una politica, è bene ricordarlo, che ha trasformato Esercito, Marina, Aviazione e Difesa Aerea in strumenti da parata militare.
Abbiamo sfogliato l’Almanacco dell’Egitto pagina per pagina. Ne siamo rimasti sinceramente sorpresi, amareggiati. Il Paese del Nilo come forza combattente non esiste più al di là dei numeri e delle dotazioni.
Niente che possa davvero impensierire al momento e per i prossimi 10 anni “Israele”, ammesso che si trovi un solido ancoraggio con attori internazionali nel settore degli armamenti come Russia e Cina ed i finanziamenti necessari per attuare una completa ristrutturzione militare e, ancor prima, le risorse necessarie per dare avvio nel Paese ad un nuovo indirizzo economico e sociale. Uscire da decine di anni di “dipendenza” dall’Occidente è un affare da far tremare i polsi. I meccanismi del dialogo euromediterraneo, i prestiti del FMI, di USA ed Europa, la dipendenza dal turismo occidentale, le monoculture, le massiccie importazioni di granaglie hanno fatto il resto.
A livello di “comunità internazionale” si farà di tutto per mantenere l’Egitto in stato di costante precarietà economica senza farlo precipitare nel caos.
Torniano a Eilat.
Per la “missione” ad Ovda, La Russa ha lavorato da sguattero di USA e NATO per mandare oltre il canale di Suez precisi segnali finalizzati al rispetto ed alla continuità degli accordi di pace firmati nel ’76 da Begin e Sadat ed al mantenimento della “sicurezza” per Gerusalemme.
Non era mai successo che l’A.M.I., come rappresentante della NATO, partecipasse ad un azione simulata di guerra nello spazio aereo di “Israele” intenzionalmente diretta ad intimidire, a minacciare, un Paese del Medio
Oriente.
L’uso di vettori per la guerra elettronica (ECR) e da attacco al suolo (IDS), decollati da una base dell’aviazione ad un tiro di sputo dalla linea C del Sinai egiziano, non può non assumere un preciso significato politico e militare nei rapporti che, prevedibilmente, intercorreranno tra Roma ed il Cairo dopo l’uscita di cena di Mubarak e più estesamente tra l’Italia ed i Paesi dell’intera area.
Il decollo dei Tornado da una striscia di terra che va dal Golfo di ‘Aqaba al Mediterraneo, e segna per 260 km il confine tra i due Stati, non potrà non essere interpretato da ampi settori di opinione pubblica e dalle organizzazioni politiche egiziane che escono da protagoniste dalla rivolta del 25 Gennaio come un gesto ostile.
A tempi medio-lunghi ne potrebbero risentire pesantemente anche i rapporti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L’intera costa mediterranea del Paese del Nilo potrebbe trasformarsi, come effetto indesiderato, in punti di raccolta e di imbarco per l’esodo sempre più massiccio che dal Maghreb all’Africa Subsahariana si riversa ormai da anni sulle coste della Repubblica delle Banane.
“Israele” non ha mai restituito all’Egitto dal ’67, nonostante gli accordi di pace perfezionati nel ’78, prima del ritiro di “Gerusalemme” dal resto della penisola araba nell”82, la fascia D del Sinai.
In questo corridoio l’I.D.F. mantiene pattuglie di perlustrazione, blindate, per un totale di 400 militari.
Osserviamo nel fratempo come tv e giornali nel Bel Paese si stiano dando un gran daffare in questi giorni per addolcire la liquidazione coatta di Mubarak, di Suleyman e dell’intero governo del “rais”, cavalcando la barzelletta della caduta di un nuovo muro di Berlino. Il nesso appare più che forzato, incredibilmente ridicolo.
Ma così è se… vi pare.
Sono arrivati al punto di mandare sui telegiornali delle vecchie riprese del maresciallo Tantawi a colloquio con Barak quando comandava il sarcofago ambulante del Cairo per mettere al sicuro, in cassaforte, la continuità, anche in un prossimo futuro, degli “accordi” di Camp David.

E ora un altro “mistero” che riguarda il solito on. Ignazio La Russa, tornato a corteggiare a Torino l’avvicinato dalla CIA Giuliano Ferrrara detto Cicciopotamo ed altre compagnie, passate e recenti, di egual prestigio al ritorno da un viaggio in Afghanistan. Dalla Terra delle Montagne… all’Oceano Indiano.
