04 marzo 2011

La chiarezza di Chavez sull'ipocrisia USA


Non ha usato mezzi termini, come suo solito, il presidente venezuelano per mettere a fuoco la situazione della politica internazionale in merito alle prese di posizione su quanto sta avvenendo in Libia. Chavez, tra le altre cose, ha il pregio di rendere la diplomazia comprensibile ai più in occasioni del genere. Il presidente è “sicuro che gli Stati Uniti stanno esagerando le cose per giustificare una invasione in Libia", e ancora che "sono impazziti per il petrolio libico”.

Si riferisce naturalmente alla neanche tanto velata volontà, da parte dell'Occidente e in primo luogo degli Usa, di iniziare una ennesima missione umanitaria in Libia.

Le dichiarazioni della Clinton dei giorni scorsi, volte a posizionare gli Stati Uniti al fianco dei ribelli, sono da considerarsi in tal senso, con una ulteriore precisazione, naturalmente, ben oltre l'ipocrisia di un governo, quello Usa, che praticamente in ogni dove nel mondo vi siano risorse da sfruttare e capi di governo da insediare al proprio soldo per perpetrare i propri affari non si tirano indietro per nessun motivo al mondo. Così come non badano a spese, e a coinvolgere l'Europa, per affrontare campagne militari dietro la falsa e bieca motivazione dell'impegno umanitario.

Dell'umanità, bisogna pure che qualcuno lo dica, agli Stati Uniti non importa un fico secco. Anche perché altrimenti non si spiega il motivo per il quale la stessa Amministrazione non si tiri certo indietro, in merito a bombardamenti dall'alto sulla popolazione inerme, nel caso in cui gli interessi siano marcati a stelle e strisce.

Anche in questo caso, tornano utilissime le parole di Chavez, che se da una parte, sia chiaro, ci tiene a precisare che "non sostiene Gheddafi", dall'altro lato rammenta che "quelli che hanno condannato immediatamente la Libia, erano stati muti di fronte ai bombardamenti israeliani causa di migliaia e migliaia di morti, compresi bambini, donne, intere famiglie; sono stati zitti di fronte ai bombardamenti e ai massacri in Iraq, in Afghanistan”.

Ad ogni modo, sulla Libia si stanno preparando a fare carne di porco. Le navi statunitensi stanno riposizionandosi sui mari e iniziano a incrociare a distanza utile per un intervento imminente. In Europa, oltre alla risoluzione Onu e al congelamento dei beni di Gheddafi, si paventa l'istituzione di una no fly zone nello stesso momento in cui dalla Russia si definisce il rais libico come un "cadavere politico" e dove anche la Cina, solitamente restia, dal punto di vista diplomatico, a rilasciare dichiarazioni pesanti, in questo caso ha fatto sentire la sua voce di concerto con tutte le altre provenienti dall'Occidente (soprassediamo, per carità verso il lettore, sulle dichiarazioni dei nostri Frattini e Berlusconi…).

Il punto insomma dovrebbe essere ormai chiaro: Tripoli è assediata ma non solo dai ribelli, e se da una parte è certa la fine politica di Gheddafi, è parimenti certo il fatto che, sebbene ancora timidamente, ovvero senza scoprirsi troppo, tutti i paesi del mondo, in pratica, stiano girando come avvoltoi per piantare la propria bandierina, e i propri pozzi, direttamente o mediante un nuovo governo fantoccio, sulla Libia.

Tutto è nelle mani, come in Egitto, dei popoli che stanno conducendo la rivolta. Perché il rischio più grande, in questo caso come in altri, risiede nel fatto che una volta liberatisi - giustamente, se lo ritengono necessario - del rais di turno, potrebbero trovarsi sotto la dittatura, dolce, melliflua e corrompente, del nostro modello di sviluppo.

Vale la pena chiarire che in Libia il reddito pro capite è circa il triplo rispetto a quello delle altre regioni del Nord Africa, e che dunque, anche se la componente economica è stata certamente una fra quelle determinanti per far scattare la rivolta, non è affatto detto che la molla della fame sia l'unica a essere caricata nelle menti della gente in piazza. Potrebbero esserci anche altre e ben più importanti motivazioni, per esempio di carattere squisitamente politico e ideologico, ad aver fatto muovere i ribelli contro Gheddafi. Così come nelle rivolte d'Egitto.