Mercoledì 19 Gennaio Daniele Mastrogiacomo, corrispondente de La Repubblicadal 1992, con abbondanti trascorsi al percolato, firma a pag. 16 del quotidiano di Ezio Mauro un articolo sul sequestro della petroliera italiana Savina Kaylyn nell’Oceano Indiano, a 880 miglia nautiche dalle coste somale.
La Savina Kaylyn, che ha una stazza di 105.000 tonnellate ed una lunghezza di 226 mt, proveniva dal porto di Bashayer in Sudan, dove aveva caricato greggio ed era diretta a Pasir Gudang in Malaysia. Il Sudan è nella lista nera di USA ed Unione Europea, la Malaysia né è fuori ma tenuta egualmente sotto tiro come Paese “amico” del presidente Bashir.
E’ una delle 40 navi della flotta napoletana dei Fratelli d’Amato. A bordo ci sono 22 uomini di equipaggio, 5 tra cui il comandante sono italiani, e 17 indiani.
Secondo un comunicato del Comando Eunavfor (missione Atalanta), la supertank Kaylyn, a quanto scrive Mastrogiacomo, sarebbe stata assaltata da una barca a vela di due metri che arrancava, durante la notte, in mezzo all’Oceano.
Una barchetta – scriverà – elude i radar ed è difficile vederla ad occhio nudo. Cinque pirati si sono avvicinati (continuiamo la riportare la sua narrazione) nascondendosi sotto la fiancata della nave e l’hanno abbordata.
Solo in quel momento è scattato l’allarme. La Savina ha iniziato ad accelerare ed a rallentare, a cambiare rotta con improvvise virate. L’equipaggio ha azionato gli idranti di bordo, ha cercato di investire con i getti d’acqua i tre uomini che si arrampicavano lungo la fiancata (resa viscida dalla salsedine sugli strati di vernice, alta in perpendicolare dagli 8 ai 10 mt anche a pieno carico…), gli altri due sparavano colpi di pistola all’indirizzo della nave.
Risparmiamo il resto del “pezzo”, è il caso di dirlo, ai Lettori per non offenderne l’intelligenza sulle modalità dell’abbordaggio e della “conquista” della plancia comando della Kaylyn.
Questa è ormai la qualità dell’”informazione” che circola sul quotidiano più letto nella Repubblica delle Banane. Azionista di riferimento un certo Carlo De Benedetti.
Mastrogiacomo senza vergognarsene nemmeno un po’ ridicolizza nei fatti il “sequestro”, riporta intenzionalmente la pagliaccesca versione – a suo dire – raccolta al Comando Eunavfor nel quadro dell’operazione Atalanta.
Una “missione” che costa alle tasche degli Italiani 25 milioni di euro all’anno dal Dicembre 2008 ed altri 10-12 agli armatori nazionali per allungare le rotte ed evitare “attacchi pirati”, più altre maxi elargizioni che vanno perennemente a buon fine e non lasciano tracce (sono in contanti) per il rilascio di ogni nave da trasporto, o rimorchiatore con pontoni, sequestrato.
Per conto di chi “scrive” Mastrogiacomo che sta più in alto del direttore e del padre-padrone de La Repubblica?
Cosa c’è dietro? Solo sfacciata, ributtante “disinformazione” per cloroformizzare, per annullare, la curiosità di chi legge?
Le navi madri dei “pirati” del Somaliland e del Puntland seguono una rotta di avvicinamento al “target” con comunicazione satellitare.
Un segnale che non può essere captato dai centri di ascolto appartenenti a “Stati canaglia” od a Paesi come Cina, Russia, Pakistan, India, basati su piattaforme navali.
Un rilevamento che fornisce in successione una rotta di avvicinamento, per poi lasciare alla nave madre la scoperta radar del target nelle ultime 20-50 miglia.
Per capire chi sia dietro a questa nuova pirateria basta e avanza conoscere il numero dei mercantili di proprietà USA sequestrati dai “nuovi corsari” con Rpg-7 ed AK-47, dotati, si fa per dire, di imbarcazioni il più delle volte di approntamento fluviale, senza carena, di 5-7 metri spinte da motori dai 25 ai 50 cv, mancanti di scalette di abbordaggio, ramponi lanciati da cariche esplosive e scorte di benzina, che intercettano, senza apparente difficoltà, il naviglio in transito lungo le coste che vanno dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano a centinaia di km dalle coste dell’Africa e dell’Asia.