Il che rappresenta il vero e proprio incubo nelle notti di Washington. Ma di questo, un'altra volta.

Per ora basti tenere la luce accesa sul fatto che, come sempre, i motivi per i quali si paventano interventi da parte dell'Occidente sono ovviamente del tutto avulsi da motivazioni umanitarie, ma rappresentano interessi di due tipologie ben precise: materie prime e basi geopolitiche.

Ovvero petrolio e controllo di luoghi strategici in una delle parti più importanti, a tal fine, del mondo.

Intanto, di passaggio, per capire la più alta posta in gioco nello scacchiere mediorientale, registriamo, e comunichiamo, che la Borsa dell'Arabia Saudita, in soli quattro giorni, ha perso il 16%.

Che ne dite, ci sarà un intervento o lasceranno Egitto e Libia a fare la propria storia da sé come è giusto che sia?
di Valerio Lo Monaco

La profezia ignorata: "Una massa di disperati seppellirà l'Occidente"



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Un romanzo francese del 1973 aveva previsto l'ondata di migranti. Un evento che la sinistra ha sempre negato. Per la paura di affrontarlo
Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e bar­coni, carica di un milione di emigranti. Poveracci in pre­da alla miseria, intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati, posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro, cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza » per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque? Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...

Nel 1973, quando Le Camp des Saints di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si avvale di una prefazione ad hoc del suo au-tore, è forse giunto il momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart. Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di quello che una volta si definiva mare nostrum , sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un leader come il britannico Cameron parla del fallimento del multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno affer-rare, come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera , che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si presenta e ci schiaccia?».

Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe, credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso, «i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può esserlo anche per Roma?».

Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario, applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute, l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo interno.

La questione dell’immigrazione era ancora in fasce, ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo, la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto (sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali, alloggi eccetera) ha fatto il resto.

Nel Camp des Saints , non è in discussione la religione. Non è la minaccia del fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un attentato alla personalità umana ».

Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto, qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore... Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea...

Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.

di Stenio Solinas

03 marzo 2011

Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia

http://www.haisentito.it/img/esercito-americano-in-iraq.jpg

Il fattore lobby nella crisi libica


Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.

A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.

Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.

In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.

Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.

Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?

di Claudio Moffa

04 marzo 2011

La chiarezza di Chavez sull'ipocrisia USA


Non ha usato mezzi termini, come suo solito, il presidente venezuelano per mettere a fuoco la situazione della politica internazionale in merito alle prese di posizione su quanto sta avvenendo in Libia. Chavez, tra le altre cose, ha il pregio di rendere la diplomazia comprensibile ai più in occasioni del genere. Il presidente è “sicuro che gli Stati Uniti stanno esagerando le cose per giustificare una invasione in Libia", e ancora che "sono impazziti per il petrolio libico”.

Si riferisce naturalmente alla neanche tanto velata volontà, da parte dell'Occidente e in primo luogo degli Usa, di iniziare una ennesima missione umanitaria in Libia.

Le dichiarazioni della Clinton dei giorni scorsi, volte a posizionare gli Stati Uniti al fianco dei ribelli, sono da considerarsi in tal senso, con una ulteriore precisazione, naturalmente, ben oltre l'ipocrisia di un governo, quello Usa, che praticamente in ogni dove nel mondo vi siano risorse da sfruttare e capi di governo da insediare al proprio soldo per perpetrare i propri affari non si tirano indietro per nessun motivo al mondo. Così come non badano a spese, e a coinvolgere l'Europa, per affrontare campagne militari dietro la falsa e bieca motivazione dell'impegno umanitario.

Dell'umanità, bisogna pure che qualcuno lo dica, agli Stati Uniti non importa un fico secco. Anche perché altrimenti non si spiega il motivo per il quale la stessa Amministrazione non si tiri certo indietro, in merito a bombardamenti dall'alto sulla popolazione inerme, nel caso in cui gli interessi siano marcati a stelle e strisce.

Anche in questo caso, tornano utilissime le parole di Chavez, che se da una parte, sia chiaro, ci tiene a precisare che "non sostiene Gheddafi", dall'altro lato rammenta che "quelli che hanno condannato immediatamente la Libia, erano stati muti di fronte ai bombardamenti israeliani causa di migliaia e migliaia di morti, compresi bambini, donne, intere famiglie; sono stati zitti di fronte ai bombardamenti e ai massacri in Iraq, in Afghanistan”.

Ad ogni modo, sulla Libia si stanno preparando a fare carne di porco. Le navi statunitensi stanno riposizionandosi sui mari e iniziano a incrociare a distanza utile per un intervento imminente. In Europa, oltre alla risoluzione Onu e al congelamento dei beni di Gheddafi, si paventa l'istituzione di una no fly zone nello stesso momento in cui dalla Russia si definisce il rais libico come un "cadavere politico" e dove anche la Cina, solitamente restia, dal punto di vista diplomatico, a rilasciare dichiarazioni pesanti, in questo caso ha fatto sentire la sua voce di concerto con tutte le altre provenienti dall'Occidente (soprassediamo, per carità verso il lettore, sulle dichiarazioni dei nostri Frattini e Berlusconi…).

Il punto insomma dovrebbe essere ormai chiaro: Tripoli è assediata ma non solo dai ribelli, e se da una parte è certa la fine politica di Gheddafi, è parimenti certo il fatto che, sebbene ancora timidamente, ovvero senza scoprirsi troppo, tutti i paesi del mondo, in pratica, stiano girando come avvoltoi per piantare la propria bandierina, e i propri pozzi, direttamente o mediante un nuovo governo fantoccio, sulla Libia.

Tutto è nelle mani, come in Egitto, dei popoli che stanno conducendo la rivolta. Perché il rischio più grande, in questo caso come in altri, risiede nel fatto che una volta liberatisi - giustamente, se lo ritengono necessario - del rais di turno, potrebbero trovarsi sotto la dittatura, dolce, melliflua e corrompente, del nostro modello di sviluppo.

Vale la pena chiarire che in Libia il reddito pro capite è circa il triplo rispetto a quello delle altre regioni del Nord Africa, e che dunque, anche se la componente economica è stata certamente una fra quelle determinanti per far scattare la rivolta, non è affatto detto che la molla della fame sia l'unica a essere caricata nelle menti della gente in piazza. Potrebbero esserci anche altre e ben più importanti motivazioni, per esempio di carattere squisitamente politico e ideologico, ad aver fatto muovere i ribelli contro Gheddafi. Così come nelle rivolte d'Egitto.

Il che rappresenta il vero e proprio incubo nelle notti di Washington. Ma di questo, un'altra volta.

Per ora basti tenere la luce accesa sul fatto che, come sempre, i motivi per i quali si paventano interventi da parte dell'Occidente sono ovviamente del tutto avulsi da motivazioni umanitarie, ma rappresentano interessi di due tipologie ben precise: materie prime e basi geopolitiche.

Ovvero petrolio e controllo di luoghi strategici in una delle parti più importanti, a tal fine, del mondo.

Intanto, di passaggio, per capire la più alta posta in gioco nello scacchiere mediorientale, registriamo, e comunichiamo, che la Borsa dell'Arabia Saudita, in soli quattro giorni, ha perso il 16%.

Che ne dite, ci sarà un intervento o lasceranno Egitto e Libia a fare la propria storia da sé come è giusto che sia?
di Valerio Lo Monaco

La profezia ignorata: "Una massa di disperati seppellirà l'Occidente"



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Un romanzo francese del 1973 aveva previsto l'ondata di migranti. Un evento che la sinistra ha sempre negato. Per la paura di affrontarlo
Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e bar­coni, carica di un milione di emigranti. Poveracci in pre­da alla miseria, intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati, posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro, cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza » per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque? Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...

Nel 1973, quando Le Camp des Saints di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si avvale di una prefazione ad hoc del suo au-tore, è forse giunto il momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart. Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di quello che una volta si definiva mare nostrum , sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un leader come il britannico Cameron parla del fallimento del multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno affer-rare, come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera , che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si presenta e ci schiaccia?».

Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe, credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso, «i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può esserlo anche per Roma?».

Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario, applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute, l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo interno.

La questione dell’immigrazione era ancora in fasce, ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo, la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto (sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali, alloggi eccetera) ha fatto il resto.

Nel Camp des Saints , non è in discussione la religione. Non è la minaccia del fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un attentato alla personalità umana ».

Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto, qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore... Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea...

Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.

di Stenio Solinas

03 marzo 2011

Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia

http://www.haisentito.it/img/esercito-americano-in-iraq.jpg

Il fattore lobby nella crisi libica


Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.

A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.

Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.

In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.

Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.

Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?

di Claudio Moffa