La risposta, a quanto ne sappiamo, è zero ad eccezione di un assalto ad una porta-contenitori liberata dall’intervento di un’unità da guerra della US Navy, finito con l’uccisione di tre sequestratori colpiti da tiratori scelti a bordo di un gommone da salvataggio.
Una storia che faceva acqua da tutte le parti.
Dal Dicembre 2008 nessuna altra unità a stelle e strisce risulta abbordata e sequestrata dai nuovi abbronzantissimi Capitan Uncino.
Operazioni che consentono tra l’altro accurate ispezioni ai carichi trasportati che possano risultare sospetti come materiali “dual-use” partenti da “Stati canaglia” e destinati ad altri Paesi inclusi nella lista di Paesi giudicati avversari o potenziali nemici dell’Occidente.
Ritorniamo alla Savina Kaylyn, dopo che l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri ha lanciato l’allarme, arrivato alla Farnesina dal telefono satellitare in dotazione ai “pirati” (sic).
L’allerta arriva al Ministero della Difesa. Parte la comunicazione alla fregata Zeffiro di intercettare la Kaylyn, la nave della Marina Militare è a due giorni d navigazione.
Dal quel momento in poi nessun altra notizia, nemmeno di agenzia, arriverà a conoscenza dell’opinione pubblica del Bel Paese. Il silenzio dal giorno 20 Gennaio ad oggi è inspiegabilmente totale.
Vuoi vedere che la Zeffiro si è arresa a 5 pirati dopo aver alzato sul pennone di dritta una bella bandiera bianca e ci faranno trovare a tempo scaduto la Savrina Kaylyn ancorata a 500-700 km da un villaggio di pescatori filibustieri del Puntland o del Somaliland? Ma davvero l’ex colonia italiana è divisa in tre pezzettoni?
E’ l’Onu e Ban Ki Moon che fanno stampare le nuove carte geografiche del Corno d’Africa? O chi altro?
Frattini e La Russa riescono davvero a calarsi le mutande anche davanti a qualche delinquente morto di fame o si vuole finanziare al “nero” i pirati?
Non apriamo bocca per fare fiato e non mettiamo punti interrogativi a casaccio.
Gli armatori italiani hanno richiesto da almeno due anni al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, che i mercantili battenti la nostra bandiera abbiano a bordo un nucleo di Fucilieri del Battaglione S. Marco.
Ad avanzare la proposta alla Marina Militare è stato Stefano Messina, uno degli armatori più danneggiati dai sequestri in pieno Oceano. Sarebbero sufficienti, a suo giudizio, 5 marò per nave mercantile.
Il costo della scorta armata sarebbe stato a carico di Confitarma, l’associazione di categoria.
E’ a rischio – ha sostenuto più volte – anche incolumità del nostro personale navigante. L’Ammiraglio Fabio Caffio dello S.M della Marina Militare ha dato la sua approvazione.
La Russa ha risposto picche per un problema – sentite, sentite – di competenze e di “prestigio”. Quale?
“I militari non possono essere posti sotto il comando di un pur bravo capitano di lungo corso della marina mercantile”.
Vi viene voglia di ridere preso atto che il Ministro della Difesa manda il Genio Militare a togliere centinaia di tonnellate di spazzatura dalle strade di Napoli, svende immobili, fari, arsenali, privatizza le Forze Armate, licenzia, precarizza e blocca gli stipendi del personale dipendente? Non lo fate.
Il titolare di Palazzo Baracchini non vuole che si sappia in giro, da fonte attendibile, cosa succede davvero da Bab el-Mandeb al Golfo Persico e più in là in pieno Oceano Indiano, fino allo Stretto di Malacca.
In alternativa avrebbe proposto, senza andare poi a fondo della faccenduola, per liberarsi dal pressing di Messina, di affidare la sicurezza delle navi degli armatori italiani ad un agenzia di “contractors” a stelle e strisce. Non stiamo scherzando.
Mesi fa, un cacciatorpediniere dell’India ha fatto fuoco e colato a picco una “nave madre” lungo le coste del Kenia.
Appena 72 ore più tardi Mumbai è stata scossa da quel colossale attentato terroristico che ricorderete.
La Russia di “navi madri” ne ha affondate, per quanto ne sappiamo, una dozzina, con mitragliatrici singole da 14.7 mm e cannoni a canne ruotanti da 30 mm, pagando il prezzo della libertà di navigazione commerciale con l’intensificazione di attentati a Mosca e nel Caucaso.
Se si vuole, si può liquidare il tutto come coincidenze fortuite o fantasie che corrono a ruota libera.

di Giancarlo Chetoni